SELF-HELP E PSICOLOGIA

Numero 1 Si Diventa - Anteprima del libro di K. Anders Ericsson e Robert Pool

La pratica mirata

La pratica mirata

La pratica mirata presenta varie caratteristiche che la distinguono da quella che potremmo chiamare «pratica ingenua», ovvero dal fare e rifare qualcosa aspettandosi che la semplice ripetizione migliori le prestazioni.

Steve Oare, specialista di insegnamento della musica alla Wichita State University, ha proposto la seguente conversazione immaginaria tra un insegnante e un giovane allievo. In questo caso, il primo cerca di capire come mai l’allievo non migliora:

Insegnante: Sul tuo modulo degli esercizi c’è scritto che ti eserciti un’ora al giorno, ma nell’esame hai preso appena la sufficienza. Puoi spiegarmi perché?

Allievo: Non so cosa sia successo! Ieri sera riuscivo a suonare il brano dell’esame!

Insegnante: Quante volte l’hai suonato? allievo: Dieci o venti.

Insegnante: Quante volte l’hai suonato correttamente? allievo: Be’, non lo so... una o due... insegnante: Mmm... In che modo ti sei esercitato? allievo: Non lo so. Ho suonato e basta.

Questo è un esempio perfetto di pratica ingenua: «Ho suonato e basta». Ho preso la mazza e ho cercato di colpire la pallina. Ho ascoltato i numeri e ho provato a ricordarli. Ho letto i problemi di matematica e ho tentato di risolverli.

La pratica mirata è, come dice il termine, molto più circoscritta.

riflessiva e focalizzata rispetto alla pratica ingenua. In particolare, presenta le seguenti caratteristiche.

Gli obiettivi della pratica mirata

La pratica mirata ha obiettivi specifici e ben definiti. Il nostro ipotetico studente di musica avrebbe riscosso molto più successo se si fosse posto un obiettivo del tipo: «Suona il brano dall’inizio alla fine alla giusta velocità tre volte di fila senza commettere errori». Senza un traguardo di questo tipo, non c’è modo di valutare l’efficacia dell’esercitazione.

Nel caso di Steve non c’era un obiettivo a lungo termine, perché nessuno di noi sapeva quale fosse il numero massimo di cifre memorizzabili, ma Steve aveva un obiettivo a breve termine molto preciso: ricordare più cifre di quanto avesse fatto nella seduta precedente. Essendo un corridore di fondo, e una persona molto competitiva anche quando concorreva solo con se stesso, quel tratto caratteriale gli è tornato utile nell’esperimento. Fin dall’inizio si impegnò ogni giorno per aumentare il numero di cifre che riusciva a ricordare.

La pratica mirata consiste nel compiere un certo numero di piccoli passi per raggiungere un obiettivo a lungo termine. Se giocate a golf nel weekend, ridurre l’handicap di cinque punti è un buon obiettivo generale, ma non è un traguardo specifico che possiate usare con efficacia nella pratica. Suddividetelo in parti più piccole ed elaborate un piano: cosa dovete fare esattamente per togliere cinque punti al vostro handicap? Per esempio potreste puntare ad aumentare il numero di drive che atterrano nel fairway. È un obiettivo ragionevolmente specifico, ma dovete suddividerlo ancora: che cosa farete di preciso per aumentare il numero di drive riusciti? Dovete scoprire perché cosi tanti dei vostri drive non atterrano nel fairway e risolvere quel problema, per esempio impegnandovi per mandare meno spesso la pallina in mezzo agli alberi. Come riuscirci? Un maestro può consigliarvi di cambiare il movimento dello swing. E così via. Il segreto è prendere quell’obiettivo generale - diventare più bravi - e trasformarlo in qualcosa di specifico su cui poter lavorare con aspettative realistiche di miglioramento.

La pratica mirata è focalizzata. A differenza dello studente di musica descritto da Oare, Steve Faloon era concentrato fin da subito sul compito da svolgere, e la sua fecalizzazione non ha fatto che aumentare al procedere dell’esperimento, man mano che memorizzava stringhe sempre più lunghe. Possiamo farci un’idea di quanto fosse coinvolto nel lavoro ascoltando la registrazione audio della seduta numero 115, che si colloca temporalmente circa a metà dello studio. Steve ricordava già con regolarità numeri di quasi quaranta cifre, ma quasi mai, ancora, quelli di quaranta cifre esatte; e quel giorno voleva assolutamente riuscirci. Iniziammo con trentacinque cifre, un esercizio facile per lui, e Steve iniziò a caricarsi man mano che la lunghezza dei numeri aumentava. Prima che gli leggessi la stringa di trentanove cifre, si fece un discorsetto motivazionale, concentrandosi a fondo sul compito da affrontare: «Oggi è un gran giorno!... Non ne ho ancora sbagliata nessuna, vero? No! Questo sarà un giorno indimenticabile!» Restò in silenzio nei quaranta secondi che impiegai a leggergli i numeri, ma poi, mentre li ricordava - suddivisi in vari gruppi - e li rimetteva in ordine, riusciva a malapena a contenersi. Batté ripetutamente il pugno sul tavolo e applaudì più volte, probabilmente per festeggiare il fatto di aver ricordato questo o quel gruppo di cifre e la loro posizione nella stringa. A un certo punto esclamò: «Sì, è giustissimo! Ne sono sicuro!» E quando infine mi snocciolò le cifre una dopo l’altra, effettivamente erano quelle giuste: quindi passammo a una stringa da quaranta. Ecco di nuovo un discorsetto: «Ci siamo, è l’ostacolo più alto! Se supero questo, è fatta! Devo riuscirci!» Di nuovo silenzio, mentre leggevo le cifre, e poi di nuovo strilletti ed esclamazioni mentre ragionava: «Wow! Coraggio, dai! Va bene!... Vai!» Azzeccò anche quella stringa, e nel resto della seduta azzeccò tutte le stringhe da quaranta, anche se non quelle di numero superiore.

Ora, non tutti abbiamo bisogno di gridare e tirare pugni a un tavolo per concentrarci; ma l’esempio di Steve illustra una scoperta importante emersa dallo studio della pratica efficace. È raro che si migliori molto se non si è del tutto concentrati sul compito da svolgere.

La pratica mirata richiede feedback

La pratica mirata richiede feedback. Avete bisogno di sapere se state procedendo bene e, se no, dove sbagliate. Nell’esempio di Oare lo studente di musica riceve un feedback il giorno dopo a scuola, prendendo una sufficienza risicata all’esame, ma sembra che non ci sia stato feedback durante la pratica: non c’era nessuno che lo ascoltasse ed evidenziasse gli errori, e lo studente sembrava non rendersi conto di aver commesso eventuali sbagli. («Quante volte l’hai suonato correttamente?» «Be’, non lo so... una o due...»)

Nel nostro studio sulla memoria, Steve riceveva un feedback semplice e diretto dopo ogni tentativo: giusto o sbagliato, successo o insuccesso. Sapeva sempre a che punto era. Ma forse il feedback più importante era proprio il suo. Cercava sempre di individuare quali parti di una stringa di cifre gli causavano problemi. Se aveva sbagliato a ripetere la stringa, di solito sapeva esattamente perché e quali cifre aveva dimenticato. Anche se la ripeteva correttamente, in seguito sapeva dirmi quali cifre gli avevano recato difficoltà e quali aveva ricordato facilmente. Riconoscendo i suoi punti deboli, poteva focalizzarvisi e ideare nuove tecniche di memorizzazione per risolverli.

In generale, qualsiasi cosa cerchiate di fare, avrete bisogno di feedback per scoprire esattamente dove e come sbagliate. Senza tali osservazioni - da parte vostra o di osservatori esterni - non potete sapere dove avete bisogno di migliorare o quanto siete vicini a centrare gli obiettivi.

La pratica mirata richiede di uscire dalla propria zona di comfort.

Questo è forse l’aspetto più importante. Lo studente di musica di Oare non dà segno di volersi mai spingere oltre ciò che gli è familiare e gli dà conforto. Le sue parole sembrano alludere anzi a un’esercitazione piuttosto svogliata, in cui aveva fatto solo ciò che per lui era già facile. Questo approccio, semplicemente, non funziona.

Il nostro esperimento di memoria era pensato per impedire a Steve di sedersi troppo sugli allori. Man mano che ampliava la capienza della sua memoria, lo sollecitavo con stringhe sempre più lunghe in modo da tenerlo sempre a ridosso del suo limite. In particolare, incrementando il numero di cifre ogni volta che azzeccava una stringa, e diminuendolo ogni volta che sbagliava, mantenevo il numero di cifre vicino al limite delle sue capacità, spingendolo al contempo a ricordarne una in più.

Questa è una verità fondamentale valida per qualsiasi forma di pratica: se non vi spingete mai oltre i limiti di ciò che già sapete fare, non migliorerete mai. Il pianista dilettante che ha preso lezioni per sei anni da ragazzo, ma che da allora non ha fatto che suonare gli stessi brani allo stesso modo, avrà accumulato diecimila ore di «pratica», ma non è diventato più bravo. Anzi, probabilmente è peggiorato.

Abbiamo prove evidenti di questo fenomeno per quanto riguarda i medici. Le ricerche condotte su molte specializzazioni mostrano che coloro che praticano da venti o trentanni se la cavano peggio, in certe misurazioni oggettive delle prestazioni, rispetto a chi si è appena specializzato. È emerso che la maggior parte delle cose che i medici fanno ogni giorno in ambulatorio non serve a migliorare e neppure a mantenere costanti le loro abilità: poche di quelle attività li mettono di fronte a problemi inaspettati o li costringono a uscire dalla loro zona di comfort. Per questo motivo ho partecipato nel 2015 a una conferenza per identificare nuove modalità di formazione permanente per i medici, capaci di soltacitarli e aiutarli a conservare e aggiornare le loro competenze. Ne parleremo nel dettaglio nel capitolo 5.

Il mio esempio preferito di questo principio riguarda Benjamin Franklin e gli scacchi. Franklin era uno scienziato noto per i suoi studi sull’elettricità, uno scrittore molto amato e il direttore del Poor Richard’s Almanack, il fondatore della prima biblioteca pubblica d’America, un diplomatico di alto calibro e l’inventore - tra le altre cose - delle lenti bifocali, del parafulmine e della stufa-caminetto che porta il suo nome e che rappresenta un punto di svolta nei dispositivi di riscaldamento. Ma la sua passione più grande erano gli scacchi. Fu uno dei primi scacchisti d’America e partecipò alla prima gara di scacchi di cui si abbia notizia in quel Paese. Giocò per oltre cinquantanni, e con l’avanzare dell’età vi si dedicò sempre di più. Quand’era in Europa si batté contro Frangois-André Danican Philidor, il miglior scacchista dell’epoca. E spesso giocava dalle sei del pomeriggio fino all’alba.

Questo ha fatto di lui un grande scacchista? No. Era sopra la media, ma non divenne mai abbastanza bravo per competere con i giocatori europei di alto livello, e tantomeno con i campioni. Questo insuccesso era per lui motivo di grande frustrazione, ma non capiva perché non riuscisse a migliorare. Oggi lo sappiamo: non usciva mai dalla sua zona di comfort, non dedicava mai il suo tempo alla pratica mirata. Era come il pianista che continua a suonare gli stessi pezzi allo stesso modo per trent’anni. Questa è una ricetta per la stagnazione, non per il progresso.

Uscire dalla propria zona di comfort

Uscire dalla propria zona di comfort significa cercare di fare qualcosa che prima non sapevamo fare. A volte si scopre che è facile, e allora si continua a insistere. Altre ci imbattiamo in un ostacolo che ci blocca, e ci convinciamo che non ce la faremo mai. Trovare il modo di superare questi scogli è uno dei segreti della pratica mirata.

Di solito la soluzione non è «impegnarsi di più» ma «impegnarsi diversamente». È una questione di tecnica, in altri termini. Nel caso di Steve, gli si presentò un ostacolo quando raggiunse le ventidue cifre. Le stava sistemando in quattro gruppi di quattro cifre, per ricordare i quali impiegava vari trucchi mnemonici, e un gruppo «di controllo» di sei cifre posizionato alla fine, che ripeteva a oltranza finché riusciva a memorizzarlo in base al suono dei numeri. Ma non capiva come andare oltre, perché quando provava a mandare a mente cinque gruppi di quattro cifre non riusciva a metterle nell’ordine giusto. A un certo punto però gli venne l’idea di usare gruppi di tre cifre e gruppi di quattro, un’intuizione che gli avrebbe poi permesso di passare a quattro gruppi di quattro cifre, quattro gruppi di tre cifre e un gruppo di prova di sei cifre, per un massimo di trentaquattro cifre. Poi, una volta raggiunto quel limite, ha dovuto sviluppare un’altra tecnica. È andata così per tutta la durata dello studio: Steve migliorava fino a un certo punto, si bloccava, cercava un approccio diverso che lo aiutasse a superare l’ostacolo, lo trovava e riprendeva a migliorare fino all’ostacolo successivo.

Il modo migliore per superare qualsiasi ostacolo è avvicinarsi a esso da una direzione diversa, ed è uno dei motivi per cui è utile lavorare con un insegnante o un allenatore. Una persona che conosce già il genere di ostacoli possibili può suggerire metodi per superarli.

E a volte si scopre che una barriera è più psicologica che fisica. La famosa insegnante di violino Dorothy DeLay ha raccontato che un suo allievo le aveva chiesto aiuto per aumentare la velocità di esecuzione di un certo brano, in vista di un festival musicale in cui avrebbe dovuto eseguirlo. L’obiettivo era raggiungere la stessa velocità del celebre musicista Itzhak Perlman. Così DeLay si procurò una registrazione di Perlman che suonava quel brano e la cronometrò. Poi fece partire un metronomo a velocità bassa e chiese all’allievo di suonare il brano a quel ritmo, il che era fattibilissimo per lui. Gli chiese di suonarlo ripetutamente, accelerando un po’ il metronomo ogni volta. E ogni volta l’allievo suonava bene. Alla fine, dopo l’ultima esecuzione perfetta, DeLay gli mostrò la regolazione del metronomo: l’allievo aveva suonato più velocemente di Perlman.

Io e Bill Chase abbiamo usato una tecnica simile con Steve in un paio di occasioni, quando aveva raggiunto un ostacolo e temeva di non poter migliorare ancora. Una volta rallentai di pochissimo il ritmo a cui leggevo le cifre, e quel margine di tempo permise a Steve di ricordarne parecchie di più. Così si convinse che il problema non fosse il numero di cifre, ma la velocità con cui le codificava - cioè con cui ideava tecniche mnemoniche per i vari gruppi di cifre che componevano la stringa - e di poter migliorare le sue prestazioni se solo fosse riuscito a ridurre il tempo necessario per trasferire le cifre nella memoria a lungo termine.

In un’altra occasione diedi a Steve stringhe più lunghe di dieci cifre rispetto a quelle che era riuscito a ricordare fino a quel momento. Stupì se stesso ricordandole quasi tutte; e in particolare ricordando più cifre in totale di quanto gli fosse mai riuscito prima, benché non in modo perfetto. In tal modo si persuase che era di fatto possibile ricordare stringhe più lunghe. Capì che il suo problema non era aver raggiunto il limite della memoria, bensì sbagliare uno o due gruppi di cifre nell’intera stringa. Decise che il segreto per superare l’ostacolo era codificare più attentamente i piccoli gruppi di cifre, e così ricominciò a migliorare.

Ogni volta che cercate di migliorarvi in qualcosa incontrerete ostacoli analoghi: momenti in cui sembra impossibile fare altri progressi, o quantomeno in cui non avete idea di come procedere per migliorare ancora. È naturale. Non è naturale, invece, che esista un ostacolo davvero insormontabile. In anni e anni di ricerche ho scoperto che è estremamente raro, in qualsiasi settore, trovare prove concrete del fatto che una persona abbia raggiunto il limite ultimo delle prestazioni. Ho capito invece che spesso le persone si arrendono e smettono di sforzarsi per migliorare.

Un avvertimento: proseguire e migliorare è sempre possibile, ma non è sempre facile. Mantenere la concentrazione e lo sforzo richiesti dalla pratica mirata è faticoso, e di solito non è divertente. Quindi sorge inevitabilmente il problema della motivazione: perché alcune persone si dedicano a questo tipo di pratica? Cosa le spinge a continuare? Torneremo in vari punti del libro su queste domande cruciali.

Nel caso di Steve erano all’opera diversi fattori. Anzitutto, veniva pagato. Ma gli sarebbe bastato presentarsi alle sedute e non sforzarsi granché, e l’avremmo pagato ugualmente; perciò poteva essere una delle sue motivazioni ma di certo non era l’unica. Come mai si impegnava così tanto per migliorare? In base a ciò che mi ha detto, ritengo che la ragione principale fosse che, una volta iniziato a vedere i primi progressi dopo alcune sedute, si divertiva a veder salire il punteggio. Era una bella sensazione e Steve voleva continuare a provarla. Inoltre, dopo aver raggiunto un certo livello nell’abilità di memorizzazione, è diventato una specie di celebrità: riviste e giornali hanno parlato di lui ed è apparso in vari programmi televisivi, come lo show Today. Era un’altra forma di feedback positivo. In generale, il feedback positivo è uno dei fattori cruciali per mantenere la motivazione. Può trattarsi di un feedback interno, come la soddisfazione di vedere che stiamo migliorando, o esterno, cioè elargito da altri; in ogni caso aiuta a mantenere costante lo sforzo necessario per migliorare attraverso la pratica mirata.

Un altro fattore in gioco era che a Steve piaceva sfidare se stesso. Era evidente dal suo curriculum di corridore, nella corsa campestre e su pista. Chiunque lo conoscesse vi avrebbe detto che si allenava con molto impegno, ma che la sua motivazione era semplicemente quella di migliorare le proprie prestazioni, non necessariamente di vincere le gare. Inoltre, gli anni di esperienza nella corsa gli avevano insegnato cosa significa allenarsi con regolarità, settimana dopo settimana, mese dopo mese, e sembra improbabile che l’impegno di allenare la memoria per un’ora tre volte la settimana gli sembrasse proibitivo, visto che correva abitualmente per tre ore di fila. In seguito, dopo aver terminato il lavoro sulla memoria con Steve e un paio di altri studenti, ho scelto di reclutare solo soggetti che avessero alle spalle lunghi allenamenti ed esercitazioni, come atleti, ballerini, musicisti o cantanti. Nessuno di loro mi ha mai piantato in asso.

Ecco dunque, in breve, che cos’è la pratica mirata: uscite dalla vostra zona di comfort ma fatelo in modo focalizzato, con obiettivi chiari, un piano per raggiungerli e un sistema per monitorare i progressi. Ah, e scoprite come conservare la motivazione.

È un’ottima ricetta iniziale per chiunque voglia migliorare, ma è pur sempre solo l’inizio.

Questo testo è estratto dal libro "Numero 1 Si Diventa".

Data di Pubblicazione: 1 ottobre 2017

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