ALIMENTAZIONE

Vegan Street Food - Anteprima del libro di Valerio Costanzia

Il cibo di strada... A casa tua 150 ricette da tutto il mondo

Breve storia dei cibo di/da strada

Il mio primo ricordo legato allo street food (ma allora non si chiamava certamente così) risale all’Infanzia. Durante la festa di Ognissanti andavo con i miei genitori al cimitero. All’ingresso, piazzato su un lato, c’era un simpatico caldarrostaio, Janu, che al prezzo di poche decine di lire elargiva invitanti coni di carta di giornale ricolmi di mondaj, ossia di caldarroste fumanti.

Fermarsi da Janu, dopo aver reso visita ai cari estinti, era una gioia indicibile che rallegrava e riscaldava quei giorni tristi fatti di rosari e preghiere.

Forse non ci abbiamo mai pensato, ma questo modo di alimentarsi è antico quanto la storia dell’uomo, almeno per quel che riguarda la tradizione biblica: che cos’è infatti se non cibo da strada la mela che Adamo prende da Èva e assaggia nel giardino dell’Eden?

Recentemente, durante una visita a Pompei, sono rimasto colpito dal thermopolium di Vetutius Placidus, una sorta di taberna dove si consumavano pasti caldi veloci oppure si faceva scaldare il cibo.

I banconi in muratura con le nicchie per alloggiare le giare contenenti il cibo, restituiscono immediatamente l’immagine del tempo.

Come spiega lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, la convivialità del banchetto, riservata alle classi agiate, non era certamente permessa al popolo che non possedeva né gli spazi abitativi né l’attrezzatura. La stessa cosa valeva per i soldati, a cui veniva ordinato di pranzare in piedi e unicamente con cibi crudi, mentre la cena poteva essere consumata solo con carne «arrosta o lessa». All’epoca, d’altra parte, esistevano già i venditori ambulanti, che dovevano rispettare regole precise sulle fasce orarie. In ogni caso, a differenza dei soldati, si poneva l’accento sul fatto che «le persone oneste non dovevano mangiare per strada». Emerge quindi, fin dall’epoca romana, quel concetto di frugalità che è strettamente connaturato al cibo di strada: mangiare in piedi, per strada, acquistare i cibi da venditori ambulanti per poi portarli a casa (take away). Dagli storici sappiamo pure che in pieno Medioevo i panettieri avevano la possibilità di preparare dolci durante le grandi feste della Chiesa, quando il grano costava di meno. Con una pasta leggera e non lievitata, stretta tra due ferri piatti e roventi, essi confezionavano le cialde (come i gofri che ancora oggi si gustano in Piemonte o le ferratene di Abruzzo e Molise). Prepararle a puntino era un’arte molto difficile da imparare e per esercitare il mestiere pare occorresse dimostrare di riuscire a fare, in un solo giorno, almeno cinquecento grandi cialde.

Altrettanto interessante è capire la dislocazione urbana medievale dei mestieri legati all’alimentazione. Le prime botteghe erano collocate al piano terra lungo le strade e le viuzze senza troppa distinzione tra le diverse categorie - per esempio un panettiere poteva essere vicino a un orafo. Già allora c’erano dei chioschi dove acquistare cibo di strada; erano delle botteghe provviste di un magazzino e di un’anta di legno che si ribaltava verso l’esterno, dove la gente passava. L’anta fungeva da piccolo banchetto su cui esporre i prodotti, soprattutto di panetteria.

Dalla Fruttivendola a Blade runner

Per capire come si svolgesse la vendita diretta dal produttore al consumatore è utile osservare una delle tre versioni del dipinto della Fruttivendola di Vincenzo Campi (1580) nel quale l’artista mostra la raccolta della frutta dall’albero e l’acquisto da parte degli avventori di passaggio. Questa rappresentazione può essere considerata un ottimo esempio della nascita di unioni libere in cui l’agricoltore, instaurando un rapporto diretto con il consumatore, abbatte le grandi filiere dell’intermediazione.

La strada, quindi, era in generale il non luogo per eccellenza, libero da vincoli, regole e norme in cui ragazzini, donne e uomini vendevano il cibo per il consumo immediato, spesso anche senza il consenso delle autorità preposte a vigilare. Potevano essere dipendenti dei panettieri che vendevano di nascosto panini o cialde, oppure ragazzi che smerciavano prodotti dalla freschezza sospetta (preoccupazioni in alcuni casi ancora attuali a secoli di distanza).

D’altra parte, prima della nascita del ristorante moderno (il cui termine rimanda, prima che al luogo fisico, a una preparazione: i “brodi ristoranti”, zuppe a base di carne adatte appunto a ristorare gli avventori) nel Settecento, la cucina di strada fiorisce con il commercio e i viaggi verso l’Africa, ma soprattutto verso il Nuovo Mondo e il Nuovissimo. Alcune di queste tradizioni sono arrivate fino a noi, come testimoniano per esempio le famose roulottes, i food truck di Papeete (Tahiti) che sono una delle attrattive della località polinesiana. Nell’Ottocento, l’iconografia popolare partenopea ci tramanda i primi coni da asporto, denominati o’ cuòppo napulitan, che per un soldo erano riempiti di frittelline di pasta cresciuta, verdure in pastella e, per i più fortunati, frammenti di alici appena pescati - come ci ricorda Matilde Serao, fondatrice del quotidiano «Il Mattino» (1892).

Sempre a Napoli è ambientata una bella scena del film Maccheroni di Ettore Scola, nella quale gli attori protagonisti, Marcello Mastroianni e Jack Lemmon, passeggiando in Galleria Umberto I si gustano due «babà alla panna supertridimensionali con doppio schizzo».

Oggi lo street food sembra aver attirato anche l’attenzione della ristorazione stellata. A Parigi, lo chef Marc Veyrat si è inventato Mes bocaux, furgoncini che portano il pranzo negli uffici. Visitando il sito si trovano due menu: uno a 11 euro (entrée, piatto forte o dessert) e uno a 13,50 (entrée, piatto forte e dessert).

Basta comporre il proprio menu scegliendo fra le tre proposte per ogni portata, aggiungere la bevanda, quindi effettuare l’ordine, per ricevere il pasto a domicilio. Ma anche in Italia non manca la scelta: a Milano c’è Mangiari di strada, sorta di street food restaurant con materie prime di alta qualità elaborate e servite secondo i dettami del cibo di strada. In Romagna invece il Rimini Street Food è un progetto pilota che raccoglie i migliori chioschi e piadinerie e a cui ha aderito anche lo chef Massimo Bottura. Non ultimo, in Piemonte, l’amica Sara propone nel suo Cucinando su due ruote piatti di qualità esclusivamente in chiave vegan.

Che cosa ci riserva il futuro? Lo street food sarà forse come quello immaginato in Blade runner, nella scena in cui il protagonista Rick Deckard si ferma a un noodle bar di una Los Angeles multirazziale in cui anche la lingua (il cityspeak) è diventata una babele di idiomi, uno slang che contamina lingue diverse. Oppure, più poeticamente, si tornerà alle atmosfere rurali di Pomodori verdi fritti alla fermata del treno?

Lo street eater - Costumi e abitudini dello street eater

Il cibo di e da strada è decisamente trasversale: è un po’ cucina fusion, un po’ cucina etnica, un po’ fast food, un po’ finger food, un po’ junk food (secondo alcuni), un po’ soul food. Nello street food si trovano infatti tendenze diverse accomunate dall’informalità dell’approccio.

È un po’ fast food, nel senso etimologico del termine, perché come questo è caratterizzato dalla rapidità; è un po’ etnico perché racconta un territorio; è un po’ fusion perché accomuna diverse tradizioni culinarie; è un po’ finger food perché si mangia con le mani; è un po’ junk food per via delle possibili carenze igienico-alimentari; ed è un po’ soul perché è chiassoso e funky, svela l’anima di una città o meglio di un quartiere.

Ma chi è il consumatore-tipo del cibo da strada? Già abbiamo un’idea abbastanza precisa del frequentatore abituale del ristorante stellato, della trattoria o del take away, proviamo ora a tracciare un profilo psicologico di quello che potremmo chiamare “street eater”.

La personalità vien mangiando... per strada!

Lo street eater in genere ha una moderata fretta, una buona dose di curiosità e immaginazione che si possono riassumere in pensieri del tipo: “Ho appuntamento alle 11:45, magari passo al chioschetto e faccio in tempo a prendermi un po’ di verdure in pastella e due falafel, giusto così per ingannare il tempo”. E mentre il cartoccio si riempie, il nostro mangiatore in cammino pensa già alle arancine, pregustando il suo prossimo viaggio a Palermo. Ecco, lo street eater, pur avendo fretta, non sceglie un fast food perché sa che ciò che mangerà in un locale di questo tipo sarà sempre lo stesso, a Palermo a Parigi: gusto identico, niente sorpresa, zero curiosità. Alcune volte è un ricercatore del chilometro zero, anche se poi si trova a mangiare la piadina presso un chiosco a Genova o a Milano.

Lo street food è molto amato dalla fasce più giovani, soprattutto dagli adolescenti, come sottolinea acutamente la psicoioga Josette Baverez Bianco in un interessante articolo dal titolo La personalità vien mangiando (per strada). I motivi sono diversi: in primo luogo socializzare (basta osservare un classico chioschetto con pizza al taglio durante la pausa pranzo, preso d’assalto da decine di studenti che con pochi euro mangiano assieme), stare assieme e condividere il cibo, imparare a “gestire tempo e denaro”, assaporare il gusto della libertà senza la presenza “ingombrante” dei genitori. I ragazzi possono infatti trasgredire le regole del galateo, mangiare con le mani, sedersi per terra. Insomma, un «momento di convivialità che necessita l’elaborazione di un sistema di valori propri al gruppo, oltre che il riconoscimento dello spazio occupato». Baverez Bianco sottolinea anche un altro aspetto decisamente interessante che è quello delle coccole: i cibi impanati, le frittelle e i dolci ricordano i piaceri orali della primissima infanzia. Infine, essere street eater significa anche non avere tanta “puzza al naso”: gli schizzinosi sono pregati di farsi da parte! Senza nulla togliere agli addetti nella cucina, che sono tenuti a osservare le stesse norme igieniche di un ristorante o di un negozio di alimentari, nei chioschetti del cibo di strada c’è spesso una maggiore informalità.

Street food al femminile

A proposito del cibo di strada, la blogger Alice Agnelli ha stilato una sorta di istruzioni per l’uso pensate per il pubblico femminile: quindi smalto perfetto, perché le dita sono oggetto dello sguardo altrui mentre si mangia; andatura lenta e composta; borsa a tracolla perché occorre avere le mani libere; lucidalabbra al posto del rossetto; un sorriso di circostanza quando si viene guardate da altri; bere dopo aver mangiato per non complicarsi la vita; avere sempre con sé dei tovagliolini e un igienizzante per le mani.

Tra le ultime tendenze nel mondo dei social c’è quella del selfie legato al cibo: food selfie, appunto. Lo street food è proprio una delle situazioni privilegiate del food selfie perché l’autoscatto permette contemporaneamente di soddisfare il nostro narcisismo e di cogliere l’atmosfera, il mood del territorio, del quartiere, della piazza in cui ci troviamo.

Vegan Street Food - Una piacevole sorpresa

La domanda sorge spontanea: è possibile immaginare uno street food in versione vegan? O meglio, si può “reinterpretare” una ricetta il più delle volte legata a un territorio particolare, a costumi e ingredienti che sono tipici e che hanno una loro sedimentazione nella storia gastronomica di un luogo? Secondo noi si può fare, a patto che lo si dichiari apertamente fin dall’inizio e che ci si attenga ad alcune semplici regole, come per esempio evidenziare già nel nome della ricetta la sua appartenenza al mondo vegan, oppure dichiarare che si tratta di una reinterpretazione in chiave crueltly free.

Non dimentichiamo tuttavia che molte ricette street food sono di per sé già vegan perché non contengono prodotti di origine animale o almeno, contenendone in minima parte, sono facilmente adattabili. Le caldarroste di cui parlavamo all’inizio rientrano certamente in questa categoria, allo stesso modo del nostro castagnaccio, dei falafel mediorientali, della jacket potato irlandese, delle galettes de sarrasin bretoni e di tante altre specialità come gli indiani masala dosa, pakora, milagai bhaji, privi di ingredienti di origine animale. Insomma, l’intento nasce dall’idea di proporvi uno street food 100% vegetale, e non solo, attento anche al consumo consapevole, come l’utilizzo di prodotti “sani” ai posto di quelli di produzione industriale e troppo raffinati. Non è facile fare sostituzioni quando la ricetta contiene molti ingredienti non ammessi in una dieta vegan: quindi la carne in primo luogo e poi il pesce, i latticini, le uova, il miele. Ma, statene certi, abbiamo fatto del nostro meglio!

L’etica del gusto

Chi ha dimestichezza con ia cucina vegan sa che ormai ci sono moltissimi prodotti di ottima qualità e anche di eccellente sapore che possono tranquillamente sostituire la maggior parte dei derivati animali. Il latte può essere egregiamente sostituito da quello di soia, di mandorle, di riso o di cocco; la stessa cosa vale per la panna, la ricotta e il burro. Un discorso più articolato meritano i formaggi vegani, a cominciare dal tofu, ormai ingrediente insostituibile della dieta vegana o vegetariana, declinato in vari modi: per esempio come sottolio aromatizzato (vedi i tofu-mini), oppure nella variante cremosa del tofu vellutato. Accanto a questi, negli ultimi anni si sono imposti sul mercato alcuni prodotti come la mozzarella a base di latte di riso. E il web è prodigo di ricette per prepararsi in casa gustosi formaggi vegan con ceci, lupini o altri ingredienti.

I dolcificanti come il miele possono essere sostituiti dallo sciroppo di acero (ingrediente immancabile dei pancakes), dal malto di riso o di grano, dalla linfa di agave o dalla melassa. In genere, una delle obiezioni più comuni sulla sostituzione di ingredienti animali con altri vegan riguarda le uova. Com’è possibile fare una torta senza le uova? Oppure la crèpe? E i waffle? Innanzitutto vediamo in concreto a che cosa servono le uova in una ricetta. Da un punto di vista “funzionale” agiscono da legante, insomma tengono assieme altri ingredienti. In questi casi possiamo sostituirle con fecola di patate, amido di mais, farina di ceci, purea di patate. L’altra funzione svolta dalle uova è quella di rendere belli gonfi e morbidi i prodotti da forno. In questo caso possiamo ricorrere a una purea di frutta, per esempio mela o banana, addizionata con un po’ di lievito naturale o di cremortartaro, oppure con una miscela di semi di lino macinati e acqua, soprattutto quando si vuole ottenere una maggiore lievitazione.

L’albume può essere sostituito con l’agar-agar, una gelatina ricavata da alcune alghe. Per rendere dorata la superficie di una torta dolce o salata basta sciogliere un po’ di malto in acqua o latte di soia (o altri latti vegetali). E per il colore giallo tipico dei tuorli? Semplice, basterà un pizzico di curcuma, spezia tra l’altro benefica per l’apparato digestivo e capace di prevenire tumori. In commercio ci sono poi prodotti sostitutivi creati ad hoc come il “No Egg” tra i cui ingredienti vi sono la fecola di patate e la farina di tapioca. Dopo i latticini, i dolcificanti e le uova prendiamo adesso in esame le proteine di origine vegetale. In questo campo le alternative non mancano, a cominciare dal tofu, classico o di canapa, impiegato per sostituire i latticini, e dai versatili legumi. Un discorso a parte merita il seitan, che è derivato dal glutine di grano - una sostanza capace di causare reazioni allergiche e intolleranze anche gravi. Il seitan è spesso usato in sostituzione della carne rossa (per la carne bianca è ottimo il tofu di canapa) e per realizzare ottimi ragù o spezzatini; si possono trovare in commercio affettati o prodotti tipo Wurstel e salsicce, come quelli che abbiamo usato per la nostra ricetta del currywurst. È invece di lupini l’affettato usato per la ricetta della zapiekanka polacca.

Infine anche il pesce può trovare delle ottime alternative, come i gamberetti vegan, che abbiamo utilizzato per la ricetta giapponese dell'okonomiyaki. Il pesce vegetale viene realizzato con una miscela in cui l’ingrediente principale è Tignarne o yarn, un tubero simile alla patata. E non vanno poi trascurate le alghe, ricche di vitamine, sali minerali e antiossidanti, spesso presenti nei piatti orientali e nelle preparazioni di tipo macrobiotico. Utili oltre che da un punto di vista nutrizionale, le alghe possono essere impiegate come gelificante naturale vegetale da utilizzare in sostituzione delle gelatine industriali animali. Insomma, come si può vedere, la stragrande maggioranza dei cibi di strada può essere proposta anche in chiave vegan utilizzando i numerosi ingredienti che la natura ci offre, senza andare a disturbare il mondo animale.

L’importante è, come dicevamo all’inizio, segnalare che si tratta di reinterpretazioni e riletture di ricette che spesso sono espressione di un territorio specifico. La sfida è quella di proporre varianti di street food che possano soddisfare chi ha abbracciato una dieta vegan, ma anche chi è incuriosito e attratto da un tipo di cucina salutare, cruelty free e ricca di piacevoli sapori e inaspettate sorprese. 

Questo testo è estratto dal libro "Vegan Street Food".

Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017

Ti è piaciuto questo articolo? Rimani in contatto con noi!

Procedendo con l'invio dei dati:

Lascia un commento su questo articolo

Caricamento in Corso...