SPIRITUALITÀ ED ESOTERISMO   |   Tempo di Lettura: 10 min

Vimana - Gli UFO dell'Antichità - Anteprima del libro di Roberto Pinotti

Astronavi, extraterrestri e bombe nucleari nell’India protostorica?

Astronavi, extraterrestri e bombe nucleari nell’India protostorica?

Nel 1960 una notizia fece il giro del mondo. Radio Mosca comunicò, riprendendo l’ipotesi dello scienziato sovietico Matest Agrest, che la distruzione (con zolfo e fuoco caduti dal cielo) delle città dell’antica Pentapoli biblica presso il Mar Morto, comprendente, ai tempi di Abramo, le città di Sodoma, Gomorra, Adma, Zeboim e Zoar e minuziosamente descritta nell’Antico Testamento, doveva ricollegarsi non a un intervento “angelico” ma all’azione di astronauti extraterrestri. La cosa fece scalpore, ma fu dai più accolta con incredulità.

Come tante affermazioni “contro corrente” che Scienza e Religione hanno negato salvo poi ricredersi e farle proprie.

Così, in campo archeologico, i “benpensanti” e gli “specialisti” derisero alla grande Heinrich Schliemann, il commerciante tedesco che un secolo e mezzo fa pretese di andare alla ricerca dell’antica Troia prendendo per buone le indicazioni dell’Iliade e dell’ Odissea, che secondo gli studiosi erano un miscuglio di miti e leggende senza fondamento. Ma fu proprio Schliemann, il “dilettante”, a scoprire Troia.

Forse è proprio quello l’atteggiamento giusto: condurre le ricerche avendo sotto gli occhi i testi antichi, e sforzarsi di prenderli sul serio anche quando ciò che narrano appare inverosimile. È quel che hanno fatto nel 1978 uno studioso di sanscrito, David Davenport, cittadino britannico nato in India, e il giornalista italiano Ettore Vincenti, dopo la lettura del Ramayana.

Poema epico e contemporaneamente testo sacro indù, centomila strofe (è il più prolisso libro di poesia esistente), il Ramayana è - come nel resto l’altro poema nazionale, il Mahabharata - un confuso racconto di guerre e di battaglie avvenute in un’antichità indefinita e leggendaria lungo la valle dell’Indo.

«La cosa che più colpisce nella lettura è che queste battaglie non sono combattute con lance e spade», racconta Vincenti. Eccone un esempio (il brano è tratto dal Mahabharata)-.

«Il valoroso Aswatthaman [un personaggio], risoluto, toccò l’acqua e invocò Tarma Agneya [da Agni, “fuoco”]. Puntandola verso i suoi nemici visibili e fuori vista, sparò una colonna esplosiva che si aprì in tutte le direzioni e provocò una luce brillante come fuoco senza fumo, a cui seguì una pioggia di scintille che circondò completamente l’esercito dei Partha».

Ed ecco gli effetti dell’arma:

«I quattro punti cardinali furono coperti di buio [...] un vento violento e cattivo cominciò a soffiare. Il sole sembrò girare in senso contrario, l’universo sembrò febbricitante. Gli elefanti, scorticati dal calore, si misero a correre terrorizzati».

Persino l’acqua si mise a «ribollire e gli animali acquatici mostrarono un’intensa sofferenza».

Qualche centinaio di versi più oltre, il Mahabharata descrive gli effetti di un’altra arma, detta “Narayana”: «I guerrieri... furono visti togliersi le armature e lavarle nell’acqua».

«Queste descrizioni», dicono Davenport e Vincenti «richiamano alla memoria in modo impressionante gli effetti di esplosioni atomiche e di bombe al fosforo».

David Davenport spiega:

«In realtà nel Ramayana vengono descritte parecchie armi che, per quanto possano sembrare fantastiche, somigliano molto ad armi modernissime. Il glossario delle armi del Mahabharata stilato dall’illustre sanscritista indiano Hari Prasad Shastri parla per esempio dell’arma Kamaruchi, “freccia intelligente, che va dove vuole”, in cui senza troppa fantasia si può vedere un missile telecomandato. O della Murchchdhana, “arma che causa la temporanea sospensione di tutte le sensazioni”; forse un gas nervino? E l’arma Nadana, “che produce gioia”, non potrebbe essere un gas esilarante? E la Shabdaveditva, “freccia che segue i suoni ed è capace di colpire gli oggetti nascosti”, non può ricordare un missile capace di orientarsi automaticamente dietro le onde sonore degli aerei nemici?».

Sì, perché nei testi indù si parla abbondantemente di aerei.

Spiega Davenport:

«Il termine sanscrito è vimàna, che letteralmente significa “uccello artificiale abitato”. I libri sacri dicono che i vimàna possono volare e li descrivono come vere e proprie macchine. Vien detto anche che al loro interno “non fa né troppo caldo né troppo freddo, l’aria vi è temperata in ogni stagione”: è impossibile non pensare alla climatizzazione delle cabine dei nostri aerei».

Gli increduli possono scuotere il capo. Davenport e Vincenti hanno fatto qualcosa di più costruttivo. Nel Ramayana ( Uttara Kanda, cap. 81) si parla di un rishi (un “sapiente”) che, adirato contro gli abitanti di una città chiamata Lanka, dà un preavviso di sette giorni, al termine dei quali promette «una calamità, che cadrà come fuoco dal cielo». Ebbene: testo sacro alla mano, i due si sono recati in India per identificare questa Sodoma orientale.

Davenport e Vincenti ritengono, per motivi linguistico-geografi-ci che sarebbe troppo lungo spiegare, di aver identificato l’antica Lanka (“isola”) nella città di Mohenjo-Daro, centro della «civiltà di Harappa», fiorita (e improvvisamente estinta) attorno al 2000 a.C. Mohenjo-Daro, nome moderno (significa “luogo della morte”) era chiamata qualche secolo fa “Isola” (Lanka appunto), perché era circondata da un braccio secondario del fiume Indo, oggi prosciugato. Gli scavi archeologici, condotti soprattutto dai britannici, una trentina d’anni fa, hanno messo in luce una realtà misteriosa e sconvolgente.

«Gli ultimi abitanti di Mohenjo-Daro sono periti di una morte subitanea e violenta», ha scritto l’archeologo Sir Mortimer Wheeler. Nelle macerie della città sono stati trovati 43 scheletri (evidentemente il grosso della popolazione aveva fatto in tempo a sfollare): si tratta di persone colte da una morte istantanea mentre attendevano alle loro faccende. Una famigliola composta da padre, madre e un bambino è stata trovata in una strada, schiacciata al suolo mentre camminava tranquillamente. «Non si tratta di sepolture regolari», ha scritto l’archeologo John Marshall, «ma probabilmente del risultato di una tragedia la cui natura esatta non sarà mai nota». Un’incursione di nemici è esclusa, perché i corpi non presentano ferite da arma bianca. In compenso, come ha evidenziato l’antropologo indiano Guha, «si trovano segni di calcinazione su alcuni degli scheletri. È difficile spiegare questa calcinazione...». Tanto più che gli scheletri calcinati sembrano meglio conservati degli altri.

È un mistero per cui Davenport e Vincenti hanno arrischiato una spiegazione, di cui hanno reso minutamente conto in un libro (redatto nella sua lingua madre da Davenport e in italiano da Vincenti) che hanno scritto insieme: 2000 a.C.: Distruzione atomica (SugarCo, Milano 1979). «L’antica Lanka è stata spazzata via», sostengono, «da un’esplosione assimilabile a una deflagrazione nucleare». Le prove?

Spiega Davenport:

«Abbiamo individuato chiaramente sul posto l’epicentro dell’esplosione. È una zona coperta da detriti anneriti, resti di manufatti di argilla. Abbiamo fatto esaminare alcuni di questi detriti presso l’Istituto di Mineralogia dell’Università di Roma: risulta che l’argilla è stata sottoposta a una temperatura altissima, più di 1500 gradi, per qualche frazione di secondo. C’è stato un inizio di fusione subito interrotta. È escluso che un normale incendio o il calore di una fornace possano produrre questo effetto. Inoltre, le case dell’antica città sono state danneggiate con tanto minor gravità, quanto più sono lontane dall’epicentro. Nei pressi dello scoppio, gli edifìci (in mattoni, con piani superiori in legno che sono andati completamente distrutti) sono stati rasi al suolo. Un po’ più lontano restano muretti alti un metro e mezzo; nei punti più lontani della città le mura rimaste in piedi superano i tre metri».

È l’inequivocabile effetto di un’esplosione avvenuta a qualche metro da terra.

Spiega Vincenti:

«L’ipotesi che il disastro sia stato provocato da un’esplosione di tipo nucleare è rafforzata da una leggenda che abbiamo raccolto da un abitante del luogo. Egli ci ha raccontato che “i signori del cielo”, adirati con gli abitanti dell’antico regno dove ora c’è il deserto, hanno annientato la città con una luce che brillava come mille soli e che mandava il rombo di diecimila tuoni. Da allora chi si arrischia ad avventurarsi nei luoghi distrutti viene aggredito da spiriti cattivi che lo fanno morire».

Certo, tutto ciò evoca la presenza e l’utilizzo di alta tecnologia che la cultura indù non sembrerebbe certo avere espresso. Nondimeno Sir P. Chandra Roy ha mostrato che in India, durante il periodo che va dal 1509 alla fine del III secolo a.C., si conoscevano metodi di lavorazione su vasta scala di metalli come oro, argento, rame, ferro, latta, piombo, mercurio e la lavorazione di leghe come ottone, bronzo, e altre ancora che come base avevano oro e argento mischiati a materiali più vili. Grandi varietà di minerali, gemme e pietre preziose sono state poi descritte dettagliatamente da Kau-tilya. Anche la conoscenza del processo di fermentazione giunse a un livello molto avanzato. Con uno stato di civiltà estremamente sviluppato che fioriva nell’arte, nella letteratura, nella storia, nella medicina, nell’alchimia, nella chimica, nella fisica, nella matematica, nell’astronomia, nell’astrologia, nella geologia, nel commercio, nell’agricoltura e nelle costruzioni navali, è naturale pensare che il genere di macchine volanti descritte dalla letteratura sanscrita fosse con tutta probabilità conosciuto.

Dai tempi di Panini ai tempi di Bhoja, abbiamo quindi visto fiorire grandi università come quelle di Taxila, Valabhi, Dhar, Ujjain, Visala, e via dicendo. Gli annali di storia c’informano che in India le distruzioni e i saccheggi da parte delle tribù straniere cominciarono solo dopo il II secolo d.C.; poi, due secoli dopo, cominciarono, a ondate, gli attacchi da parte di orde di invasori, quali arabi, turchi, afghani e altri. Tutte le università conosciute e i centri del sapere come i Templi, i Viharas e i Bhandaras che contenevano libri e tesori inestimabili dell’ancestrale eredità culturale indiana dovettero sostenere il fuoco e la furia dei predatori. In questo oscuro firmamento di devastazione e incertezza, ci furono gli sforzi del re Bhoja che nel XII secolo tentò la compilazione di numerosi testi. Molte scoperte attribuite ad afghani, turchi, arabi ecc. sono state ereditate dalle opere letterarie dell’antica India. Un esempio lo abbiamo in quello che noi chiamiamo “numeri arabi”, che di fatto sono invece “indiani”, anche se sono giunti a noi a attraverso gli arabi. Pertanto la cultura indù ha espresso una cultura e una scienza di livello non certo di basso livello.

Questo testo è estratto dal libro "Vimana - Gli UFO dell'Antichità".

Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017

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