SALUTE E BENESSERE   |   Tempo di Lettura: 9 min

Attacco alle Malattie del Cervello - Anteprima del libro di Paolo Giordo

Inefficacia delle Terapie Convenzionali

Malattie "non suscettibili di cura" con i farmaci tradizionali

Tutte le malattie neurodegenerative e autoimmuni vengono comunemente curate da una pletora di farmaci che lasciano grossi dubbi sulla loro reale efficacia.

Ad esempio, nella sclerosi multipla i vari interferoni e il co-paxone presentano un’efficacia molto parziale nel controllare l’attività e la progressione della malattia e ciò è tanto più significativo dal momento che la malattia stessa presenta un andamento quanto mai variabile e poco prevedibile.

La maggior parte dei pazienti, infatti, continua ad avere nuove lesioni e nuove ricadute con o senza l’intervento della terapia.

La stessa neuroioga e premio Nobel per la medicina Rita Levi Montalcini, alcuni anni prima di morire, ebbe a dire che «sia le forme più comuni di sclerosi multipla, sia quelle progressive e secondarie, a tutt’oggi, non sono suscettibili di cura».

In vari studi statunitensi sull’interferone, si è visto che dopo i primissimi anni non vi è più una differenza tra pazienti trattati e placebo, e anzi con l’aggravamento del fatto che il 30-40% dei soggetti trattati sviluppa anticorpi anti-interferone con conseguente ulteriore perdita di efficacia del farmaco.

Sempre rimanendo sull’interferone, va detto inoltre che una percentuale variabile di soggetti è costretta a interromperlo a causa degli effetti collaterali più o meno gravi. Inoltre esso è categoricamente controindicato in gravidanza (la SM colpisce prevalentemente giovani donne) ed è riconosciuta la sua totale inefficacia nelle forme progressive. Esiste anche uno studio retrospettivo di pazienti trattati con interferone beta rispetto a un gruppo di controllo non trattato. Secondo gli autori, al termine dello studio la somministrazione di interferone beta non era associata ad alcuna riduzione della progressione della disabilità. Questo studio recente smentisce clamorosamente la presunta efficacia dell’interferone beta sulla forma più comune (RR) di sclerosi multipla.

Una lettera al ministero della Sanità

In una lettera inviata dal presidente della Società italiana di neurologia al ministero della Sanità (informativa dell’Associazione italiana sclerosi multipla del 4 gennaio 1995) si avanzava la constatazione che «solo il 15% di tutti i pazienti affetti da SM potrebbe trarre vantaggio dal trattamento con interferone beta-lb e questi effetti positivi stimati nel 15% consistevano in una probabile riduzione degli attacchi del 35%». Pertanto un paziente, in vent’anni di malattia ha di fronte a sé la possibilità di avere altri dodici-quindici attacchi in media, più che sufficienti a finire sulla sedia a rotelle.

Questi risultati considerati “promettenti” appaiono invece estremamente deludenti.

Il copolimero (o copaxone o glatiramer acetato) è un polimero di basso peso molecolare che ha una sequenza amminoacidica simile alla proteina basica della mielina.

Pur non essendo pienamente noto il meccanismo di azione si ipotizza che riesca a provocare induzione di cellule soppressorie antigene specifiche o Pinibizione dell’attivazione dei linfociti T specifici contro antigeni mielinici.

Con questo farmaco, nelle forme di sclerosi multipla RR si ipotizza una riduzione del 29% della frequenza delle ricadute (effetto ristretto al periodo di trattamento) ma non si è mai affermata una totale inefficacia nelle forme progressive.

Un’altra categoria di farmaci

Un’altra categoria di farmaci molto usata nella SM è quella degli immunosoppressori i quali non agiscono sui fattori che causano e originano la malattia ma intervengono quando le reazioni immuni sono già innescate per attenuarle, seppur con benefici quasi mai duraturi. Tali medicinali comprendono una vasta gamma di sostanze quali azatioprina, ciclofosfamide, metotrexate, mitoxantrone ecc.

Tutti questi farmaci presentano, specialmente nel tempo, gravi effetti indesiderati, reali e potenziali che vanno dalla tossicità per fegato e cuore, alle gravi reazioni allergiche, alla mielotossicità e sino alla cancerogenicità. Inoltre, per la durata del periodo di assunzione la malattia può “raffreddarsi” un poco ma non arrestarsi completamente.

Esistono anche i nuovi farmaci sulla linea degli anticorpi monoclonali che sono notevolmente più costosi e vengono definiti farmaci di seconda linea, che si usano cioè quando i farmaci di prima linea si sono rivelati inefficaci o quando la malattia si manifesta particolarmente aggressiva sin dall’inizio.

Il capostipite, tuttora molto usato, è il natalizumab. Questo farmaco impedisce ai linfociti aggressivi contro la mielina delle fibre nervose di entrare nel tessuto cerebrale. Quando esso viene sospeso, però, si manifesta un’azione sgradita: tutti i linfociti che si sono accumulati si scatenano e si ha il cosiddetto effetto “rimbalzo” dove la malattia per molto tempo diventa più aggressiva, costringendo a massicce assunzioni di cortisone nel tentativo spesso infruttuoso di dominare i sintomi. Ma per 

ché, ci si potrebbe domandare, dover sospendere un farmaco che mostra, tutto sommato, qualche efficacia? La spiegazione è che il natalizumab non ha effetto solo sui linfociti aggressivi ma anche su quelli “buoni”, sopprimendoli nella loro funzione fisiologica.

Va tenuto presente che in oltre il 50% dei casi, i pazienti hanno nel proprio organismo un virus, detto JC*, che normalmente non causa problemi ma che se gli anticorpi che lo tengono fisiologicamente a bada vengono soppressi si può risvegliare e causare molti e seri guai. Penetrando nel cervello esso infatti causa la leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML) dagli esiti spesso mortali.

Per questo motivo si deve verificare sui pazienti, in via preliminare, la presenza del virus JC e decidere se il livello di rischio è accettabile. Frequentemente del resto si usa il farmaco anche in presenza di virus accettando così una sfida (per il paziente) dagli esiti imprevedibili.

E il fingolimod? Questo altro farmaco per la SM agisce sui recettori espressi sulla superficie dei linfociti.

Questi recettori servono come una chiave per poter uscire dai linfonodi: in tal modo i linfociti rimangono “consegnati” nelle loro caserme (i linfonodi).

Ma anche qui c’è un “ma”. I recettori in questione sono presenti anche su molte altre cellule, comprese quelle che regolano la frequenza cardiaca. Per questo motivo le prime assunzioni di fingolimod vanno assunte sotto monitoraggio cardiovascolare in quanto il farmaco può abbassare la frequenza cardiaca e aumentare la pressione arteriosa. Inoltre, il fingolimod riduce tutti i linfociti in circolo creando uno stato di immunodepressione a tal punto da aver reso mortale una banale varicella. Tutto quanto detto è al netto degli effetti collaterali quotidiani che spesso costringono il paziente ad abbandonare la terapia.

Altri nuovi farmaci (teriflunomide e alemtuzumab) si sono da subito presentati come problematici e scarsamente affidabili per i loro profili di sicurezza (tossici per fegato e tiroide oltre che causa di malformazioni fetali in gravidanza).

Uno degli ultimi farmaci usato per via orale

Uno degli ultimi farmaci usato per via orale, e spesso proposto anche come prima scelta, è il dimetilfumarato che garantisce apparenti migliori risultati rispetto ai farmaci più vecchi ma che non è esente da effetti collaterali frequenti come arrossamenti cutanei e disturbi gastrointestinali. Inoltre anch’esso può portare a riduzioni anomale di globuli bianchi (e in particolare di linfociti) così gravi da innescare una famigerata PML. Ma possiamo fare anche un’altra considerazione sulla composizione del farmaco: fermo restando che il fumarato è un componente del ciclo di Krebs*, quindi potenzialmente produttore di energia cellulare, il composto metilico libera metanolo che è un prodotto tossico per il cervello.

Nel Parkinson la levodopa e i dopamino-agonisti hanno efficacia nell’80% dei pazienti nei primi due anni di terapia mentre negli anni successivi la risposta cala al 20%.

Gli effetti collaterali più comuni sono la nausea e l'abbassamento della pressione arteriosa. A lungo andare si devono aumentare i dosaggi e la frequenza di somministrazione mentre compaiono dei movimenti involontari del corpo chiamati discinesie. Sono possibili anche comportamenti ossessivo-compulsivi in seguito ai trattamenti farmacologici convenzionali.

Gli effetti collaterali degli inibitori delle monoaminossidasi (IMAO), utilizzati per rallentare la progressione del Parkinson, sono rappresentati prevalentemente da allucinazioni, confusione mentale, cefalea e vertigini. Nei pazienti poco rispondenti alle cure tradizionali si può usare il tolcapone, farmaco potente ma estremamente pericoloso per i danni al fegato che procura.

Anche nell'Alzheimer c’è una relativa povertà farmacologica se volessimo considerare gli effetti positivi dei farmaci. Quelli più usati, cioè gli inibitori della acetilcolinesterasi hanno un effetto parziale e solo nelle prime fasi della malattia pur non essendo però privi di effetti collaterali come la riduzione del battito cardiaco, la nausea, la diarrea e il vomito.

Nella SLA, la situazione farmacologica è ancora più povera: è contemplato e utilizzato in modo seriale un solo farmaco, il riluzolo, con efficacia pressoché nulla (risulta utile nel prolungare la sopravvivenza e/o ritardare l’uso della ventilazione assistita di soli due-tre mesi).

L’effetto collaterale maggiore del farmaco è l’epatotossicità per cui vanno tenuti sotto controllo i parametri relativi al fegato. Oltre a ciò può provocare diminuzione di neutrofili (un tipo di globuli bianchi) e malattia polmonare interstiziale.

Ultima considerazione: per tutti questi farmaci, la cui efficacia lascia enormi dubbi e lacune, si spendono miliardi di dollari/ euro ogni anno.

Questo testo è estratto dal libro "Attacco alle Malattie del Cervello".

Data di Pubblicazione: 3 ottobre 2017

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