SELF-HELP E PSICOLOGIA   |   Tempo di Lettura: 9 min

Il Potere Emotivo dei Gesti - Anteprima del libro di Amy Cuddy

Che cos'è la presenza?

Che cos'è la presenza?

La avvertiamo in noi, la vediamo negli altri, ma la presenza è difficile da definire. Molti, però, sanno descriverne efficacemente la mancanza. Ecco la mia storia. Una delle tante.

Ho fatto il mio ingresso nel mercato del lavoro accademico nell’autunno del 2004, sperando, come chiunque sia prossimo al dottorato, di approdare a una cattedra. Se il dottorando in psicologia sociale ha fortuna, il suo docente di riferimento lo farà «debuttare» a una certa conferenza, piuttosto di nicchia, cui partecipano i migliori psicologi sociali del mondo. Un vero e proprio «ingresso in società» per i competitivi specializzandi del quinto anno, che ascendono così allo status di «gente che forse può essere presa sul serio». È anche la fase che, più d’ogni altra, innesca nello studente la viva impressione di «sentirsi un impostore». Sei lì con indosso quella che consideri la migliore tenuta accademica e puoi intrufolarti tra i veterani della facoltà, molti dei quali provengono dai dipartimenti di ricerca dei più importanti atenei, che l’anno dopo potrebbero essere in cerca di personale. I senior, con i loro abiti da tutti i giorni, hanno l’opportunità di reclutare nuovi talenti, ma per lo più sono lì per rivedersi tra loro.

In un certo senso, gli studenti si sono addestrati a quel momento per l’intero quadriennio o quinquennio precedente. Arrivano preparati, pronti a riassumere il loro progetto di ricerca in una novantina di secondi: quanto basta per catturare l’attenzione senza rubare troppo tempo e mancare inavvertitamente di rispetto.

La prospettiva di partecipare a un evento del genere mi rendeva ansiosa oltre ogni ragionevole limite!

Anonimo centro, anonima città

Giunta nell’anonimo centro conferenze di un’anonima città, entrai in ascensore con altre tre persone: tutte figure di spicco nel mio campo, gente che veneravo da anni. Mi sentivo come il chitarrista di una mediocre band universitaria di indie rock che sale in ascensore con Jimmy Page, Carlos Santana ed Eric Clapton. Ero la sola ad aver davvero bisogno di quel gigantesco badge con il nome sopra.

Senza alcun preambolo, una delle rock star disse con nonchalance: «Be’, sentiamo il suo discorsetto».

Le guance mi avvamparono, la salivazione sparì. Rendendomi perfettamente conto di avere di fronte non uno, ma tre luminari confinati con me in quello spazio, cominciai a parlare... O, meglio, le parole cominciarono a ruzzolarmi fuori di bocca. Alla fine della prima frase, già sapevo che l’inizio era pessimo. Mi sentivo dire cose come: «Quindi... Oh, aspettate, quella parte la spiego dopo...» Faticavo io stessa a seguire il filo del mio discorso e via via che si faceva strada in me la consapevolezza del fallimento, svaniva la capacità di pensare a qualunque cosa non fosse quell’ansia soverchiarne. Certa di essermi appena bruciata ogni possibilità d’ingresso in tre università di prestigio (oh, ma anche in quelle dei loro più stretti collaboratori!), mi arresi al panico. Sostenni tutto e il contrario di tutto, continuando a ripartire da capo. Non c’era modo che riuscissi a completare l’esposizione prima dell’arrivo al ventesimo piano, dove si sarebbe tenuta la cena. Lanciavo occhiate disperate dall’uno all’altro dei miei idoli, in cerca di un barlume di comprensione, di una microespressione di sostegno, approvazione, empatia. Qualcosa, qualunque cosa. Vi prego.

Alla fine, le porte si aprirono. Due dei luminari fuggirono rapidamente a testa bassa. Il terzo — quello che mi aveva esortata a parlare — oltrepassò la soglia, si fermò, si voltò e mi disse: «È stato il peggior discorso che abbia mai sentito» (era l’accenno di un sogghigno che gli si stava dipingendo in volto?).

Le porte si richiusero. Ricaddi contro la parete della cabina, rannicchiandomi in posizione fetale, e ridiscesi, sempre più giù, fino alla hall. Malgrado l’inequivocabile stroncatura, in quel momento avvertii una lieve, temporanea, sensazione di sollievo.

Ma poi: Oh Dio! Che avevo fatto! Com’ero riuscita a non dire una sola cosa intelligente sull’argomento che studiavo da più di quattro anni? Com’era anche solo concepibile?

Nella hall il discorso che mi ero preparata per l’occasione affiorò dalla nebbia riassumendo una fisionomia riconoscibile. Ed eccolo lì. Provai l’impulso, il bisogno, di tornare di corsa all’ascensore, inseguire i professori, chiedere una seconda opportunità.

La conferenza nelle retrovie

Invece, passai i tre giorni successivi della conferenza nelle retrovie, ripensando a quel momento, rivivendolo nei molti modi in cui si sarebbe potuto svolgere, agonizzando al pensiero del disprezzo, forse persino del sadico divertimento che i miei compagni di ascensore avevano certamente provato. Dissezionavo impietosa quel ricordo avendo ben chiaro che avevo fallito nel rappresentare non soltanto me stessa, ma anche il mio docente, che tanti anni aveva dedicato alla mia formazione. I miei novanta secondi di fallimento non cessarono di ossessionarmi. Mai in quei tre giorni fui davvero presente alla conferenza.

Confidai i miei tormenti a Elizabeth, una cara amica, che disse: «Oh, lo spirito della scala!»

«Il che?»

Mi raccontò la storia, come la ricordava dai tempi del college.

Il filosofo francese del Diciottesimo secolo Denis Diderot si trovava a una cena, intento a dibattere su una materia in cui era ferratissimo. Forse, però, quella sera non era in gran forma: confutato su un punto — per distrazione? imbarazzo? paura del ridicolo? — si ritrovò a corto di parole, incapace di mettere insieme una risposta intelligente. Subito dopo, lasciò il ricevimento.

Mentre scendeva le scale, continuò a rivivere nella mente l’umiliazione subita, cercando invano la replica adatta. Arrivato all’ultimo gradino la trovò. Doveva tornare sui suoi passi, rifare le scale e ribattere argutamente all’interlocutore? Ovviamente no! Era troppo tardi. Il momento — e con esso l’occasione — era passato. Fu invaso da un senso di rimpianto: se solo avesse avuto la presenza di spirito di trovare le parole quando ne aveva avuto bisogno.

Memore dell’esperienza, nel 1773 ebbe a scrivere che l’uomo sensibile, «colto alla sprovvista da ciò che gli si obietta, perde la testa e si riprende soltanto in fondo alle scale».

L'espressione esprit de l’escalier

Coniò pertanto l’espressione esprit de l’escalier. lo spirito, l’intuito che arriva ormai troppo tardi. In yiddish si direbbe trepverter, in tedesco Treppenwitz. Un’altra definizione in uso è «spirito da ascensore», che per me ha quasi un valore sentimentale, ma la mia prediletta è afierwit, il «senno di poi». L’idea è sempre più o meno la stessa: la risposta tardiva, orfana, che porta con sé un senso di rimpianto, delusione, umiliazione. Tutti vorremmo una seconda possibilità, ma non ci viene mai offerta.

E tutti, a quanto pare, hanno vissuto momenti simili al mio incubo dell’ascensore, persino i filosofi del Diciottesimo secolo.

Rajeev, uno dei primi a scrivermi dopo l’apparizione online del mio intervento al TED, ne ha parlato così: «In mille situazioni della vita, me ne vado con la sensazione di non aver giocato tutto me stesso, di non aver lasciato, per così dire, tutto sul tavolo. E mi rode sempre, dopo, quando riesamino all’infinito l’accaduto, restando con un senso di debolezza e fallimento».

Chi in un modo chi in un altro lo abbiamo sperimentato tutti. Ma perché succede? Probabilmente ci preoccupiamo di ciò che gli altri pensano di noi, anzi, crediamo già di saperlo, e questo ci fa sentire impotenti; e poi siamo tutti proiettati sul risultato finale, a cui attribuiamo un’importanza eccessiva, anziché concentrarci sul percorso. Preoccupazioni simili si combinano in un micidiale cocktail autolesivo.

Ancor prima di affacciarci sulla soglia di un’opportunità, siamo in preda al timore e all’ansia, prevedendo il peggio per un futuro che ancora non si è realizzato. Quando si affronta una situazione di stress con questa disposizione mentale, è inevitabile che se ne esca insoddisfatti.

Se solo mi fossi ricordata di dire... Se solo mi fossi comportata così... Se solo avessi mostrato loro chi sono veramente. Non si può essere pienamente coinvolti in un’interazione, se si è occupati a fare pronostici su se stessi, presi nella ruota per criceti della mente: la confusa, spasmodica, autodenigratoria analisi di ciò che crediamo stia avvenendo nella stanza, la bruciante consapevolezza che ci troviamo in una situazione delicata e stiamo sbagliando tutto. Proprio quando dovremmo essere presenti al massimo, abbiamo le maggiori probabilità di non esserlo.

Alan Watts

Come ha scritto Alan Watts in La saggezza del dubbio, «Per capire la musica dobbiamo ascoltarla. Ma finché pensiamo: Io sto ascoltando questa musica, non la sentiamo».4 Quando si sostiene un colloquio di lavoro e si pensa: Sono a un colloquio di lavoro, diventa impossibile entrare in piena connessione con l’interlocutore o mostrare l’aspetto di sé che si vorrebbe presentare: il proprio sé più autentico, più acuto, più audace, più rilassato.

Watts ha paragonato l’attesa ansiosa di situazioni a venire all’inseguimento di «un fantasma che si ritrae continuamente: più lo rincorri, più veloce ti sfugge».5 Queste situazioni diventano apparizioni a cui diamo il potere di ossessionarci: prima, durante e dopo.

La prossima volta che vi capiterà di affrontarne una, guardatela approssimarsi con fiducia ed entusiasmo, invece che con dubbio e paura. Immaginatevi energizzati e a vostro agio mentre la vivete, liberi dal timore di come gli altri potrebbero giudicarvi: un’immagine di voi che ve ne andate senza rimpianti, soddisfatti di aver dato il meglio, al di là del risultato misurabile. Nessun fantasma da rincorrere, nessun tardivo spirito della scala.

Tina, originaria di New Orleans, mi ha scritto quanto l’abbandono degli studi, alle superiori, l’abbia condizionata, non solo limitando il suo accesso a un lavoro stabile e ben pagato, ma anche minando in lei la convinzione di meritarne uno. Ha svolto mille mestieri, sgobbato con orari impossibili finché, all’età di trentaquattro anni, si è laureata. Allora, gradualmente, è riuscita a insegnare a se stessa, un po’ alla volta, a considerare «anche le interazioni più difficili occasioni per esprimere le mie capacità e mostrare quanto valgo».

Provate a figurarvelo: richiama molto da vicino il concetto di presenza.

Questo testo è estratto dal libro "Il Potere Emotivo dei Gesti".

Data di Pubblicazione: 3 ottobre 2017

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