SALUTE E BENESSERE

Cibodipendenti - Anteprima del libro di Catherine Hervais

Cosa si nasconde dietro a un sintomo

Cosa si nasconde dietro a un sintomo

Essendo una psicologa parecchio influenzata dalla psicoanalisi, si suppone che non m’interessino i sintomi delle persone.

Se il sintomo (bulimia, insonnia, ulcera, attacchi depressivi o altro) non ha una causa organica, non è l’origine del problema, ma il segno di qualcosa che non va: un malessere interiore, un conflitto, un’energia bloccata. All’apparenza può sembrare tutto in ordine (come già detto, spesso è così nel caso dei bulimici), ma qualcosa si è inceppato da qualche parte.

Oggigiorno, nuove terapie molto efficaci adottano un approccio analitico, secondo il quale il sintomo è solo la punta dell’iceberg. Per quanto mi riguarda, so bene che i sintomi hanno una funzione riequilibrante per la mente concettuale. D’altronde, dico ai bulimici, sin dalla loro prima seduta di gruppo, che gli attacchi di bulimia di per sé non m’interessano: ne possono avere quanti ne vogliono, e anche di più! Ovviamente li invito a farsi seguire con regolarità da un medico, affinché la dipendenza non danneggi gravemente la loro salute. Questo li sorprende, dal momento che spesso sono reduci da altre terapie, in cui invece tutti gli sforzi erano rivolti aH’eliminazione del sintomo. Li esorto a non colpevolizzarsi più, perché la loro dipendenza alimentare scomparirà da sé, senza sforzo, e che il percorso psicologico non consiste nel parlare dei sintomi. Di certo la scomparsa di un sintomo permette di tirare un sospiro di sollievo, però non risolve niente, perché una ristrutturazione profonda ha bisogno di tempo. Penso che occorrano molti anni di psicoanalisi specifica per questo particolare tipo di personalità, mentre so per esperienza che ne bastano molti di meno se si lavora in gruppo sui problemi d’identità, per mezzo delle interazioni e delle reazioni di ogni individuo nel momento presente.

Sin dai miei primi gruppi, fu chiaro che non eravamo lì per parlare di bulimia: avendola vissuta in prima persona, sapevo che i malesseri si tirano fuori con le parole, e non soffermandosi sui vari sintomi o sui modi per evitarli.

Lacan definiva “parola” l’insieme dei termini che “guariscono”, in opposizione al linguaggio. La parola non ha nulla a che vedere con il nostro blabla quotidiano, con il talking about anglo-sassone, o con il bull shit di Fritz Peris, ossia il girare attorno alle questioni senza esprimere il proprio sentire profondo. Le parole autentiche sono quelle non censurate, non controllate dalla coscienza, e pazienza se sono cattive, o stupide: se le diciamo è perché traducono con grande precisione le emozioni che lasciamo salire dal profondo.

Il caso di Yvette

Il caso di Yvette illustra molto bene come l’inconscio non abbia più bisogno di parlare attraverso un sintomo quando trova la propria forma di espressione verbale, anche quando il sintomo è lì da molto tempo e sembra essere risolvibile solo con la medicina allopatica.

A sedici anni, Yvette non aveva le mestruazioni; un medico le prescrisse allora una cura ormonale che gliele fece venire, ma artificialmente.

«Avevo le ovaie bloccate: se mi dimenticavo di prendere anche solo una compressa nel corso del mese, il ciclo non arrivava».

Dopo tre anni interruppe la cura perché non la tollerava più e le provocava un’eccessiva crescita di peli. Due anni dopo gliela prescrissero nuovamente, ma senza successo. Un professore di Parigi la curò poi per tre anni a suon di cortisone, abbinato a una dieta ferrea che faceva molta fatica a seguire, essendo bulimica sin da quando aveva vent’anni. Le mestruazioni continuavano a non arrivare.

Un giorno, dopo qualche mese di sedute con me, partecipò a un esercizio in cui chiedevo ai presenti di immaginarsi attratti da un oggetto. Yvette iniziò a raccontare:

«È un sassolino. Mi avvicino, lo raccolgo, lo trovo carino, luccica. Non ha un gran valore ma mi piace, mi ci sono affezionata, è bello. In realtà il sassolino sono io: se mi prendo cura di me stessa posso essere come lui».

All’incontro di gruppo successivo, chiedo ai partecipanti di raccontare una storia seguendo il metodo della scrittura automatica. Questa volta Yvette parla di un fiore:

«È un fiore che sta appassendo; il tempo passa e non vede più il sole, è disperato. Un giorno decide di raddrizzarsi verso la luce, di girarsi verso il sole. È stata questa la molla che è scattata: sabato ho scritto questo racconto e ne ho dedotto che quel fiore amava la vita, che quel fiore ero io, che stava a me decidere se volevo vivere, e che in tal caso avrei dovuto darmene i mezzi. Portando a spasso il cane, quella sera, ho capito che sì, volevo vivere, volevo vivere per me stessa, e volevo farlo alla luce del sole. Il giorno dopo avevo le mestruazioni».

Uno dei preconcetti più frequenti sulla psicoterapia è che un’interpretazione magistrale possa avviare la scomparsa di un sintomo. Di fatto non è così, perché la razionalizzazione può essere riduttiva: grazie ad essa, talvolta si riesce a far chiarezza su alcune zone d’ombra, ma talvolta basta ascoltarsi parlare perché si avvìi dentro di noi una ristrutturazione inconscia e profonda. Questo tipo di lavoro non passa attraverso la coscienza. Non si capisce come accade, ma i risultati ci sono!

La mia attività di psicoterapeuta

Quando iniziai la mia attività di psicoterapeuta, nel 1983, il problema della bulimia era considerato assai raro, proprio perché, come ho già detto, chi ne soffriva lo faceva in silenzio. Io stessa non avevo mai conosciuto altre persone bulimiche oltre a me.

Vedendo che i mass media continuavano a rispecchiare le stesse ossessioni che avevo avuto anch’io (il “look” e la linea a qualunque costo), pensai che fra le lettrici delle riviste femminili dovessero esserci verosimilmente molte altre bulimiche. Questi due argomenti, incessantemente riproposti, secondo me illustravano bene il problema delle donne alla ricerca della propria immagine. Pensai allora che proporre una terapia per bulimiche avrebbe potuto ottenere un discreto successo.

Ancora oggi i bulimici devono affrontare un’incomprensione diffusa, benché se ne contino più di un milione solo negli Stati Uniti, dove il problema è ormai alla luce del sole. In Francia, invece, siamo ancora alle prese con le statistiche, alla scoperta del fenomeno. Nel 1985 gli studi sociologici identificarono alcuni ambienti come “ad alto rischio”: persone con un livello socioculturale alto, studenti liceali e universitari... Ma per quanto mi riguarda, ho constatato che la bulimia tocca tutti, tutte le età e tutte le classi sociali. Come disse un esperto di disturbi comportamentali durante una conferenza, «Le persone bulimiche sono sempre più numerose, ma forse è anche perché ci si interessa sempre di più a questo fenomeno che si scoprono sempre più casi».

Un’inchiesta realizzata dall’unità 169 dell’INSERM dimostrò inoltre che la bulimia è il più frequente disturbo del comportamento alimentare, ma c’era di peggio: gli specialisti dell’adolescenza lanciarono un segnale d’allarme e sottolinearono la necessità di prestare grande attenzione a questo problema, poiché qualunque comportamento alimentare anarchico spesso nasconde un enorme conflitto che, in alcuni casi, può sfociare nella tossicodipendenza o nell’alcolismo.

Benché con le abbuffate non si rischi la vita come con la droga (ma questo è ancora da vedere!), non significa che la dipendenza non sia totale: è una cosa altrettanto drammatica e difficile da vivere, tanto più che non procura alcun beneficio secondario, nel senso che non fa “viaggiare”, e comunque non regala piacere, come invece accade per altre dipendenze, anzi: al massimo ha un effetto calmante.

La bulimia secondo i sociologi

Secondo i sociologi, la bulimia era, tra le altre cose, legata alla disgregazione del nucleo familiare: non si mangia più insieme ad ore fisse, non si è più circondati da genitori, nonni, zii e zie. Questo isolamento provoca problemi di comunicazione e, di conseguenza, problemi affettivi. Le nuove generazioni (alle quali i media associano spesso il termine cocooning) sarebbero dunque destinate a starsene stravaccate davanti alla televisione con il telecomando in una mano, un pacchetto di patatine nell’altra e l’iPod a tutto volume nelle orecchie.

Ma siamo sicuri che i monolocali per single e i surgelati siano le sole cose contro cui puntare il dito, benché sia ormai chiaro che bulimia e solitudine formano un binomio inscindibile?

Nella seconda parte di questo libro esamineremo dettagliatamente le varie terapie, e illustrerò ciò che fino ad ora ho potuto capire grazie alla mia esperienza. Parlerò di rieducazione nutrizionale, di psicoanalisi, dei gruppi che si ispirano agli Alcolisti Anonimi, dell’approccio comportamentalista, di ipnosi e di psicologia umanistica.

Ancora due parole, ora, prima di entrare nel vivo dell’argomento: era già piuttosto nota l’efficacia della psicoterapia di gruppo, così come quella delle comunità terapeutiche per gli alcolisti o i tossicodipendenti refrattari a qualunque tipo di terapia individuale; in diversi paesi esistono dei centri che si rifanno al modello americano, in cui i drogati, allontanati dal proprio ambiente familiare e disintossicati, seguono una psicoterapia di gruppo a cui vengono affiancate diverse attività integrative (sport, lavori socialmente utili, produzioni artistiche...). Liberati della loro dipendenza, costoro affrontano il mondo esterno dopo aver superato un periodo di reinserimento. Se è vero dunque che esistevano dei centri per curare la dipendenza da droghe pesanti o da alcol, è altrettanto vero che non esisteva nulla del genere per i bulimici, forse perché apparentemente non sembrano in pericolo, anche se è chiaro che stanno soffrendo.

Quando iniziai a lavorare come psicologa, nel 1982, non esistevano dunque terapie di gruppo per la bulimia, solo incontri di auto-mutuo-aiuto improntati al modello degli Alcolisti Anonimi: l’astinenza dei partecipanti è d’obbligo, ognuno parla delle proprie esperienze e dei propri fallimenti, ma i problemi di identità rimangono invariati, perché non si approfondiscono gli aspetti psicologici. Ora, se questo non è sempre indispensabile per gli alcolisti che attraversano occasionalmente una crisi, lo diventa quando la dipendenza è l’unico appiglio a cui aggrapparsi per continuare a vivere.

Dunque, nella cura della dipendenza alimentare s’intraprende raramente un percorso profondo sull’identità e le difficoltà relazionali, essendo di solito più inclini alla rieducazione nutrizionale accompagnata da una psicoterapia comportamentale. Questi due approcci si sposano bene tra loro nei casi di obesità, ma la bulimia è diversa dall’obesità, e chi ne soffre non ha più nulla da imparare riguardo alle calorie del pesce al vapore piuttosto che delle frittelle al cioccolato. L’obesità è un problema complesso che può essere imputabile a molti fattori: ereditari o di stress, disturbi ormonali, e così via. Vi sono, certo, bulimiche obese (soprattutto quando sono depresse), ma la maggioranza di loro ha un peso normale: sono un po’ rotonde nel 12% dei casi, e il 22% è addirittura al di sotto della media. Queste persone, infatti, sono ossessionate tanto dal loro aspetto fisico che dal cibo.

L’approccio cognitivo-comportamentale è molto interessante, ma si basa parecchio sulla razionalità anche se va a lavorare sulle emozioni. Infatti, si parla molto dell’emozione ma senza sperimentarla, e dal momento che le persone bulimiche sono intelligenti e assennate, tanto vale lasciare le cose come stanno e aiutarle tuttalpiù ad eliminare il comportamento che le disturba. In questo approccio, tutto è incentrato sul sintomo: occorre annotare su un taccuino tutto ciò che si mangia, le proprie emozioni, e quando sopraggiunge l’attacco di bulimia, cosa si può fare per evitarlo e, se non si può, come scegliere alimenti più appropriati. In pratica, se proprio non si riesce a non abbuffarsi, tanto vale imparare ad abbuffarsi in modo sano!

Credo sia un’utopia pensare di poter contenere la propria bulimia senza cadere, a lungo andare, in uno stato depressivo. Al di là del sintomo, le persone bulimiche stanno davvero bene?

Siccome sono stata bulimica (e soprattutto perché ora non lo sono più), so che non si tratta solo di evitare o inventare un comportamento. Certo, era orribile quando passavo il tempo ad abbuffarmi; certo, era una pazzia indurmi il vomito venti volte al giorno; certo, era davvero penoso svegliarmi la mattina con un unico pensiero in testa: il cibo, a cui rimanevo aggrappata fino a sera, per tutta la notte e persino in sogno. Ma c’era anche tutto il resto, in particolare la paura, il panico di vivere, la sensazione di sentirmi sempre fuori posto e l’impressione di non esistere.

Molti pensano che l’ipnosi sia in grado di scendere sufficientemente in profondità per “liberarli dalla maledizione” del loro disturbo; ma la bulimia non è solo un sintomo: sopprimetela e tornerà al galoppo, sotto un’altra forma.

Rimane la psicoanalisi

Rimane la psicoanalisi, che però si rivolge a chi soffre di nevrosi. Le donne bulimiche sono forse nevrotiche? Basandomi sulla mia esperienza personale e su quella delle mie pazienti, credo che la maggior parte di loro non lo sia.

Eppure, per molto tempo ho creduto che la psicoanalisi fosse di gran lunga la soluzione migliore, motivo per cui mi ci ero io stessa affidata. Certamente, la psicoanalisi mi ha aiutato a capire molte cose essenziali e anche a progredire nel mio percorso, ma non mi ha permesso di uscirne completamente. È stato solo molto tempo dopo, partecipando ad alcune terapie di gruppo in Francia, in Europa e negli Stati Uniti, che ho scoperto l’origine della mia vulnerabilità. Non soffrivo di conflitti inconsci, come accade alla maggior parte delle persone nevrotiche, ma di un’ipersensibilità congenita che mi aveva impedito di avere abbastanza fiducia in me stessa e una vita relazionale decente.

Con la stessa lucidità che aveva vissuto Newton quando gli era caduta la mela in testa, mi accorsi di come fosse evidente che i gruppi erano uno strumento di cambiamento fantastico per chi, come me, doveva costruire tutto da zero; e di come fossero anche uno straordinario luogo d’espressione, in cui esercitarsi nelle relazioni.

Siccome per i bulimici non esisteva nulla del genere, decisi di mettere a punto una psicoterapia di gruppo intensiva, corredandola di tutto ciò che mi aveva aiutata a costruire me stessa. Vedevo il gruppo come una specie di laboratorio ideale, in grado di combinare l’analisi dell’inconscio e quella delle emozioni, senza però necessariamente parlare del passato o dei sintomi, poiché tutte le difficoltà personali sarebbero inevitabilmente riemerse nelle interrelazioni fra i partecipanti. In questo modo, tutti potevano riconoscere non solo i propri disfunzionamenti, ma anche quelli altrui, e allenarsi a uscire dagli schemi ripetitivi attraverso esercizi come i “giochi di ruolo”, scoprendo così altri possibili modi di stare al mondo.

Per chiudere il discorso sulle terapie della bulimia, dirò solo questo:

  • sì ai farmaci o ai ricoveri ospedalieri, ma solo come “accompagnamento”, e se veramente necessari;
  • sì alla rieducazione nutrizionale approfondita, perché no, ma solo come tocco finale; sì ai gruppi di tipo cognitivo-comportamentale, ma solo quelli incentrati sull’identità e la sfera relazionale;
  • sì, naturalmente, alla psicoanalisi, ma purché gli psicanalisti, la cui formazione insegna loro a lavorare a stretto contatto con la sfera più intima della gente grazie all’esperienza del “transfert” e del “controtransfert”, trovino un altro approccio con pazienti non nevrotici. Per le pazienti ipersensibili che nelle relazioni confidenziali si aggrappano all’altro, oppure prendono la fuga, le sedute devono essere sufficientemente lunghe e non asettiche.

Questo testo è estratto dal libro "Cibodipendenti".

Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017

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