SALUTE E BENESSERE

Le 12 Tappe della Guarigione - Anteprima del libro di Alain Moenaert

Accettare la diagnosi, rifiutare la prognosi

Accettare la diagnosi, rifiutare la prognosi

“Ciò che è, è. Ciò che non è, non è".
Sua Santità il Dalai Lama

E una distinzione essenziale che ritroviamo in tutti i sopravviventi eccezionali: hanno accettato la diagnosi, ma non la prognosi, più o meno infausta, che l’accompagna.

Gregg Lemond, vincitore del Tour de France, fu gravemente ferito in un incidente di caccia. Al suo risveglio, i medici non gli lasciarono alcuna illusione: nel migliore dei casi, avrebbe trascorso il resto della vita su una sedia a rotelle. Gregg Lemond decise di non dare loro credito. Tre anni dopo, vinse di nuovo il Tour de France.

La diagnosi

La diagnosi è la descrizione del problema così come ti si presenta: tumore, infarto, paralisi, sieropositività ecc.

A condizione che sia fondata e verificata, essa non è altro che una descrizione dei fatti, cioè la verità del momento.

Negare questa verità non aiuta a gestire adeguatamente il problema. La negazione del problema, o più esattamente della sua gravità, può essere utile a breve termine. Alcuni studi mostrano che le persone colpite da infarto che minimizzano la portata dell’episodio se la cavano meglio di coloro che ne esagerano la gravità. Ciò permette di non cedere al panico e di agire in modo efficace e funzionale per arrivare in ospedale, mentre il panico potrebbe aggravare il problema cardiaco.

La dissociazione dalle sensazioni del corpo è un meccanismo di sopravvivenza a breve termine. Non avvertire il dolore di una grave lesione consente di uscire da una situazione di pericolo immediato. Molti superstiti di catastrofi — incidenti ferroviari, disastri aerei — non si sono resi conto di essere gravemente feriti se non dopo essere riusciti a mettersi al sicuro.

Tuttavia, la salute di coloro che permangono in uno stato di dissociazione finisce per degradarsi progressivamente.

A lungo termine, la negazione non è una strategia valida. Una buona comprensione della sfida alla quale ci troviamo di fronte è importante allo scopo di cominciare a organizzarci per affrontarla, mobilitare le nostre forze al fine di superare il problema. Una rappresentazione adeguata dello stato attuale ci permette di iniziare a elaborare un piano in vista della soluzione.

La prognosi

La prognosi è rappresentata dall’aspettativa di vita o dalle conseguenze che la medicina prevede. È un’ipotesi, ma di certo non è la verità, in quanto non configura un fatto accertato. Nessuno conosce il futuro: possiamo solo formulare un’ipotesi, e sicuramente ve ne sono altre possibili. Quando il medico ti dice che ti restano sei mesi da vivere o che sei condannato alla sedia a rotelle per tutta la vita, si tratta di un’ipotesi probabile basata sull’esperienza medica. Più o meno ti dice: questo è quanto probabilmente ti succederà se noi facciamo ciò che sappiamo fare e che in genere facciamo in casi simili. Ma non ti dice cosa accadrebbe se tu facessi qualche altra cosa.

È una tendenza statistica, e le statistiche non dicono il vero. La probabilità che esse calcolano si basa sui casi più frequenti, ma non su quelli che si allontanano dalla tendenza principale. Le statistiche non sopportano le eccezioni: le eliminano.

Nel 1982, John Ermann si propose di effettuare uno studio sui superstiti “anomali”, quelli ai quali era stata pronosticata una speranza di vita inferiore ai sei mesi, ma che cinque anni dopo erano ancora vivi. Contattò quindi i servizi informatici dei grandi ospedali della sua regione per ottenere l’elenco di queste persone. I diversi istituti gli risposero che era impossibile. Chiese ragguagli, e risultò che quella categoria non esisteva nei loro database. In effetti, perché creare una categoria che non serve a nulla per qualcosa di impossibile, che non ha alcuna possibilità di esistenza? Nessun informatico giudizioso perderebbe il suo tempo in questo modo.

Dopo attenta riflessione, Ermann chiese che gli fosse comunicata la lista delle persone che avevano ricevuto una diagnosi di malattia terminale, e i servizi informatici lo accontentarono. Chiese poi l’elenco delle persone decedute, e anche questa gli fu concessa senza alcun problema, dato che la categoria evidentemente esisteva nei database.

Sulla base dei dati, egli individuò 156 persone che figuravano nel primo elenco, ma non nel secondo! Di fronte a questa “anomalia”, i diversi servizi ospedalieri esibirono un florilegio di motivazioni più o meno strampalate, tutte con l’unico punto in comune di non mettere in discussione il fatto che quei pazienti fossero deceduti: “forse è morto all’estero”, “probabilmente viveva solo e nessuno si è accorto del suo decesso”, “la sua morte non è stata dichiarata per non pagare le tasse di successione o per continuare a percepire la pensione” e così via. L’importante era non mettere in dubbio la fede nell’infallibilità del pronostico.

Si vede ciò che si vuole credere, più che credere a ciò che si vede. I superstiti non esistono a livello statistico perché non crediamo che ciò sia possibile, e quindi non abbiamo creato una simile categoria. E dato che non abbiamo alcun caso del genere nel nostro database, non esistono! Come volevasi dimostrare.

I sopravviventi eccezionali non si sono lasciati imprigionare in una simile tragica predizione statistica. Hanno deciso di rappresentare un’eccezione.

Molti di loro sono ribelli che hanno deciso di provare alla medicina che le sue previsioni erano sbagliate.

Nel 1990, Jean-Charles Harzé e io abbiamo intrapreso uno studio sulle costanti presentate dai sieropositivi che erano (o erano tornati) in salute da più di dieci anni.

All’epoca, la medicina considerava impossibile una simile sopravvivenza. Il messaggio costantemente veicolato era pressappoco: “Se sei sieropositivo, ti verrà diagnosticato l’AIDS, e se hai l’AIDS morirai”.

Quando ho intervistato persone sieropositive in buona salute da più di dieci anni, al momento della diagnosi tutte avevano espresso pensieri come: “Se tutto ciò che ha da propormi è un tappeto rosso che porta al cimitero, non ho tempo da perdere con lei”, “Morire? Ma mi hai guardato bene? Te lo faccio vedere io, bastardo” (mostrando il dito medio), “No, grazie, se questo è tutto quel che ha da dirmi, vado a cercare altrove”, “Io sarò l’eccezione che conferma la regola”, “Non ho alcuna intenzione di lasciarmi morire, lotterò con tutte le mie forze”. Tutti erano scomparsi dagli schermi radar dei medici, andando alla ricerca di altre soluzioni.

Quando parlai delle mie indagini a un amico medico, in un primo momento rifiutò l’esistenza stessa di simili superstiti, una cosa secondo lui impossibile. A sua memoria, nessun sieropositivo superava i tre anni di sopravvivenza, e solo facendo appello agli ultimi ritrovati della medicina dell’epoca (trattamento con la zidovudina o AZT). Se erano ancora in vita dopo dieci anni, una simile aberrazione poteva spiegarsi soltanto con un errore diagnostico.

Egli visse una vera e propria “crisi di fede” quando lo inserii nel nostro gruppo di ricerca per conoscere quei superstiti e consultare i loro dossier medici.

La verità era che nessuno di loro aveva assunto zidovudina, o se avevano iniziato il trattamento lo avevano sospeso immediatamente, constatando la devastazione da esso causata. Detto con parole crude, praticamente il 100 per cento delle persone curate con AZT erano decedute entro i tre anni. Nessuno dei sopravvissuti a lungo termine da noi interrogati aveva mai assunto quel farmaco. Avevano fatto altro. E quelli che si curano in modo diverso non compaiono nelle statistiche mediche.

Il medico di Lydie le diagnostica un tumore al pancreas. L’oncologo le consiglia di prepararsi a una fine inevitabile. Secondo lui, nel suo caso la speranza di vita non supera i tre anni. Lydie non accetta questa fatalità, decide di cambiare medico e ne trova uno che crede di poterla aiutare a Dieci anni dopo, Lydie sta bene, ed è in remissione totale. Il suo tumore non ha lasciato tracce, lei ha iniziato una nuova esistenza, si è data una nuova Missione di Vita, che ritiene sia il segreto della remissione.

Ascoltandola, si nota una distinzione essenziale: “Qualcosa in me doveva morire affinché qualche altra cosa potesse nascere. Una vecchia versione di me doveva sparire per far nascere la nuova Lydie. La mia guarigione è stata un cammino per compiere un processo di rinascita. Se non avessi compreso tale processo, mi sarei totalmente identificata con la vecchia versione di me, e quindi sarei morta con essa”. Quanto al suo oncologo, si è suicidato quando ha scoperto di avere un tumore al fegato.

Accettare la diagnosi rifiutando la prognosi significa affermare che la situazione è grave ma non disperata. La disperazione è un fattore aggravante. Quando le persone perdono ogni speranza, cominciano a morire. La speranza fa vivere, e non è soltanto un detto popolare.

Alcuni studi mostrano che lo shock di una diagnosi può far crollare di oltre il 50 per cento il tasso di linfociti T4 (uno dei parametri dell’efficacia del sistema immunitario).

Credere alla certezza di una fine imminente può uccidere senza nessun’altra causa.

Un impiegato in uno scalo ferroviario rimase accidentalmente chiuso in un vagone frigorifero. Era venerdì sera, ed egli sapeva che nessuno lo avrebbe trovato fino al lunedì mattina, e che sarebbe morto di freddo. Il lunedì lo trovarono effettivamente morto e il corpo presentava tutti i segni del decesso per ipotermia. L’unico problema era che il compressore del frigo non era inserito. La temperatura non era mai scesa sotto i 16°C.

La storia di Mr. Wright, pubblicata dal dottor B. Klopfer, illustra insieme gli effetti placebo e nocebo, ossia l’incredibile potere delle nostre convinzioni sulla guarigione come sulla malattia.

Mr. Wright è ricoverato in ospedale con tumori delle dimensioni di un’arancia a carico del collo, del gomito, del volto e dell’addome. Il medico non prevede che vivrà più di qualche settimana. L’uomo, avido divoratore di riviste scientifiche, ha letto un articolo che annuncia risultati straordinari degli esperimenti su animali con una nuova sostanza, il Krebiozen, che non è ancora sul mercato. Si offre volontario per essere la prima cavia umana, e i risultati sono spettacolari. In meno di una settimana i suoi tumori si sciolgono e scompaiono. Dieci mesi dopo esce una pubblicazione dal titolo “Il Krebiozen, una speranza delusa”. Nel giro di una settimana Mr. Wright viene ricoverato in condizioni disperate. Il medico gli pratica un’iniezione di acqua distillata dicendogli che si tratta di una nuova versione, il Krebiozen Plus. Mr. Wright si riprende ancora più rapidamente e in meno di due settimane passa dalla respirazione assistita 24/24 ai voli con il suo aereo a 3.500 metri di altezza.

Purtroppo, il suo medico non ha resistito alla tentazione di pubblicare, sei mesi dopo, la storia dell’acqua distillata. E questa volta Mr. Wright muore nel giro di due giorni.

Serbare la speranza ha un impatto positivo sul corpo: significa credere che non tutto è perduto, che rimangono delle possibilità. Significa avere fiducia nella capacità personale di influenzare la propria sorte. Quanti ritengono di poter fare la differenza e si mantengono attivi, cercheranno soluzioni e possibilità e ne usciranno meglio di quelli che sono passivi, rassegnati, disperati.

Ora, il peggio non è certo. Vi sono infatti moltissime persone che hanno smentito le statistiche. Ti consiglio di leggere le loro storie, a dimostrazione del fatto che tutto è possibile.

Ti raccomando in particolare due libri: Guarigioni straordinarie. Quando il corpo guarisce se stesso, di Carlyle Hirshberg e Marc Ian Barasch (Mondadori), e Artisans de leur guérison, del dottor Christian Tal Schaller (Éditions Lanore).

Quando evoco il lato benefico della speranza, vengo spesso criticato perché darei alle persone “false speranze”.

Come se esistessero speranze vere e false.

La speranza non è una certezza, quindi non può essere vera o falsa: essa consiste semplicemente nel rifiuto di rassegnarsi, di programmarsi a morire per abbandono di sé. Sperare significa scegliere tra due convinzioni su due possibili futuri quello che voglio che si realizzi. Significa far parte della soluzione, piuttosto che del problema.

E la speranza ha un impatto positivo sul corpo.

La dottoressa Candace Pert, pioniera della ricerca sulla biochimica del cervello del Dipartimento di Neuroscienze dell’Istituto Nazionale per la Salute Mentale (NIMH), ha messo in risalto i legami tra stati emozionali, neuropeptidi, endorfìne e ormoni. L’opera condotta è sintetizzata nel suo libro Molecole di emozioni. La disperazione è un autentico veleno per l’organismo.

Certo, non basta sperare senza fare niente altro. Non si tratta di pensiero magico. Ma senza speranza non mobilitiamo le nostre forze per innescare il processo di guarigione. Nel prosieguo del libro vedremo come utilizzare questa energia e metterla in opera.

Lo shock della diagnosi

Al momento della diagnosi, l’ultima parola che Pierre ricorda è "cancro".

Non gli è rimasto nulla delle spiegazioni del suo medico. Lo vedeva parlare ma non lo sentiva più. La parola “cancro” risuonava sempre più forte nella sua testa.

D’un tratto il futuro, i sogni riguardanti l’acquisto di una casa, lo sviluppo della sua azienda, tutto stava per scomparire. L’avvenire non esisteva più, c’era solo un buco buio e freddo. Pierre era in stato di shock, una condizione che danneggia il funzionamento del corpo.

La prima cosa da fare è uscire dallo stato di shock.

Ecco alcune tracce che possono aiutarti.

Questo testo è estratto dal libro "Le 12 Tappe della Guarigione".

Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017

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