SPIRITUALITÀ ED ESOTERISMO

Thonban Hla - La Leggenda - Anteprima del libro di Selene Calloni Williams

La favola che racconta

La favola che racconta

La favola che racconto in questo libro narra di una dea potente il cui nome è Thónbàn Hlà, che significa “Tre Bellezze”. La dea abita sul monte Popa, in compagnia dei propri simili. La conobbi in un viaggio attraverso la Birmania.

La mia professione e la mia passione mi spingono a essere spesso in cammino per il mondo, all’esplorazione dei culti etnici, dei riti ancestrali, delle culture e delle tradizioni spirituali dei popoli. Incontrai Thónbàn Hlà nel corso di un rito sciamanico a Pagan, la “città dei Pagani”, la quale sorge ai piedi del monte Popa, nel cuore del Myanmar.

Martin, la mia guida, mi aveva parlato del potere dei Nat, gli spiriti che, al pari della bellissima.

Parte II

Thónbàn Hlà, abitano il monte Popa e mi aveva detto che la forza dei Nat agisce nel racconto e nella rappresentazione delle loro vicende. Infatti, per evocare il potere dei Nat, ancora oggi, gli sciamani birmani allestiscono riti in cui interpretano gli spiriti e inscenano le loro gesta a mezzo di costumi, musiche, canzoni e danze. I Nat si esprimono nell’arte degli sciamani manifestando la loro forza, nei confronti della quale è saggio nutrire rispetto.

Thónbàn Hlà è una favola magica capace di ridestare il potere segreto della dea. Voi che la leggerete conservatene l’essenza nelfintimità del vostro cuore, dove l’energia della dea potrà fiorire.

Thónbàn Hlà, “Tre Bellezze” era moglie del re dei Mon, uno dei primi gruppi etnici insediatisi in Myanmar. I Mon controllavano un tempo un territorio di cui faceva parte anche l’attuale Thailandia. Oggi i Mon sono stati quasi completamente assimilati dalla maggioranza e non sembrano più distinguibili dai Bamar, componenti della principale etnia birmana.

Thónbàn Hlà non era solo bellissima, ma la sua bellezza mutava almeno tre volte al giorno, in sintonia con le variazioni della luce. Thónbàn Hlà è considerata un grande spirito di natura, la dea della bellezza, quella Bellezza che abita le profondità dei corpi e delle anime e sfugge a tal punto ai valori creati dalla mente, che per tentare di raggiungerla si deve sovvertire l’ordine stesso dei significati.

I signori della natura sono infedeli e illogici, bugiardi, imprevedibili, egocentrici; non sono nulla di ciò che è accettabile dalle regole della buona condotta che professa la società civile... perciò abitano in luoghi selvaggi sulle alte vette dei monti.

Parte III

Girando il mondo con interessi da antropoioga, mi era venuta la mania di collezionare statuette antiche che riproducessero le divinità dei vari popoli. Avendo speso molte ore nei negozi d’antiquariato, ho imparato a riconoscere una riproduzione dall’originale abbastanza bene, credo. Ma una cosa come quella che trovai un giorno in un negozietto pieno di polvere di Yangon era davvero eccezionale e non ci voleva la mia esperienza per capirlo, bastavano i sensi.

Era nuda. Piccola, piccola, ma fatta di un legno tanto poroso, morbido, caldo che pareva pelle umana. I fianchi larghi, i capelli neri, raccolti. Aveva un braccio abbandonato lungo il corpo e nell’altro, alzato per metà, teneva un grande uovo bianco, così sottile e trasparente che anch’esso pareva vero.

Appena la vidi sullo scaffale la afferrai e con gesti quasi meccanici presi ad accarezzarla, forse nel tentativo di ripulirla dagli strati di polvere che la ricoprivano.

«Chi è? Chi rappresenta?» chiesi al negoziante, un burbero ragazzotto cinese.

«Non so», mi fece lui, con tono scortese, mentre si dava da fare per mettere sul tavolo di fronte a me una lunga serie di buddha birmani di varie dimensioni.

Decisi di essere pratica. «Quanto costa?» chiesi.

«Non so», mi fece ancora lui, continuando ad allineare statuette di buddha.

«Io voglio comperarla».

«Davvero?»

«Sì, io voglio questa!»

«È da troppo tempo che quella se ne sta lì, sullo scaffale, devo chiamare mio padre, non so quanto costa».

Ricordo la lunga attesa sul marciapiede di fronte al negozietto, nel caldo torrido di Yangon.

Poi il padre arrivò. Era un vecchio molto esile, l’opposto del figlio.

«Quella è Thónbàn Hlà», mi disse.

«Sì», dissi io. Lo sapevo: era lei!

Parte IV

Per spiegarvi chi é Thónbàn Hlà vi devo narrare una parte della storia del tramonto del suo mondo: il regno degli spiriti.

Fu il re Anawrahta (1044-1077), fondatore di quello che i birmani, o uomini di stirpe Bamar, definiscono il Primo Impero Birmano, a scegliere il buddhismo theravada come religione sociale al fine di dare unione e solidità al proprio impero. Come era accaduto a Costantinopoli, dove Costantino il Grande aveva dato un fondamento sociale al proprio impero sull’affermazione del cristianesimo come religione di stato, così a Pagan il re Anawrahta decise di ancorare il proprio impero alle solide basi morali del buddhismo theravada.

Convertitosi egli stesso al buddhismo theravada, Anawrahta segnò con decisione la svolta del Myanmar dalla religione indù e buddhista mahayana alle dottrine del buddhismo theravada. Come Costantino aveva represso ferocemente i culti pagani, affermando l’unità della chiesa, così Anawrahta, deciso a imporre il buddhismo theravada come unica religione del proprio impero, combatte duramente il culto dei Nat. Ordinò che i santuari dedicati agli spiriti fossero distrutti nel suo impero e confinò le icone indù, principali veicoli delfanimismo Bamar, in un tempio sconsacrato di Vishnu, che venne chiamato Nathlaung Kyaung, ovvero Monastero dei Nat prigionieri. Questo monastero è ancora oggi visibile tra i resti delle migliaia di stupa di Bagan, ma i Nat, se mai vi furono catturati, se ne andarono molto presto.

La popolazione, infatti, non abbandonò mai il culto degli spiriti, ricostruendone i simulacri nelle proprie case e restaurando privatamente ciò che pubblicamente era stato distrutto.

Il re Anawrahta dovette rendersi conto che la sua politica repressiva non solo non era efficace contro l’animismo, ma, anzi, rischiava di fomentare ribellioni nei confronti del buddhismo theravada. Così annullò il suo precedente divieto di costruire santuari dedicati ai Nat e acconsentì alla presenza delle immagini degli spiriti nel suo impero. Tuttavia egli fece sì che gli spiriti fossero, in qualche modo, subordinati alle immagini sacre del buddhismo, creando, comunque, una gerarchia di valori. Così Anawrahta ebbe una trovata geniale: collocò alla base dello stupa di Shwezigon a Bagan, capitale del suo impero, le statue dei 36 Nat più potenti, ma ve ne aggiunse un trentasettesimo, Thagyamin, che soppiantò il precedente re dei Nat.

Thagyamin è un raffigurazione di Indra, divinità indù che, secondo la mitologia tradizionale buddhista, rese omaggio al Buddha su incarico di tutti gli dèi indù. In questo modo i Nat vennero subordinati al Buddha. Da allora la popolazione Bamar considera il Buddha come il più importante riferimento religioso, seguito dai Nat indù e infine dai Nat Bamar.

Malgrado i Nat siano ancora oggi evocati, celebrati e temuti nei culti e nei rituali popolari, la popolazione non ama le loro effigi e le loro icone. Si racconta infatti che esse racchiuderebbero la loro potenza incontrollabile: per questo motivo si dice che sia assai improbabile trovare dei simulacri autentici dei Nat considerati più importanti.

Thónbàn Hlà è ritenuto uno spirito di estrema potenza, di cui mai avrei detto di poter trovare un giorno l’immagine originale.

Parte V

Il vecchio antiquario cinese mi diede la statuetta a poco prezzo. Per un attimo ebbi quasi l’impressione che fosse felice di potersene disfare in modi non offensivi per lo spirito che la abitava.

Per molto tempo non la feci vedere a nessuno. La custodivo nel mio studio, in un cassetto chiuso a chiave della scrivania. Non la vedevo mai neppure io, ma nel corso delle giornate, ogni tanto, sapevo che c’era. Era diventata un oggetto intimo e, a maggior ragione, non la rivelavo a nessuno. Solo in tempi recenti l’ho mostrata a una donna coraggiosa, Èva, la quale era con me sul monte Popa, il giorno in cui Thónbàn Hlà si manifestò a mezzo del rito sciamanico.

Èva ha tanto sentito vicino alla propria persona il mito di Thónbàn Hlà, da desiderare che un artista le facesse un ritratto capace di accomunarla alla dea. Il pittore ha raffigurato la donna tutta vestita di bianco, proprio come era Thónbàn Hlà, la prima volta che la vedemmo, e ha disegnato l’immagine della statuetta di Thónbàn Hlà sul suo cuore.

Perché tanto amore per un mito?

Se giri il mondo in un senso e poi lo giri anche nell’altro, finisci inevitabilmente per disimparare quello che hai imparato: allora non distingui più sulla base delle categorie mentali, ma la pura bellezza diviene per te il prezioso significato delle cose.

Parte VI

A Pagan, a nulla sono valsi, nei secoli, gli sforzi di re, imperatori, monaci e filosofi per sradicare le rappresentazioni, le possessioni, il canto e la voce degli dèi e dei demoni. Quella terra pare essere stata eletta dagli spiriti quale loro eterna dimora. Chi giunga a Bagan ha innanzitutto la sensazione di trovarsi su un altro pianeta, tanto ciò che vede intorno a sé non è proprio di nessun altro paesaggio umano. Le rovine di migliaia di stupa si estendono tra una vegetazione incolta nella quale è impossibile addentrarsi a causa della presenza delle vipere.

Spirito tutelare, la vipera conserva l’inaccessibilità della dimora degli spiriti per tutte le creature mortali. Birmani e turisti, archeologi e contadini, militari e monaci, nessuno fa un passo al di fuori dei sentieri tracciati e di uccidere le vipere neppure se ne potrebbe parlare.

La vipera e i serpenti sono sacri nella credenza di pressoché tutte le etnie della Birmania. Se un serpente entra nella casa di un birmano non viene ucciso, ma solo scacciato: infatti essere visitati nella propria casa da una vipera o da un serpente è segno di gran buona fortuna. Se, per caso, ci si trovasse costretti a uccidere un serpente, per evitare un’infinità di disgrazie, bisognerebbe seppellirne il corpo con il massimo rispetto, affinché lo spirito che lo abita non abbia a rivalersi.

Inoltre vi è un fiume che divide l’antica città sacra degli spiriti dalla città moderna e dal mondo degli esseri umani.

Ora pensate a un teatro a cielo aperto allestito sulla riva di quel fiume. Ci sono strumenti etnici, specialmente tamburi. La compagnia dei teatranti è costituita da sciamani, uomini e donne, tutti poeti e cantori abilissimi nell’arte di annullare il confine tra l’esperienza visionaria e l’esperienza reale. E poi pensate a una tavola imbandita dove sono seduti cinque amici: io, Martin, Dario, detto il bello, addetto alla registrazione dei suoni e delle voci, Dario, detto il brutto, munito di apparecchio fotografico, e Èva. Noi siamo gli spettatori.

Martin, che per via dei suoi tratti somatici spiccatamente mongoli e dei suoi baffi, è stato da Èva soprannominato Gengis Khan, traduce per noi le voci degli attori fornendoci una sintesi dei significati dei loro discorsi e dei loro canti. La traduzione più minuziosa, quella che voi leggerete, è stata fatta da lui in seguito, ascoltando le registrazioni.

Se vi va, a tratti potete anche pensare che le vicende di cui state leggendo accadano sul monte Popa, la dimora degli dèi, che conoscete, perché è anche dentro di voi. Immaginate scenari surreali in cui tutto è fatto di nuvole, luci, ombre, colori, profumi. Visualizzate un mondo in cui nulla si può afferrare, né trattenere.

Lasciate che questa storia viva per ciò che essa è: una favola magica che appartiene a chiunque, poiché narra della Bellezza che è in tutti gli esseri, nessuno, ma proprio nessuno escluso.

Fu sulla riva del fiume di Pagan o poco più in là, sul monte Popa, che la donna sciamana, abbigliata con lo splendido costume dell’Orchessa, incominciò a recitare il ruolo della madre di Thónbàn Hlà, mentre il sole scompariva all’orizzonte e si alzava il vento.

Questo testo è estratto dal libro "Thonban Hla - La Leggenda".

Data di Pubblicazione: 1 ottobre 2017

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