A spasso con papà
A spasso con papà
Immaginiamo una bambina di poco più di tre anni, che stia facendo una passeggiata con il papà una domenica mattina.
A quell’età i bambini vedono e pensano molto.
È anche perché non conoscono ancora gli orologi, che gli adulti adoperano per limitare la vita. Adesso per esempio nella mente del papà della bambina mancano quaranta minuti a mezzogiorno, cioè al momento di tornare verso casa, e in quaranta minuti non si può vedere, pensare, scoprire più di tanto. Nella mente della bambina, invece, non sta mancando nulla a nulla. Tutto è dov’è, c’è tantissimo di tutto, e tutto si ferma e rimane come in ascolto ogni volta che la bambina guarda qualcosa che le interessa.
Adesso sta guardando un cane.
Il cane e l’uomo che lo tiene al guinzaglio passano accanto alla bambina: l’uomo non la guarda, il cane sì. Il cane guarda negli occhi la bambina, per un attimo, dicendole molte cose purtroppo intraducibili nelle lingue degli uomini.
E qui, alla bambina comincia a mancare qualcosa: ha socchiuso la bocca per fare una domanda al papà, ma ha pensato che fosse meglio lasciar stare. Quello che le manca è una risposta che adesso non può arrivarle. Avrebbe voluto chiedere: «Perché un cane è un cane?», ma a tre anni e mezzo una bambina sa già che questo tipo di domande non funzionano con gli adulti.
Per gli adulti un cane è un cane, e basta. Se vogliono sapere di più riguardo a un cane, gli adulti si accontentano di domandare di che razza è, quanti anni ha, se morde, come si chiama, o magari quanto costa.
La bambina invece avrebbe bisogno di sapere perché i cani sono cani. Sarebbe importante, per giocare a fare il cane, che è un gioco bello e non consiste soltanto nel mettere le mani per terra e nel dire «bau bau». Giocare a fare il cane, per la bambina, è scoprire che effetto fa essere un cane. E una cosa particolarmente emozionante di questo gioco, è che quando smette di fare il cane la bambina si accorge di giocare a fare la bambina, per vedere che effetto fa essere una bambina. E probabilmente anche il papà gioca a fare il papà. Tutto è un gioco per vedere che effetto fa - pensa la bambina. E le piacerebbe tanto avere la conferma che questo è il motivo per cui un cane è un cane, e una bambina è una bambina e un papà è un papà.
Lo domanderebbe, se avesse una qualche speranza che il papà potesse capirla. Il papà non può, perché non sa niente di metafìsica: non gli è mai giunta la notizia che fare metafìsica significa porsi proprio quel tipo di domande. Se lo sapesse, adesso lui e la bambina starebbero discutendo, per scoprire insieme perché e in che senso tutto è un gioco, e perché il gioco è il gioco. E ogni tanto scoppierebbero a ridere di meraviglia, come prometteva il Vangelo di Tomaso: perché qualunque cosa può diventare molto interessante, quando ci si chiede perché e perché e perché.
Sarebbe bello, ma alla bambina non è mai successo niente del genere con gli adulti. E perciò poco fa, quando non ha fatto quella domanda al papà, la bambina ha pensato che ci fosse qualcosa di sbagliato. Ma non sa in chi. In lei stessa? O nel papà? O nel cane?
Probabilmente anche il cane lo pensa, a modo suo. E perciò ha il guinzaglio.
Guinzagli
Di persone che si intendono di metafisica ce n’è qualcuna alle superiori o all’università, ma quando l’ex bambina ne incontrerà sarà troppo tardi. Già da un pezzo sarà giunta alla conclusione che nel mondo bisogna parlare e pensare come gli adulti: avrà cominciato, perciò, a porsi meno domande. Avrà accettato tanti elementi del mondo, così come i cani accettano il guinzaglio: la scuola, lo sport, la religione, il cellulare, il computer, i luoghi comuni, le mode, la coppia, la macchina, la politica, il lavoro da fare da grande. E tutto ciò le avrà occupato la mente al punto da cancellarne il ricordo delle sue domande di bambina piccola. Perciò, se alle superiori o all’università le parleranno della metafisica, crederà che si tratti soltanto di una serie di informazioni da tenere a mente fino all’interrogazione.
Ma di quelle domande avrà perso solo il ricordo. La mancanza delle risposte non avute allora le resterà, invece, per sempre. Non sapendo più come chiamarla, proverà a esprimerla sotto forma di molte altre esigenze. Le sembrerà di aver bisogno di impadronirsi di tante cose, e di persone, senza mai chiedersi perché una cosa è una cosa e una persona è una persona. E per potersene impadronire avrà imparato a capirle, ad afferrarle, a comprenderle, e a credere che in questo consista l’intelligenza.
Forse non saprà mai che questi tre verbi esprimono altrettanti modi di mettere guinzagli.
Comprendere viene infatti dal latino comprendere, che significa «ridurre in proprio potere».
Afferrare è «tener fermo con tenaglie».
Capire è «chiudere (capere) qualcosa da qualche parte», perché non ti infastidisca.
Forse gli adulti intendono qualcos’altro, quando usano questi verbi: qualcosa di più sottile, di più alto; ma ciò non toglie che quando capiscono, afferrano, comprendono, compiono proprio e soltanto quelle tre azioni violente. E a loro ciò sembra normale, e quindi giusto, solo perché troppe volte è toccato loro di venire capiti-afferrati-compresi - cioè incasellati-immo-bilizzati-sottomessi — e, se è toccato a loro, pensano sia normale e giusto che tocchi anche a tutto il resto.
Invece quella metafisica di cui l’ex bambina sentirà sempre la mancanza è proprio il contrario, sia del capire, sia dell’afferrare, sia del comprendere.
Io non le piaccio abbastanza
«Come, il contrario?» penserebbe il papà. «La metafisica non serve a capire? E a cosa serve allora? A non capire più?»
Capire vuol dire afferrare qualche cosa e comprenderla tra le cose che sai già. È un imprigionare. Piace a persone che si sentono in prigione. Si può fare di meglio, con la mente: per esempio, uscire dalle cose che sai già, verso ciò che non sai ancora.
«Bah. Io in questo periodo sono molto agitato» penserebbe il papà. «Non piaccio abbastanza a mia moglie e non capisco cos’è che mi manca per piacerle di più. Non so se capire sia imprigionare, ma a me serve capire questo mio problema. Mi piacerebbe proprio afferrarlo, comprenderlo, come dici tu...»
E che cosa non capisci, di questo problema?
«È che tutto è come è sempre stato, ma da un po’ non va bene».
Appunto.
«Appunto cosa?»
Quello che sai già non basta più, né a te né a lei. E tu vorresti capire il tuo problema in quello che sai già? Non capirlo lì dentro. Non capirti lì dentro. Fa’ metafisica. Perché una persona che non piace più è una persona che non piace più?
«Non so... È perché sto giocando a vedere che effetto fa?»
Probabilmente sì: ti sei venuto a noia e stai giocando a fare il marito noioso. Cambia gioco: prova a vedere che effetto fa non capirti più, e non rassegnarti a essere quello che gli altri hanno capito di te.
«Se provo a immaginarlo mi sento stupido».
Non fermarti lì. Va’ oltre. Perché uno stupido è uno stupido?
«Perché si rassegna a esserlo».
Bravo.
«Sì, ma di questo passo dove si va a finire? Se uno comincia a chiedersi il perché delle cose, non la smette più».
Infatti. Non la smette più e non si ferma più. Nessuno lo ferma più - e, tra l’altro, questa è precisamente la direzione in cui la metafisica conduce.
«Ah, non fa per me. Capire è faticoso, il più delle volte. Accorgersi che c’è qualcosa di più del capire è sicuramente più faticoso ancora. Metafisica}. Basta la parola, si sente subito che dev’essere qualcosa di difficile».
Questo è vero, purtroppo. La parola «metafisica» non è gran che, soprattutto per come è usata dagli esperti, che hanno veramente l’abitudine di farla apparire difficile, perché la fraintendono.
Questo testo è estratto dal libro "Al di Là del Deserto".
Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017