Anteprima del libro "Storie di Miracoli" di Nayaswami Asha Praver
Cambiamento improvviso
É inverno, sull’autostrada I-90 nello stato di Washington, c’è una “linea magica”: un punto in cui finisce la pioggia e comincia la neve. Quando gli automobilisti si imbattono in questo improvviso cambiamento meteorologico, si verificano molti incidenti. A peggiorare la situazione, c’è una lunga curva cieca che precede la “linea magica”. Sono un pompiere e faccio parte di una squadra medica di pronto intervento. Conosco fin troppo bene quel tratto di autostrada.
Fu la tipica telefonata: in una fredda mattina di novembre, in quel punto, un veicolo aveva perso il controllo e si era ribaltato. Per fortuna, l’uomo al volante non si era ferito gravemente. Lo tirammo fuori dall’auto, lo sistemammo sulla barella e lo caricammo sull’ambulanza. Ero il capo della squadra, ed era mio compito vigilare sulla sicurezza dell'intera operazione.
Da dietro la curva cieca, i veicoli continuavano a sfrecciare a forte velocità, ignari della scena dell’incidente e delle condizioni pericolose della strada. Mi incamminai verso la curva, fronteggiando il traffico, piazzando segnali luminosi nel mezzo della strada per avvisare gli automobilisti di ciò che avrebbero trovato innanzi. Il mio collega, Glen, era a bordo dell’ambulanza e mi teneva d’occhio dal finestrino posteriore.
Appena posizionato il primo segnale luminoso, vidi un’auto arrivare troppo veloce da dietro la curva, perdere il controllo e iniziare a ruotare su se stessa, diretta proprio contro di me.
All’improvviso, non mi trovai più al centro della carreggiata, ma sul ciglio della strada, distante una quindicina di metri. Non so come fossi finito là: successe tutto in un istante. La macchina piombò dritta nel punto in cui mi trovavo precedentemente, poi sterzò e colpì di striscio l’ambulanza; sbandò contro un’altra auto e, infine, scivolò in un canale.
L’auto era distrutta, ma il guidatore era illeso. L’equipaggio della mia ambulanza se la cavò con qualche graffio e un paio di bernoccoli.
Il mio collega, Glen, si precipitò verso di me: mi afferrò per le spalle e mi urlò in faccia: «Stai bene?».
Aveva assistito all’intera scena. Un attimo prima mi ero trovato sulla traiettoria della morte e il momento dopo ero scomparso: Glen era sicuro che fossi morto.
Nemmeno io riuscivo a spiegarmelo. Ci incamminammo insieme verso quel tratto di strada.
Vedemmo le mie orme e i segni degli pneumatici nel punto in cui l’auto avrebbe dovuto colpirmi e poi le mie impronte, a una quindicina di metri, sul ciglio.
Nel mezzo non c’erano orme.
Caduta libera
Non so chi di noi vide per primo l’uccello, ma ci alzammo tutti e quattro dalle sedie e ci avvicinammo alla finestra per vederlo meglio. Non ero mai stato a casa di Parvati e Pranaba prima di allora e non mi accorsi che, dall’altra parte del muretto, alla mia destra, c’era la tromba delle scale che conducevano al seminterrato.
Ero in una posizione arretrata rispetto agli altri e non riuscivo a vedere l’uccello, così feci un passo indietro spostandomi di lato, con la speranza di avere una visuale migliore. Invece di toccare il pavimento, però, il mio piede finì nel vuoto. Ero abbastanza vicino a mia moglie da potermi aggrappare alle sue spalle e così evitare di cadere, ma decisi consapevolmente di non farlo, per timore di trascinarla con me ovunque fossi precipitato.
Durante la mia giovinezza ero stato abbastanza spericolato ed ero caduto da ogni cosa semovente avessi provato: bicicletta, skateboard, tavola da surf, snowboard. Riuscivo sempre a cadere. Per fortuna, me la sono sempre cavata senza farmi male sul serio.
Perciò, quando mi ritrovai in posizione orizzontale per aria, mentre cadevo all’indietro, non fu affatto una novità. Ruotando su me stesso nella caduta, mi accorsi che stavo precipitando a testa in giù per una scalinata lunga e ripida. «Questa sarà una brutta caduta» pensai. «Forse questa volta non ne uscirò illeso».
Fu allora che sentii una voce potente, come mai ne avevo udite prima: «Oh! Dio! NO!». Era Parvati. Solitamente, un’esclamazione simile in un momento del genere risuona di paura, supplica o rimpianto.
Non fu questo il caso.
Era un comandamento all’Universo, e l’Universo lo assecondò.
Senza che mi fossi spostato o che fosse trascorso del tempo, mi ritrovai esattamente dove avrei voluto essere prima che il mio piede infilasse la tromba delle scale: alle spalle di mia moglie, a guardare fuori dalla finestra. Come se ciò che era appena successo fosse stato solo un sogno. Entrambi i miei piedi erano ben saldi sul pavimento, con la tromba delle scale dietro di me.
Più tardi, confrontammo le nostre versioni e combaciavano tutte: cadevo giù per le scale, Parvati esclamava a gran voce e, infine, mi ritrovavo davanti alla finestra.
Pranaba ci raccontò che la notte precedente aveva sognato di cadere nella tromba delle scale. Stava forse sognando il mio karma? Fui io a prendere il suo? O fu Parvati, come strumento della Volontà Divina, a evitare a entrambi un tremendo incidente?
Correnti divine
Ricordo vagamente un cartello che ammoniva: «Correnti pericolose. Nessun servizio di salvataggio». Sono cresciuto nel cuore degli Stati Uniti. Avevo vent’anni, non avevo pressoché mai visto un oceano e ne avevo dunque ben scarsa conoscenza, perciò quell’insegna non aveva alcun significato per me. Era una bella giornata assolata e io mi trovavo in California davanti all’Oceano Pacifico. Pensavo solo a una cosa: tuffarmi nelle onde.
Sguazzando nell’acqua, mi godevo la nuova esperienza. Poi tutto cambiò: venni risucchiato da una corrente turbolenta, che mi trascinò lontano dalla riva. Provai a resisterle, ma era troppo forte. Mi portò sempre più lontano in mare, finché il susseguirsi delle onde non cominciò a sbatacchiarmi come una bambola di pezza.
Tentai invano di resistere. Lottavo per la mia vita e l’oceano stava vincendo. Alla fine, incapace di fare un’altra bracciata, mi voltai sulla schiena e mi misi letteralmente a “pancia all’aria”. Ero convinto di non poter fare più niente, e che nessuno potesse salvarmi.
Le onde si infrangevano tutt’attorno a me, ma provavo una calma assoluta. Non avevo mai pensato a cosa avrei fatto faccia a faccia con la morte. Riflettendo a posteriori, reagii in modo stupefacente. Avevo iniziato a meditare di recente e sapevo che Dio era lì, da qualche parte. Non ero sicuro, però, di quale ruolo potesse avere nella mia vita, né di quale fosse la mia relazione con Lui.
In quel momento, mentre osservavo l'immenso cielo azzurro, il sole splendente e l’oceano attorno a me, mi offrii completamente a Lui. Senza parole. Non chiesi di essere salvato. Non pregai di morire in fretta. Con tutto il mio cuore, mi riconsegnai a Lui.
Ciò che successe in seguito mi sembrò la cosa più naturale del mondo. Io gli offrii me stesso e Dio, in risposta, mi donò la beatitudine. Offrire se stessi a Dio equivale alla beatitudine: è una lezione che non ho mai dimenticato.
Immerso nella Sua beatitudine, impiegai qualche minuto prima di accorgermi che stavo ormai galleggiando nel mare acquietato. Mi riposai finché non ripresi le forze. Poi nuotai a cagnolino nella corrente tranquilla, fino a raggiungere la riva.
Questo testo è estratto dal libro "Storie di Miracoli".
Data di Pubblicazione: 9 marzo 2018