Che cos’è il microbiota e perché è così importante?
Che cos’è il microbiota e perché è così importante?
Ci piace pensare che il mondo sia dominato dagli esseri umani. La nostra specie ha creato società complesse, progettato città e prodotto sorprendenti opere d’arte, musica e letteratura. Alcune prove dell’attività dell’uomo sulla Terra - come autostrade, dighe e gli skyline illuminati delle città - sono visibili persino dallo spazio! È chiaro che abbiamo avuto un forte impatto sul nostro pianeta, ma in realtà lo popoliamo da tempi piuttosto recenti e siamo numericamente trascurabili. Viviamo in un mondo di microbi. La Terra è coperta di microrganismi da miliardi di anni: si tratta di forme di vita microscopiche, come batteri e archeobatteri. Ci sono più microbi sulla vostra mano che esseri umani in tutto il globo. Se raggruppassimo tutti i batteri della Terra, formerebbero una biomassa più grande di quella di tutte le piante e gli animali messi insieme. (Tenete a mente questa immagine per aggiornarla, quando più avanti parleremo della guerra condotta dagli antibiotici contro questi microbi.) Si stima che il numero di batteri presenti sul pianeta ammonti a cinque milioni di bilioni di bilioni o, in termini più esatti, cinque alla nona potenza di un milione. Se volete scriverlo in numeri, dovete mettere trenta zeri dopo il cinque.
I batteri vivono ovunque, dai freddi laghi scuri sepolti centinaia di metri sotto il ghiaccio antartico, alle sorgenti idrotermali degli abissi marini che raggiungono temperature di quasi 100 °C, alla gola che vi si è stretta al pensiero di tutti questi organismi. Se mai troveremo delle forme di vita extraterrestre, probabilmente saranno microbi. (È per questo motivo che uno dei compiti dei rover su Marte è di cercare segni di un ambiente favorevole alla vita microbica.) I microbi unicellulari, con i loro tre miliardi e mezzo di anni, sono la più antica forma di vita sulla Terra: l’uomo è comparso solo duecentomila anni fa. Se paragonassimo la storia del nostro pianeta a una giornata di ventiquattr’ore, fissando il momento della sua creazione a mezzanotte, i microbi sarebbero apparsi poco dopo le quattro di mattina, mentre gli esseri umani solo pochi secondi prima della fine della giornata. Senza microbi, gli uomini non esisterebbero, mentre, se tutti noi sparissimo, ben pochi di loro se ne accorgerebbero.
Nonostante le loro forme apparentemente primitive, i microbi di oggi sono il risultato di miliardi di anni di evoluzione, e dunque sono evoluti quanto noi: anzi, considerando il maggior numero di generazioni che sono passate (questi microrganismi si riproducono a una velocità misurabile in minuti o ore), potremmo affermare che si sono meglio adattati all’ambiente attuale rispetto all’uomo. Per esempio, nel giro di pochi decenni, vicino al luogo del disastro di Cernobyl’, sono proliferati funghi in grado di raccogliere energia dalle radiazioni.1 Se l’intero pianeta fosse devastato, probabilmente alcuni microbi riuscirebbero ad adattarsi con rapidità al nuovo ambiente e proliferare. Il nostro organismo, invece, non è in grado di farlo con la stessa facilità.
Ogni neonato rappresenta per i microbi un nuovo habitat da colonizzare. Poiché sono così abbondanti e hanno una sorprendente capacità di assuefarsi rapidamente ai nuovi ambienti, essi riescono a vivere in modo stabile in ogni organismo, umano e non. Popolano la pelle, le orecchie, la bocca e ogni altro orifizio del nostro corpo, compreso l’intero sistema digestivo, dove per la maggior parte risiedono. Anche se i microbi che abitano nell’organismo umano all’inizio erano solo alla ricerca di cibo e riparo, nel corso di questa coevoluzione sono diventati una parte fondamentale della nostra biologia.
Un tubo pieno di batteri (l’essere umano)
Il corpo umano è per lo più un tubo altamente elaborato che va dalla bocca all’ano. Il tratto digestivo, o intestino, costituisce l’interno del tubo. Proprio come ha osservato Mary Roach in Gulp. Adventures on the Alimentary Canal, un libro davvero divertente, sotto questo aspetto non siamo poi così diversi dal lombrico. Il cibo entra da un’estremità del tubo, viene digerito mentre lo attraversa e viene poi espulso sotto forma di rifiuti organici all’estremità opposta. Prima di deprimervi osservando quanto «poco sofisticato» sia il nostro sistema digestivo, ricordate che il tubo con due aperture è stato un grande progresso rispetto a quelli meno evoluti a una sola. L’idra, un animale microscopico che vive negli stagni, ha solo la bocca. Ciò significa che il cibo ingerito e i rifiuti escreti utilizzano lo stesso orifizio. Ora il nostro «tubo» non vi sembra più così scadente, vero?
A differenza di quello del verme, il nostro tubo ha un ricco armamentario che si è evoluto per nutrirlo e proteggerlo. Braccia e mani servono per raggiungere e afferrare il cibo, mentre gambe e piedi ci permettono di cercarlo in modo più agevole. Tutti e cinque i sensi e il nostro elaborato cervello possono essere immaginati come «accessori» utili per portare a termine quelle operazioni e per procreare altri tubi, che forniranno nuovi habitat per altri batteri.
I microrganismi residenti nell’intestino hanno un forte impatto sulla digestione, ma, prima di incontrarli, il cibo deve attraversare un lungo tratto dell’apparato digerente. Gli alimenti che ingeriamo scendono dall’esofago allo stomaco, dove si trovano immersi in un bagno di acido ed enzimi destinati ad avviare il processo digestivo e l’estrazione delle sostanze nutritive. Dopo essere stato impastato meccanicamente per circa tre ore in questo ambiente per lo più privo di microbi, il cibo parzialmente digerito viene pian piano svuotato nell’intestino tenue. È qui che l’apparato gastrointestinale comincia ad assomigliare a un tubo. Questo passaggio flessibile è lungo circa sette metri, con un diametro di due centimetri e mezzo, ed è ripiegato su se stesso al centro del nostro corpo. Le pareti dell’intestino tenue sono coperte di estroflessioni simili a dita chiamate villi, che assorbono le sostanze nutritive e le fanno passare nel sangue.
Durante il transito nell’intestino tenue il chimo (impasto di cibo parzialmente digerito, saliva e succhi gastrici) subisce l’azione combinata degli enzimi secreti dal pancreas e dal fegato, che servono ad assimilare proteine, grassi e carboidrati. La concentrazione batterica in questo tratto è piuttosto contenuta: ammonta solo a cinquanta milioni di batteri per cucchiaino di contenuto intestinale.
Il mondo dei microbi
L’ultima tappa di questo viaggio di circa cinquanta ore è l’intestino crasso, o colon, che il chilo (linfa derivata dalla trasformazione del chimo) attraversa a passo di lumaca. Questo tratto non è lungo come l’intestino tenue: misura in media un metro e mezzo, ma ha un diametro di quasi otto centimetri. Le sue pareti sono rivestite da uno strato di muco viscido. È qui che il cibo che abbiamo mangiato incontra per la prima volta quella comunità densa e vorace di microbi chiamata microbiota. (Il colon contiene circa diecimila volte più batteri rispetto all’intestino tenue.) I batteri intestinali vivono, e a dire il vero prosperano, grazie agli avanzi, in primo luogo ai polisaccaridi vegetali complessi noti come fibre alimentari. Tutto quello che questi microrganismi non consumano (o non possono consumare), come i semi o l’involucro esterno dei chicchi di grano, viene escreto dalle ventiquattro alle settantadue ore dopo la discesa iniziale nell’esofago. Negli scarti sono inclusi molti batteri, alcuni morti e altri ancora in vita, che vengono trascinati via dalla corrente alimentare del processo digestivo. Quasi la metà della massa delle feci è composta da batteri, che tuttavia si lasciano alle spalle un sacco di confratelli, garantendo così che il tubo digerente continui a restare densamente popolato. A seconda delle norme igienico-sanitarie vigenti, può capitare che alcuni dei microbi sopravvissuti riescano a raggiungere una risorsa idrica nelle vicinanze, per poi trovare una nuova dimora nel tubo digerente di qualcun altro.
Ma come hanno fatto tutti questi batteri a entrare nel nostro apparato digerente? Spesso pensiamo alle nostre viscere come a qualcosa, appunto, che è dentro al nostro corpo, ma in realtà l’interno del tubo digerente è esposto all’ambiente esterno nello stesso modo in cui lo è la pelle. Dopotutto, è questa la natura di un tubo, e il nostro è facile preda dei microrganismi che ci circondano: sulle mani, negli alimenti e sui nostri animali domestici. Alcuni di loro lo attraversano, ma altri restano al suo interno per anni, o anche per tutta la vita.
Nonostante siano molto diffusi nel colon, i microbi intestinali non hanno vita facile. Innanzitutto devono resistere al bagno acido nello stomaco, e infine trovare rifugio nel buio antro umido del colon, che è abitato da oltre mille specie diverse. Quando il cibo arriva laggiù, la lotta è feroce e per sopravvivere bisogna riuscire a sgraffignare più nutrimento possibile, prima che finisca nelle mani degli altri microbi. Tra un pasto e l’altro, alcuni si cibano del muco che ricopre l’intestino.
Per i microbi intestinali la vita è sempre stata una lotta, ma oggi è più dura che mai, considerando quello che devono affrontare nel mondo occidentale.
Il microbiota occidentale
Supponiamo che la vostra prima immagine di un aereo sia stata la fotografia dei rottami dopo che si è schiantato. Siccome non vi intendete di aviazione, vi risulterebbe difficile capire che aspetto avesse originariamente. Questo esempio serve a spiegare quello che i ricercatori devono affrontare quando cercano di capire come funziona il microbiota umano. La stragrande maggioranza delle ricerche in questo campo è stata condotta su persone provenienti dagli Stati Uniti o dall’Europa, ossia individui già predisposti alle malattie del mondo occidentale. Quando gli scienziati confrontano il microbiota delle persone con malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) con quello di soggetti «sani», sono consapevoli che anche questi ultimi, se seguono uno stile di vita occidentale, non forniscono un’indicazione precisa di che cosa sia un microbiota sano. Uno dei pericoli della società moderna è l’incremento del rischio di sviluppare le MICI. Anche se un individuo non mostra ancora i sintomi di quest’affezione, il suo microbiota potrebbe già essere squilibrato, inducendo uno stato patologico in un futuro relativamente prossimo. Sarebbe come paragonare qualcuno che ha il raffreddore accompagnato da febbre e tosse, con qualcuno che è febbricitante, ma non ha ancora la tosse. In questo caso potrebbe sembrare normale avere la febbre (anche la persona «sana» ce l’ha), mentre costituisce un problema avere la tosse. Poiché la nostra definizione di flora batterica sana si basa su studi condotti su americani ed europei, è probabile che la nostra visione di ciò che è normale sia distorta.
Dalla sua comparsa sulla Terra fino a circa dodicimila anni fa (un arco di tempo di circa duecentomila anni), l’uomo si è procurato il cibo esclusivamente con la caccia e la raccolta. La dieta dei nostri progenitori consisteva in piante selvatiche fibrose dal sapore aspro, carni magre di selvaggina e pesce. La nascita dell’agricoltura ha portato un cambiamento drastico nell’alimentazione dei popoli primitivi. Frutta e verdura coltivate (e selezionate per ottenere un sapore più dolce e una polpa più piena e meno fibrosa), bestiame alimentato a cereali, prodotti di origine animale come i latticini, e cereali coltivati come riso e frumento sono entrati a far parte della dieta umana abituale. Negli ultimi trecento anni, la Rivoluzione industriale ha apportato cambiamenti senza precedenti alla nostra alimentazione, che ha iniziato a basarsi sempre più spesso su cibi di produzione industriale. La tecnologia moderna negli ultimi cinquant’anni ha riempito i negozi con una varietà apparentemente infinita di alimenti elaborati, ricchi di edulcoranti e ipercalorici, ormai privi di fibre e sterilizzati per prolungarne i tempi di conservazione. Una dieta ricca di questi nuovi prodotti rappresenta una netta deviazione da quello che abbiamo mangiato per gran parte della nostra evoluzione. La flora intestinale è sopravvissuta a tutti questi cambiamenti nel corso della storia dell’uomo, adattandosi di continuo alle nuove tecnologie e abitudini alimentari. Purtroppo, ora sembra trovarsi su una traiettoria potenzialmente disastrosa.
Una delle meraviglie del microbiota è la rapidità con cui si adatta ai cambiamenti dietetici. I batteri presenti nell’intestino sono in grado di moltiplicarsi rapidamente, raddoppiando di numero ogni trenta o quaranta minuti. Di conseguenza, le specie che si nutrono dei tipi di alimenti che un individuo consuma con regolarità possono diventare molto numerose in tempi relativamente brevi. Al contrario, le specie che necessitano di cibi che non fanno parte della dieta consueta possono essere emarginate e relegate a nutrirsi di muco intestinale. Nelle condizioni più estreme, rischiano addirittura l’estinzione. In biologia, la capacità di cambiare è nota come plasticità, una dote che alla flora intestinale di certo non manca. Quando l’alimentazione dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori cambiava con le stagioni, le capacità adattive del microbiota gli consentivano di adeguarsi, ricavando sempre il massimo beneficio nutrizionale. Tuttavia, questa plasticità ha fatto sì che alcune specie un tempo numerose perché adeguate alla dieta del Paleolitico siano scomparse a fronte dell’alimentazione moderna. Viceversa, i microbi che oggi prosperano in un ambiente di hamburger e patatine fritte stanno prolificando e la maggior parte di noi li ospita proprio nell’intestino, anche se all’apparenza siamo persone sane. Purtroppo, questo microbiota richiama più l’immagine di un aereo che si è schiantato al suolo, che non di uno integro e perfettamente funzionante.
Per avere un’idea dell’aspetto che potrebbe avere un microbiota davvero efficiente, possiamo prendere in esame gli hadza, gli ultimi cacciatori-raccoglitori dell’Africa. Questa piccola tribù vive nella culla dell’evoluzione umana, la Great Riff Valley della Tanzania, dove si trovano alcuni dei più antichi resti dei nostri progenitori, risalenti a milioni di anni fa. La dieta e il microbiota di questa tribù sono i più simili a quelli dell’uomo prima dell’avvento dell’agricoltura.
Gli hadza si nutrono di cacciagione, bacche, frutta, semi di baobab, miele e tuberi (gli organi di stoccaggio sotterraneo delle piante). Le fibre di questi ultimi sono così coriacee che, dopo essere state masticate a lungo, ormai ridotte a un bolo, vengono sputate.
I ricercatori che hanno studiato questa tribù hanno stimato che il suo consumo di fibre varia dai 100 ai 150 grammi al giorno. Per darvi un’idea, la nostra normale alimentazione quotidiana ci fornisce dai 10 ai 15 grammi di fibre.
Il microbiota degli hadza include una varietà di microrganismi molto più ampia di quello occidentale.2 Provate a immaginarlo come un barattolo di caramelle di gelatina a forma di fagiolo, dove i diversi sapori corrispondono a specie differenti di batteri: il microbiota dei cacciatori-raccoglitori ne presenta un ricco assortimento di colori e sapori diversi, alcuni dei quali davvero insoliti. Quello occidentale, invece, ha un contenuto più omogeneo o più semplice, con molti meno gusti.
Anche il microbiota degli individui che conducono uno stile di vita agricolo tradizionale, simile a quello dei nostri progenitori diecimila anni fa, include una maggiore varietà di microbi rispetto a quello degli occidentali in generale.3 Queste differenze non si riscontrano solo nella flora intestinale degli adulti. I bambini che vivono nei villaggi rurali del Burkina Faso o negli slum del Bangladesh presentano un microbiota diverso da quello dei loro coetanei europei e americani.4 Analogamente a quanto osservato negli adulti, la microflora intestinale dei bambini occidentali è meno varia rispetto a quella dei bambini che conducono un’esistenza meno moderna.
Sempre più prove dimostrano che il microbiota occidentale contiene una comunità di microbi meno diversificata rispetto al microbiota degli individui che consumano pochi alimenti elaborati, o non ne consumano affatto, che non sono sottoposti a cicli annuali di antibiotici e che non portano sempre con sé il disinfettante per le mani.
La diversità è importante in un biosistema come quello intestinale, perché può evitarne il collasso. Immaginate un ecosistema che contenga una grande varietà d’insetti e di uccelli: se una specie dei primi scompare, ai secondi resta ancora un’ampia scelta con cui nutrirsi. Se però scompaiono sempre più specie, alla fine gli uccelli moriranno di fame, provocando un ulteriore impoverimento delle specie all’interno dell’ecosistema. Mentre la diversità di composizione della flora batterica occidentale si riduce, il biosistema intestinale rischia sempre più di collassare, e questo potrebbe ripercuotersi sulla salute dell’organismo che lo ospita.
Questo testo è estratto dal libro "Amico Intestino".
Data di Pubblicazione: 3 ottobre 2017