Dove e quando nasce la parola Alchimia? Scopri il significato etimologico leggendo l'anteprima del libro di Jacques Van Lennep.

Le chiavi del Museo di Ermete

Nelle loro parti preliminari, le opere contemporanee che trattano dell’alchimia di solito insistono sul fatto che la letteratura alchemica è tuttora poco nota e che la sua storia non ha attratto a sufficienza l’attenzione degli studiosi... Cosa dire allora della sua arte, la cui interpretazione doveva dipendere da quelle conoscenze?

Nel suo primo approccio, lo studioso è sconcertato non solo dall’enorme mole di testi dispersi nelle biblioteche, ma anche dall’oscurità e dalla contraddizione del loro contenuto, sempre ammesso che riesca a tradurli in una delle nostre lingue moderne, in cui non sempre vi sono gli equivalenti dei termini impiegati. Quando vi riesce, solo con grande difficoltà può intravedere il significato profondo di un linguaggio essenzialmente simbolico, appartenente a una mentalità e a una cultura che non è più la sua.

Lo studioso si scontra con un’altra difficoltà connessa con la ricchezza stessa dell’alchimia: le sue interferenze con le molteplici forme dell’attività e del pensiero umano, si tratti della filosofia, della religione, delle scienze (dalla chimica alla medicina, passando per la metallurgia), delle tecniche artigianali, della politica e dell’economia.

Tale diversità ha diviso gli studiosi, orientandone le “dottrine” riguardanti la definizione stessa dell’alchimia. Per gli uni, essa non sarebbe altro che una sorta di chimica primitiva, per gli altri sarebbe una mistica, per limitarci a una divisione schematica, la quale, tuttavia, suggerisce con quale prudenza sia opportuno accostarci alle loro pubblicazioni, che peraltro, rispetto ai testi oscurantisti degli adepti dell’occultismo, hanno il merito di attenersi a un metodo ben definito.

Nell'alchimia la storia si confonde con la leggenda, la realtà con il simbolo. Il suo stesso nome, trasmessoci attraverso gli Arabi, è tutt’uno con le sue origini mitiche che la tradizione cercò nell’antico Egitto. I testi originari ancora conservati vi furono redatti nei primi secoli della nostra era, e comprendono il nucleo essenziale delle sue pratiche e allegorie trasmesse poi da Arabi e Bizantini, che contribuirono al suo arricchimento.

In Occidente l’alchimia ebbe i suoi esordi solo nel XII secolo, per conoscere il suo periodo classico nel secolo successivo, quando furono concepiti i testi latini destinati a essere i principali punti di riferimento.

L’arte a soggetto alchemico, che poté svilupparsi solo dopo la completa assimilazione della dottrina, ci è nota dalla fine del XIV secolo. Pur essendo influenzata in origine dall’iconografia religiosa, si arricchì ben presto di temi profani.

Alla fine del Medioevo, pur essendo contestata e in certi casi condannata, l’alchimia fu definitivamente accolta nel complesso delle discipline scientifiche ufficiali.

Nel XVI secolo conobbe uno sviluppo prodigioso, sostenuto dalla diffusione della filosofia ermetica negli ambienti umanistici, con la conseguenza che un certo numero di adepti fu indotto a orientarsi verso adattamenti di tipo teosofico. Ciò portò nel secolo successivo alla formazione della setta dei Rosacroce, nel momento in cui, grazie alla tecnica dell’incisione, l’iconografia stava conoscendo una ricchezza eccezionale.

Il declino ebbe inizio fin dal XVII secolo, quando le teorie degli alchimisti furono contrastate da conoscenze più positive e dalla progressiva organizzazione della nostra chimica.

La credenza nella possibilità di trasmutare un metallo vile in oro, che costituisce la base dell’alchimia, fu allora respinta dal corpo scientifico che la considerò per lo più una frode concepita per ingenuità, ignoranza o allegoria.

Le operazioni alle quali l’alchimista doveva dedicarsi per avere successo in questa trasmutazione prendevano il nome di grande opera. Esse dovevano condurre alla pietra filosofale, capace di nobilitare un metallo volgare una volta che fosse stata “proiettata” su di esso. In aggiunta, l’alchimista cercava altresì di ottenere un “oro potabile”, o elisir di lunga vita, che avrebbe aggiunto l’eternità alla potenza e alla ricchezza procurategli dal metallo prezioso.

Si debbono distinguere diverse categorie di alchimisti in funzione della loro attitudine nei confronti di questa teoria. Esse riuniscono quei ricercatori che stabilirono le basi della chimica scoprendone procedimenti e prodotti e perfezionando la conoscenza della materia, i ciarlatani che sfruttavano la credulità popolare e infine gli adepti, per i quali l’oro alchemico non era affatto il metallo garante di una ricchezza materiale, ma l’espressione della perfezione dell’essere.

Origine di un nome

Nel suo senso più comune, l’alchimia è l’arte della trasmutazione, che consiste nel convertire alcuni metalli vili in argento e oro. Per riuscirvi, il suo praticante doveva scoprire la pietra filosofale, che sotto forma di una “polvere di proiezione” era in grado di realizzare questa conversione. L’insieme delle operazioni a ciò finalizzate fu chiamato “grande opera”. L’alchimista ricercava inoltre un rimedio universale, l’elisir di lunga vita.

Definita in questo modo, in base al suo aspetto più caratteristico, l’alchimia presentava due facce, una operativa e l’altra speculativa. La prima rientrava nella metallurgia e nella chimica primitiva, mentre la seconda si presentava come una ricerca mistica. Questi due aspetti, pur non necessariamente collegati, potevano essere combinati in gradi diversi.

Tali pratiche, comprendenti tanto tecniche artigianali quanto una scienza primitiva della materia, fin dai tempi più antichi furono accompagnate da speculazioni religiose o filosofiche. Limitate alla manipolazione dei metalli, non furono sempre qualificate come alchemiche, anche se l’origine di questo termine sembra essere molto antica.

I primi alchimisti di cui sono noti i testi, i greco-egiziani del III e del IV secolo della nostra era, definivano più volentieri le loro pratiche come “arte divina”. Il termine “chimica” appare di rado nei loro scritti.

Esso apparve in greco più tardi, sotto diverse forme: chêmia, chumeia, chumia o, per esempio, nel Lessico di Suda, chêmeia.

In quest’ultimo è definita come una tecnica di preparazione dell’oro e dell’argento, aggiungendo che Diocleziano (verso il 290 d.C.), per punire gli Egizi dopo che si erano ribellati a Roma, fece bruciare tutti i libri che i loro antenati avevano scritto sulla chimica. Voleva privarli di una grande fonte di ricchezza. All’origine di questi libri vi sarebbe un testo sacro, Chemen, di cui parlò Zosimo, uno degli alchimisti greco-egiziani, quando volle ricordare l’origine della sua arte: “Le Sacre Scritture riferiscono che c’è un certo genere di demoni che ebbe commercio con le donne. Ne parlò Ermete nei suoi libri sulla natura. Le antiche e sacre scritture dichiarano che alcuni angeli, presi dall’amore per le donne, discesero sulla terra, insegnarono loro le opere della natura e, a causa di ciò, furono cacciati dal cielo e condannati a un esilio perpetuo. Da tale commercio ebbe origine la razza dei giganti. Il libro nel quale insegnavano le arti è intitolato Chemeu, da cui il nome dato all’arte per eccellenza”.

Questo brano, presente nel suo Libro dedicato a Imhotep, è con ogni evidenza ispirato al Libro di Enoch, dove si apprende che gli angeli decaduti, accorgendosi “che le figlie degli uomini erano belle, ne scelsero alcune”, alle quali insegnarono, oltre alle scienze occulte, “l’uso dei braccialetti e degli ornamenti, l’uso del trucco, l’arte di dipingere le sopracciglia, l’arte di impiegare le pietre preziose e tutti i tipi di tinta, in modo tale che il mondo si corruppe”.

Gli alchimisti stessi, tra cui Zosimo e Olimpiodoro, rivendicarono l’eredità di un eroe considerato profeta, Chèmès, Chimès o Chymès. A volte fu identificato con uno di quegli angeli ribelli che avevano rivelato all’umanità determinate conoscenze sacre, nonché l’autore del libro che le conteneva.

Dal punto di vista etimologico non è impossibile che il termine “chimica”, al quale si attribuiva tale origine leggendaria, provenga in realtà da “colare”, “fondere”, che in greco si dice chéô, e dal suo derivato cheuma, che designa ogni oggetto fusibile. In questo senso viene utilizzato nella copia di un testo di Alessandro di Afrodisia (IV secolo), il quale, a proposito della fusione, parla di “strumenti chimici”.

Com’è indicato dal prefisso “al”, il termine mise radici presso gli Arabi, i quali raccolsero le conoscenze dei greco-egiziani. È significativo constatare che tutto quello che era stato loro trasmesso, questa al khemia, era definita come “egizia”, tanto che le due parole erano assimilate. Gli Arabi accostavano la loro scienza al termine kâma, tenere segreto.

È il termine che, con la trasmissione a noi della scienza araba, apparve nel XII secolo nella sua forma latina: alkimia, alquimia, alchimia, alchemia, poi, nel XIII secolo, in francese, alquemie, arkemié.

A quell’epoca si credeva che il nome provenisse da un monarca che per primo aveva tradotto in latino alcuni testi ebraici contenenti i segreti di questa scienza: “Dato che Alchimius era il nome di colui che per la prima volta trattò per iscritto questa scienza, essa è stata chiamata Alchimia, che in lingua latina significa massa (materia, sostanza)”.

Questa parola è l’equivalente di “lingotto”, o chuma, che è in relazione alla radice di cheô (fondere). Fu forse Juan Hispano, uno dei primi traduttori dei trattati alchemici, tra il 1126 e il 1151, ad accreditare questa leggenda. Egli menziona un certo Alchimdus, maestro dell’arte sacra. Fu talvolta trascritto con Alquimio o Alquindio.

E evidente che l’origine della parola preoccupò gli ingegni tanto quanto il contenuto, a dir poco misterioso, di questa scienza. Nel Rinascimento si tentò così di trovare a esso una spiegazione plausibile che non fosse in disaccordo con la sua origine egizia. Gli eruditi interessati all’alchimia ripresero l’etimologia suggerita da Alessandro di Afrodisia. “Pur avendo l’articolo arabo, il termine alchimia è greco e pare provenire dal verbo 'chimo' (io fondo) a causa della fusione”.

Altri assicurarono che l’alchimia traeva il suo nome dal paese d’origine, l’Egitto, che secondo Plutarco era chiamato Chêmia.

“L’Egitto, inoltre, che è quanto di più nero ci sia al mondo nel colore del terreno, lo chiamano, proprio come il nero dell’occhio, Chêmia, e lo paragonano al cuore”.

In copto la “terra nera” e, per associazione, l’antico nome dell’Egitto erano designati con khemi o khoumi. All’ipotesi che vedeva nel paese di Cam (Chamia), l’antenato biblico della razza nera, l’origine dell’arte per eccellenza, si aggiunse quella di una città della Tebaide, Chemmis, consacrata al dio Pan. Non si mancò di trarre conclusioni simboliche e di porre l’immagine della terra nera in rapporto a una delle fasi della grande opera che consisteva nell’“annerire” il metallo, nel calcinarlo (la nigredo)...

Infine, alcune ipotesi contemporanee hanno individuato la sua origine in un antico libro egiziano, kmj.t, un titolo che può essere messo in relazione alla nozione di “opera”, poiché la radice km significa “compiere, realizzare”.

In conclusione, si potrebbe ammettere che in Egitto sia esistito un corpus di conoscenze chimiche alle quali era applicabile un antico nome di questo paese, e che in seguito gli alchimisti greco-egiziani lo abbiano messo in relazione a un termine che designava una tecnica metallurgica.

Senza entrare nella delicata questione, tuttora soggetta a controversia, del rapporto tra la chimica nella sua concezione attuale e l’alchimia, dobbiamo osservare che fino al XVII secolo le parole chymia e alchymia furono impiegate indifferentemente, mentre una disciplina scevra di considerazioni ideologiche e associazioni allegoriche era già praticata.

Data di Pubblicazione: 11 marzo 2021

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