Leggere dentro se stessi

Lo Zen è una filosofia buddhista che non può essere attinta con il pensiero, ma attraverso la pratica che diviene una forza motrice possente: un'arte del vivere, una maniera d'essere. Poiché "tutti gli esseri senzienti sono già Buddha", pienamente liberati, rimane il problema di come accorgersi di questo e di come realizzare detta verità per trasformare radicalmente il nostro vivere ordinario.

Cos'è lo Zen

In molte lingue asiatiche la meditazione, intesa come momento di ricerca e contatto con tutto ciò che è relativo alle dottrine religiose, viene indicata con un termine proprio e preciso; in giapponese questa parola è “zen”. Di fatto, con questo termine si indica oggi quella particolare dottrina di tipo buddista che riduce la tecnica ascetica alla mera meditazione. Essenzialmente essa si rifà alla filosofia sunya (vuoto) di Nagarjuna: più precisamente, infatti, il meditante si identifica con il vuoto e trova la propria realizzazione spirituale con una folgorazione improvvisa (satorì). Per raggiungere questo risultato si usano i koan, dei quesiti privi di soluzione, come i paradossi del tantrismo di Sahajayana, che facilitano la concentrazione. Lo Zen è un'esperienza estrema-mente personale e quindi non viene propriamente insegnato e il maestro rappresenta solo un punto di riferimento per il novizio. Egli insegnerà solo i metodi per una corretta meditazione: la posizione del loto, la respirazione da tenere durante essa e la giusta recitazione dei koan. Storicamente la meditazione Zen, o Ch’an (in cinese), fu introdotta in Cina dal monaco Bodhidarma nel 527 d.C., ma fu il patriarca Huineng, vissuto fra il 638 e il 713 a dargli una diffusione di rilievo. Nel 1215, però, venne importato in Giappone a opera del monaco Eisai, che aveva imparato in Cina dalla scuola Lin-chi (in giapponese rinzaì) e qui, negli anni attorno al 1230, si diffuse grazie all’opera del monaco Dogen. Lo Zen non si riduce a una ricerca di se stessi, o a una forma di isolamento, ma è anzi una ricerca tesa all’unione con la realtà nella sua integrità. Questa scuola ha oggi due orientamenti principali: soto e koan. Il primo, fedele alle origini, crede nella meditazione con il controllo del respiro e il vuoto della mente; il secondo è la meditazione per paradossi che conduce al vuoto attraverso la mancanza di soluzioni logiche. La produzione culturale giapponese deve molto allo Zen e nonostante la sua base non violenta divenne la base dell’ideologia dei samurai.

Il Buddismo Zen

Lo Zen colpisce la nostra fantasia e stuzzica la nostra voglia di esotico e, per questi motivi, se vogliamo piuttosto banali, si sta diffondendo con una certa velocità. In realtà, lo Zen è qualcosa di più profondo, mistico e personale. Probabilmente si tratta della corrente più mistica del Buddismo. Il suo primo concetto è l’indivisibilità del Budda da tutto ciò che esiste: pertanto l’uomo è chiamato a raggiungere, anche egli, l’unità con la divinità. In questo mondo, ciò può avvenire solo tramite l’illuminazione interiore che viene raggiunta attraverso gli eterei stimoli dettati dai maestri e da una costante pratica meditativa. La verità, così si usa dire, non può essere raggiunta con la ragione, né può essere espressa in concetti. Gli stimoli preferiti sono il senso del bello (come l’arte di disporre i fiori, la cerimonia del tè ecc.) e il controllo della respirazione. Molte sono le analogie tra la dottrina Zen e il Tantrismo e, specialmente, con la scuola Sahajayana. In entrambe si dà rilievo alle tecniche di meditazione e ai mezzi che possono svegliare l’attività spirituale. La concentrazione viene cercata con enigmi, paradossi e immagini materiali, evitando dogmi rigidi e predefiniti.

Il Tantrismo mirava al conseguimento dello stato di Budda “in questo stesso corpo”. Diversamente dallo Zen, che non pretende assolutamente di attribuire al satori dei poteri magici, l’ideale del Tantrismo era il raggiungimento dello stato di siddha, parola che significa “mago”. Il Ch’an è stato definito spesso come la più importante delle scuole cinesi.

La sua storia comincia con il “sesto patriarca” Huineng (638-713). Prima di lui, secondo Conze, “vi fu la preistoria del Ch’an” quando non si potevano distinguere le leggende dalle realtà storiche. La figura di maggior rilievo di quel periodo è Bodhidharma. Si tramanda, infatti, che Sakyamuni (Budda) avesse raccontato a Mahakasyapa la dottrina segreta che, poi, fu tramandata di patriarca in patriarca per via orale, fino ad arrivare appunto al Bodhidharma; un personaggio di indubbio carisma raffigurato spesso “come un fiero vecchio, con una lunga barba nera e grandi occhi dallo sguardo penetrante”.

Nella “preistoria” Ch’an, avvenne la scissione tra il ramo settentrionale della corrente, con a capo Shenhsiu, e il ramo meridionale con a capo Huineng di Canton. Il motivo di tale divisione fu la questione legata al come si dovesse conseguire l’illuminazione: secondo il ramo settentrionale la si doveva raggiungere gradualmente dopo un periodo di grande applicazione e disciplina, secondo il ramo meridionale, invece, il satori avveniva istantaneamente. Quest’ultima corrente si identificò con il Ch’an tradizionale e così è rimasto fino ai nostri giorni.

Un altro momento storico importante del Ch’an è l’innovazione normativa fatta da Po-chang per l’organizzazione della vita dei monaci che doveva essere una combinazione tra il Vinaya buddista e i precetti confuciani. I monaci facevano sì il giro della questua, ma erano tenuti a lavorare. Per questo motivo i maestri della scuola vivevano in luoghi remoti. Per sopravvivere era necessario coltivare la terra e allevare le bestie; questo sistema di vita, simile al principio “ora et labora” dei nostri frati Benedettini, era prima di allora sconosciuto alle comunità di monaci indiane (Sangad). Ancora oggi nei monasteri Zen praticare il samu (e cioè il lavoro), è basilare per la crescita spirituale dei praticanti.

Il Ch’an, per quanto riguarda la realizzazione pratica dell’illuminazione, prese posizione contro tutto ciò che rischiava di far perdere di vista e soffocare il vero scopo della dottrina e “reagendo contro tutto questo apparato devozionale eccessivamente sviluppato il Ch’an perorò una semplificazione radicale dei mezzi da usare per raggiungere l’illuminazione”.

Con lo stesso termine “zen”, talvolta, si ricorda anche la tradizione cinese, da cui storicamente deriva questa dottrina, e cioè quella prima fase del suo sviluppo che avvenne all’interno del mahayana.

Di fatto lo Zen è proprio una versione giapponese del Buddismo. Praticamente la parola “zen” non è altro che la pronuncia nipponica della parola cinese Ch’an. A sua volta, questo termine deriva dalla lingua classica cinese. Lo si utilizzava, infatti, per rendere foneticamente quello che era il termine sanscrito Dhyana. Nell’insegnamento del Budda, Dhyana stava a indicare i graduali stadi della coscienza che scaturiscono dall’esercizio del Samadhi, ossia la concentrazione meditativa. In seguito nacquero diverse forme composte dello stesso termine, come Chanseng, Chanshi (Monaco meditante, Maestro della meditazione), che genericamente indicavano una categoria di religiosi che si dedicava in modo particolare alla meditazione. Il Ch’an fiorì sotto la dinastia Tang (618-907) e grazie all’impulso dei suoi maestri, si diffuse rapidamente soppiantando le altre sette buddiste. Attorno all’845 vi fu una grande repressione contro il Buddismo e il Ch’an s’indebolì significativamente; il suo insegnamento originario, diretto, aspro, spontaneo, ottenne una nuova istituzionalizzazione solo sotto la dinastia Song (960-1279).

In Giappone, il Ch'ari (Chan) prese una forma più raffinata e sfumata. Le due scuole concorrenti, Rinzai (quella più vicina alle origini) e Soto (la più moderna), modificarono la pedagogia dei saggi cinesi, insistendo sulla meditazione in posizione seduta (Zazen) e sulla soluzione di enigmi verbali, i famosi koan, o kung-an. Lo Zen predilige l’atto puro, l’azione diretta e tutti quei modi privi di vincoli culturali diretti al modo di rapportarsi con l’esperienza e con l’intuizione. E particolarmente innovativa, secondo lo Zen, la concezione del vuoto, che si distacca totalmente dal nichilismo occidentale. Se per l’Occidente, infatti, esso rappresenta la morte, la cessazione e la mancanza o la privazione e la negazione, il mu, l’intraducibile nulla dello Zen, è qualcosa di estremamente dinamico. E lo stato germinale di tutte le cose, contenitore del tutto e condizione sine qua non per la nascita di tutto. Tra i vari modi utilizzati per indicare il mu si trova l’Enso: un ideogramma dalla forma circolare che, tra i simboli dello Zen, è uno dei più noti. Allo Zen si legano numerose pratiche anche molto diverse tra loro: le arti marziali (aikido, karate, kendo), o la calligrafia (shodo), la scrittura lirica di haiku, l'ikebana, il tiro con l’arco (kyudo), la preparazione del tè e, in particolare, lo Zazen.

Lo Zen, dopo essere sopravvissuto attraverso secoli difficili, conobbe una nuova espansione all’inizio del XX secolo quando i missionari giapponesi lo portarono nell’America del Nord (soprattutto in California). Qui, per esempio, lo studioso buddista Suzuki Daisetsu Teitaro scrisse dei libri riguardanti lo Zen in lingua inglese. Negli anni attorno al 1950, grazie al movimento beatnik, lo Zen divenne la “filosofia” di quei giovani appartenenti alla New Age, che lottavano contro la società industriale. Lo Zen arrivò anche in Europa, ma qui rimase appannaggio degli intellettuali e degli studiosi. Anche grazie alle grandi personalità che si sono impegnate a introdurlo in America ed Europa, quali lo psicoanalista-filosofo Jung e il citato studioso giapponese Suzuki, il fascino della dottrina Zen suscita oggi nella cultura occidentale un interesse sempre crescente che ne sta favorendo la diffusione anche nel nostro paese.

Le tre dottrine buddiste essenziali proprie dello Zen

Lo Zen fa proprie alcune essenziali dottrine buddiste. Esse sono principalmente tre: anatta, anicca e dukkha. Anatta, in sanscrito anatma, non-io , non-se, significa che l'io , la persona”, il “soggetto”, come centro spirituale, che unifica tutte le attività dei sensi, non esiste, o meglio, ha un’esistenza solo illusoria. L’individuo umano è formato da cinque gruppi di “aggregati”(skandha) che sono in rapporto tra loro, senza però avere un unico referente, una componente dominante. Essi sono il corpo, con i suoi sei sensi (l’udito, la vista, l’odorato, il gusto, il tatto e il pensiero), le sensazioni (che si provano nel momento in cui i sensi entrano in contatto con gli oggetti), le percezioni (che nascono dall’elaborazione delle sensazioni), gli impulsi spirituali, (cioè le idee, le volizioni e desideri, che scaturiscono dalle percezioni) e, infine, la coscienza (ovvero la consapevolezza di percezioni, idee, volizioni e desideri).

Manatta, che è il concetto centrale del Buddismo, vuole esprimere che l’uomo, poiché vive nell’“illusione” {maya) di essere un “io” individuale, vive nell’“ignoranza” (avidya) del suo vero essere che non è l’“io” fenomenico, la sua persona. Egli si libera da questo stato solo tramite l’“illuminazione” (bodhi) e prende finalmente coscienza del fatto che la sua vera natura è il “Sé”, assoluto e infinito, con il quale l’“io” fenomenico si identifica. Il buddismo respinge l’idea di un Io, di un’anima individuale, perché essa rappresenta l’illusione fondamentale. La falsa visione del proprio essere induce l’uomo ad avere desideri egoistici, all’attaccamento spasmodico verso cose e persone, all’odio, alla malevolenza, all’orgoglio, all’invidia e a un’infinità di altri desideri distruttivi.

Se la prima caratteristica fondamentale dell’esistenza umana è l'anatta, la seconda è l'anicca (in sanscrito anitya) che significa “impermanenza” e “inconsistenza”: per il buddismo niente è durevole e sostanziale, nella realtà ogni cosa e ogni forma si scompongono e si trasformano in continuazione, ogni cosa scorre via, nulla resta uguale a se stesso. Anche la materia apparentemente più solida è destinata a decomporsi e il piacere più intenso a dissolversi. La paura di perdere ciò che ci si illude di possedere può sprofondarci in un profondo e acuto dolore. Di qui lo stretto collegamento con dukkha, la sofferenza insita nell’esistenza. I monaci tibetani, per meditare sull’impermanenza, sono soliti costruire dei mandala (disegni circolari molto elaborati e ricchi di simbologie) con sabbia colorata e finissima. Una volta terminato il lavoro, il mandala viene distrutto e la sabbia raccolta e versata in un corso d’acqua, al fine di diffonderne ovunque gli effetti benefici. Nessun essere dunque (e tanto meno alcuna ideologia) ha consistenza reale e quindi non può offrire un punto di appoggio stabile e duraturo.

La terza caratteristica della vita umana è il dukkha (in sanscrito duhkha), che alla lettera significa “sofferenza”, “dolore”, traduzione che però non rende appieno la complessità e le sfumature del suo significato originale. Il buddismo considera la sofferenza connaturata nella nostra stessa condizione di esseri umani e nella nostra incapacità di abbandonare ciò che è transitorio e vacuo per consolidare ciò che è permanente e davvero importante per realizzare la nostra natura. Esso è causato in noi dalla “sete” (tanha) del piacere e del desiderio, e per i buddisti è un male da sradicare in quanto incatena l’essere umano al ciclo delle rinascite (samsara) dal quale ci si libera con l’“estinzione del desiderio”, attenendosi al “nobile ottuplice sentiero”, insegnato dal Budda. La “saggezza” (prajna) consiste dunque nella comprensione intuitiva dell’impermanenza, della sofferenza e della non-sostanzialità di tutte le forme di esistenza, e conduce alla “liberazione” (moksba) definitiva dalla necessità di rinascere e da ogni sofferenza, rendendo accessibile il nirvana (o nibbana), la condizione di distacco dalle cose sensibili e dalle passioni. E tuttavia importante notare che queste dottrine buddiste restano nello sfondo dello Zen, sia perché esso non è un sistema filosofico, ma una “pratica”, sia perché in parte questi concetti sono da esso riletti e reinterpretati.

I tre pilastri dello Zen: zazen, koan, satori

Come abbiamo già anticipato nei precedenti paragrafi, pur avendo una matrice buddista, lo Zen non s’identifica con il buddismo primitivo, la dottrina insegnata e praticata dal Budda storico Sakyamuni nel secolo VI a.C. e universalmente nota come buddismo theravada, ovvero la “dottrina degli anziani” (theravadin).

La matrice dello Zen giapponese è piuttosto il buddismo tnahayana o “grande veicolo (di salvezza)”, secondo il quale non solo i monaci, ma anche i laici, possono giungere al nirvana. Il suo ideale di santità è il bodhisattva, ovvero colui che per la “compassione” (karuna) nei confronti degli esseri viventi sceglie di restare nel samsara e di rinunciare aU’“illuminazione” fino al momento in cui non avrà aiutato gli altri a conoscere e a percorrere la via della salvezza. Ma ciò che maggiormente qualifica e specifica il buddismo mahayana è il concetto di “vuoto” (shunyata), che è la vera essenza della realtà. Questo significa che per comprendere e penetrare l’intima natura della realtà è necessario fare il vuoto nella propria mente e liberare il cuore da ogni attaccamento e da ogni desiderio. Questo è ciò che si propone di realizzare lo Zen.

Attualmente ci sono in Giappone due scuole di Zen, che differiscono sia per la maniera di concepire l’“illuminazione” (satori), sia per la maniera di raggiungerla: lo Zen Rinzai e lo Zen Soto. La meditazione si compie sempre stando seduti in un’apposita stanza (sendo), che si trova in ogni monastero Zen.

Si può dire, in generale, che i pilastri dello Zen siano fondamentalmente tre: zazen, koan, satori. Lo zazen consiste nella “meditazione seduta”: su un cuscino nella posizione del loto, cioè con le gambe incrociate, il busto eretto e tenuto perfettamente in asse, in modo che la punta del naso sia verticale all’ombelico, il capo leggermente inchinato in avanti, le mani aperte Luna sull’altra, gli occhi semichiusi e fissi su un punto. La respirazione deve compiersi attraverso il naso, e non con la bocca: quando si è assunta la posizione giusta, si inspira profondamente attraverso il naso, si trattiene l’aria per un certo tempo e poi la si lascia uscire attraverso le labbra socchiuse, il più lentamente possibile, finché i polmoni siano completamente svuotati. La posizione seduta nel loto e la respirazione tranquilla e regolare, hanno lo scopo di favorire la meditazione, per la migliore circolazione del sangue e per la calma e il rilassamento che producono: cosicché, oltre a favorire la meditazione, giovano alla salute psicofisica.

La meditazione Zen della scuola Soto è distante dall’idea cristiano-occidentale di meditazione che consiste nel riflettere su un testo scritto, per cercare di comprenderlo a fondo, di coglierne i nessi logici e le possibili applicazioni e ricadute nella realtà concreta. Poiché ci si rende conto che con le proprie forze non si può realizzare nella propria vita quanto si è meditato, spontaneamente la meditazione si risolve in un colloquio con Dio, sia per lodarlo e ringraziarlo di quanto ci ha detto attraverso la meditazione della sua parola, sia per chiedergli la grazia di compiere quanto Egli ci ha fatto conoscere nella meditazione. La meditazione Zen, invece, vuole svuotare la mente da ogni pensiero, da ogni elaborazione concettuale per giungere al puro vivere, al puro essere, spoglio di ogni determinazione. Tende perciò, a porre la mente in uno stato di perfetta immobilità e incoscienza. La meditazione Zen ha dunque lo scopo di portare chi la pratica alla radice dell’essere, alla realtà ultima che è sen za determinazioni e nella quale si dissolve l’io individuale, che l’illusione fa credere di essere il vero Io.

Secondo lo Zen questo risultato lo si può ottenere attraverso tre strumenti. Il primo è lo sbikantaza, praticato dallo Zen soto: esso significa “stare quietamente seduti senza fare nulla ”. Si tratta di fare zazen di fronte a un muro senza compiere alcuno sforzo per bloccare il flusso di pensieri che si susseguono incessantemente, ma lasciare che la mente si calmi e poi si fermi da sola. Il secondo mezzo per abolire il pensiero è la concentrazione sul ritmo del respiro e consiste nel fissare l’attenzione sulla respirazione, facendo attenzione, quando si inspira, soltanto all’inspirazione, e, quando si espira, unicamente all’atto dell’espirazione. Con questo metodo si elimina ogni altra preoccupazione e si raggiunge la pace interiore. Il terzo mezzo per svuotare la mente dal pensiero razionale, utilizzato soprattutto dalla scuola Rinzai, è l’uso del koan. Questo mezzo può essere abbinato allo shikantaza. Il koan non è altro che un breve aneddoto privo di senso logico oppure è un quesito cui non si può fornire una risposta sensata. Lo scopo è quello di mettere in crisi la ragione e di fare mettere il discepolo di fronte a una strada senza sbocco, da cui deve cercare in ogni modo di uscire. Abbandonata necessariamente la strada della logica, egli comincerà a praticare il koan nella maniera giusta, riflettendo giorno e notte su di esso con grande intensità fino a che diventerà egli stesso il koan. Continuando ad applicarsi, tutto a un tratto, il koan scomparirà dalla sua coscienza e questa si troverà completamente vuota.

Allora sarà sufficiente una qualsiasi e banale occasione - come la vista di un oggetto, la percezione di un odore o di un suono - affinché il suo spirito possa raggiungere l’illuminazione {satori}. Questo processo può durare anche alcuni anni e può essere necessario ricorrere a diversi koan. Il satori consiste in una visione alternativa delle cose e nel riuscire a contemplare la realtà per quello che veramente è, osservandola da un nuovo angolo visuale.

Infatti la realtà è unitaria, non duale, come appare al pensiero logico che distingue soggetto e oggetto, essere e non-essere, sì e no, l’io empirico e l’Io (o il Sé) assoluto. Chi giunge al satori vede la realtà non attraverso il pensiero logico, ma riesce a coglierla intuitivamente: non dunque falsata così come appare attraverso lo schermo del pensiero discorsivo, ma per quello che è realmente.

Chi pratica lo Zen non è solo una persona che professa un particolare credo religioso, ma è anche un individuo che ha deciso di attenersi a uno stile di vita sobrio e naturale. In Giappone questo modo di vivere può essere indicato col termine Wabi-Sabi. In verità, definire con precisione cosa significa Wabi-Sabi non è affatto un’impresa semplice perché esso rappresenta la traduzione dei precetti della dottrina Zen nella vita pratica di tutti i giorni e in campo estetico.

Con wabi-Sabi non si intende solo tutto ciò che serve al praticante Zen per avvicinarsi nei suoi comportamenti allo stadio della perfezione, significa andare oltre gli aspetti rigidi e condizionanti della vita. Raggiungere una visione della propria esistenza che trascenda le barriere della mente razionale per camminare lungo la Via dell’illuminazione. Un maestro Zen giapponese definì il wabi-sabi come “il limite dell’essenzialità”, uno stato cioè di perfetto equilibrio che rende possibile restare immersi nel flusso dell’esistenza senza mediazioni o inutili distrazioni: con wabi si vuole indicare infatti uno stile sobrio, povero, puro, austero e unico. Sabi invece è un ideale estetico che richiama concettualmente la solitudine, la quiete e il fascino conferito agli oggetti dalla patina del tempo.

La ricerca dell’essenzialità insita in Wabi-Sabi rappresenta un vero toccasana anche per lo stile di vita occidentale, oramai avvelenato dagli eccessi del superfluo, e può aiutarci ad assaporare l’essenza e la semplicità della vita reale, troppo spesso oscurata dal chiassoso affollarsi nelle nostre menti di pensieri e preoccupazioni e, nelle nostre case, di una miriade di oggetti superflui.

Wabi-sabi rimanda anche alla transitorietà, all’impermanenza delle cose e della nostra stessa esistenza. Il mondo oggi è dominato da sconvolgimenti di ogni tipo scatenati dal desiderio di possesso e volti al raggiungimento di un più elevato grado di benessere e di gratificazione dell’ego. Wabi-Sabi, al contrario, si propone come uno stile di vita, un cammino spirituale, un modello filosofico, un ideale estetico, ma soprattutto un’esperienza interiore che cambia il nostro modo di vedere gli oggetti, di vivere gli istanti, di abitare la natura, che esalta la nostra capacità di trovare l’armonia anche nelle cose apparentemente più dismesse, negli oggetti e nei gesti più semplici.

In questo modo però si rafforza soltanto Lego e non lo spirito che, invece, si afferma attraverso la pratica Zen e, quindi applicando il canone estetico del Wabi-sabi.

La carta, inoltre, con il suo candore, potente simbolo evocatore di purezza, è considerata il mezzo perfetto per comunicare con gli esseri divini.

Il giardino Zen

In Occidente il giardino è caratterizzato dal predominio dell’uomo sulla natura, poiché è l’uomo a creare un ambiente “artificiale” in base alle proprie necessità, esigenze e al proprio gusto personale. Questo non avviene in Oriente: il giardino giapponese è, infatti, finalizzato alla contemplazione e alla meditazione, e in questo spazio riservato al raccoglimento l’uomo non domina la natura ma ne è parte integrante. Giochi prospettici, trucchi visivi e inganni psicologici sono caratteristiche peculiari di questo tipo di giardino, che riesce a dilatare gli spazi e a dare l’illusione dell’ampiezza pur disponendo di uno spazio limitato. Nel giardino giapponese tutto è molto naturale, malgrado la composizione degli elementi che lo compongono sia studiata sin nei più minimi dettagli: alberi, erbe, fiori, pietre e acqua sono accostati in perfetta armonia. Il giardino giapponese è una vera e propria opera d’arte e come tale va osservato e contemplato. E l’arte della composizione, ma quest’ultima si deve notare il meno possibile; tutto deve dare l’apparenza di un paesaggio estrema-mente naturale, tanto che il giardino difficilmente si distingua da un paesaggio reale. La bravura dell’artista è proprio quella di celare qualsiasi intervento della sua mano. Il progettista ha un ruolo fondamentale, tant’è che riflette nella sua creazione la propria visione dell’ambiente, come in un dialogo fra se stesso e il mondo circostante. Scoprire la magia, la tradizione e la simbologia del giardino giapponese è un viaggio assolutamente affascinante, e il giardino Zen ne è sicuramente l’espressione più suggestiva. Esso è un vero e proprio giardino di contemplazione; non è possibile accedervi e camminare al suo interno; la sua forma può essere un piccolo giardino con stagno, ma molto spesso si tratta di un karesansui, un giardino paesistico secco costituito da pietre e sabbia.

Il giardino Zen si diffuse, nella sua forma più essenziale, in Giappone nell’età Muromachi (1338-1573): è durante questo periodo che i materiali si riducono alla sola pietra e sabbia, con l’introduzione talvolta di qualche vegetale. L’influenza del buddismo Zen ha dato una dimensione spirituale al giardino giapponese, soprattutto in quanto spazio di meditazione. Stare seduti a gambe incrociate (posizione del loto) o sui talloni in modo da favorire l’immobilità del corpo; respirare correttamente; essere nella giusta disposizione, in modo che la coscienza non sia rivolta a nessun oggetto, né miri al raggiungimento di uno scopo.

Queste, molto sinteticamente, sono le condizioni di concentrazione della mente nello Zen. E proprio queste regole aiutano a comprendere il significato della meditazione, ma anche l’atteggiamento dinanzi al giardino, soprattutto del monaco che lo osserva dalla veranda in posa contemplativa. Il giardino rispecchia in pieno le caratteristiche dell’arte Zen, fondata sull’asimmetria, la semplicità, la natura spontanea, l’immobilità, il silenzio puro, e proprio per il suo carattere di essenzialità favorisce le condizioni della ricerca interiore.

Il roji (“giardino del tè”) è posizionato tradizionalmente nella zona circostante al padiglione del chanoyu, la stanza esterna o interna alla casa che, come abbiamo visto, ospita la cerimonia del tè. Il classico giardino del tè è un frammento di paesaggio, dove spicca una sorgente d’acqua, un ruscello, un giardino con laghetto, da cui si attinge l’acqua per la cerimonia.

Il chitai (“giardino del piacere”) è generalmente caratterizzato da un laghetto, viene anche definito “giardino in trasformazione” poiché, attraversandolo, i suoi scenari sono in continua evoluzione. Esso può essere combinato anche con una giardino del tè o un giardino paesistico secco.

Il giardino Zen (karesansui, letteralmente “giardino di pietre”) vuole rappresentare tutti gli elementi della cultura tipica giapponese. L’acqua, le piante e le pietre sono rappresentate in maniera simbolica da pietre e ghiaia. L’acqua viene rappresentata da “fiumi” di ghiaia dentro i quali si notano grosse pietre dalle forme naturalmente disordinate, che simboleggiano il dinamismo delle forme della natura. Ci sono stati molti tentativi di spiegare il disegno dei giardini Zen. Si ritiene per esempio che la ghiaia rappresenti l’oceano e le pietre rappresentino le isole del Giappone. Altri forniscono una spiegazione più tecnica in quanto ritengono che le pietre formino un’immagine subliminale di un albero. Questa immagine verrebbe percepita solo dalla parte inconscia della mente, l’unica in grado di vedere questa sottile associazione tra le pietre e la natura. Da qui l’effetto calmante del giardino. Al di là di tutto, è certa l’importanza dei giardini Zen per i monaci, perché sono ritenuti indispensabili per la meditazione. Il più celebre giardino Zen è quello di Ryoanji, tempio di Kyoto.

Il giardino di ghiaia è stato creato per offrire un posto dove meditare, ed è conosciuto per il suo effetto calmante. E per questo motivo che, talvolta, in mancanza di spazi esterni adeguati vengono costruiti dei giardini in miniatura, chiamati bonseki, talmente ridotti da essere contenuti in una piccola struttura in legno. Questi giardini da tavola si sono diffusi anche in Occidente.

Data di Pubblicazione: 3 ottobre 2017

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