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Anteprima del libro "Torino - Oltre le Apparenze"

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Anteprima del libro "Torino - Oltre le Apparenze"

LA CITTÀ DEI TRE STADI di Piero Belletti

"La vicenda degli stadi calcistici di Torino è esemplificativa di un certo modello di amministrazione dei beni comuni: un sistema, che vide il suo collaudo in occasione dei campionati mondiali di calcio del 1990 e che fu poi applicato su larga scala in molti eventi successivi, e in particolare nei Giochi olimpici del 2006. Caratteristica comune di tale modello è, fondamentalmente, la costruzione di strutture con denaro pubblico, da fare poi gestire – o addirittura cedere, come nel caso dello stadio delle Alpi – ai privati.

Alla fine della seconda guerra mondiale, Torino disponeva di due stadi per il calcio: il Filadelfia e il Comunale (vedere approfondimenti in fondo al capitolo). Ben presto, tuttavia, prese corpo l’idea di un terzo impianto in grado di ospitare un maggior numero di spettatori. Quanto meno bizzarra, a tale proposito, la proposta di Gianpiero Boniperti, prima giocatore e poi dirigente della Juventus, di costruire un gigantesco stadio, con una capienza di almeno centomila posti, a metà strada tra Torino e Milano, in modo da poterlo utilizzare per le partite di cartello delle squadre di entrambe le città.

L’occasione per concretizzare l’idea fu fornita dall’assegnazione all’Italia, nel 1984, dei campionati del mondo di calcio del 1990. La prima a muoversi fu la Juventus che, ancora per bocca del suo presidente Boniperti, non perse l’occasione per riproporre la costruzione di un nuovo impianto.

All’inizio, l’area prescelta era quella adiacente al campo volo di Collegno, nella prima cintura ovest di Torino: la stessa in cui la giunta regionale, presieduta da Mercedes Bresso, avrebbe, anni dopo, cercato di localizzare la cosiddetta “Città della salute”. Lo stadio avrebbe dovuto avere una capienza di circa ottantamila posti, tutti seduti e al coperto. Altri soggetti avanzarono proposte alternative, anche perché l’ipotesi di Collegno era caratterizzata da costi di urbanizzazione particolarmente elevati. Tra le altre aree coinvolte, vi furono la semicentrale piazza d’Armi (con due ipotesi alternative: demolizione dello stadio comunale ed edificazione di un nuovo impianto sulla medesima superficie, oppure realizzazione di un nuovo stadio a fianco di quello esistente), il parco della Pellerina (che aveva il difetto di una elevata nebbiosità), l’ex aeroporto Lisa a Mirafiori (zona del parco Colonnetti) e quella che sarebbe poi risultata vincente: l’area, in parte agricola, annessa alla cascina Continassa, nel quartiere periferico delle Vallette. In un primo tempo, il comune sembrava però orientato verso la ristrutturazione del vecchio stadio comunale. Un apposito progetto, commissionato nel 1985 allo Studio Bizzarri e Gerino (e costato al comune 800 milioni di lire), quantificò in 30 miliardi circa il costo dell’operazione, che prevedeva tutti posti a sedere e la copertura integrale delle gradinate. Per quest’ultimo aspetto, furono avanzate delle difficoltà di natura tecnica; difficoltà, che sarebbero poi risultate strumentali, visto che la copertura venne realizzata regolarmente durante i lavori di ristrutturazione per le Olimpiadi del 2006. Riguardo agli aspetti economici della ristrutturazione, in un primo tempo era stata prevista la costituzione di una società mista pubblica-privata, con partecipazione prioritaria delle due squadre calcistiche di Torino. Tale società avrebbe dovuto gestire lo stadio comunale dopo gli interventi, pagando un canone annuo al comune, proprietario dell’impianto; in pratica, secondo questa opzione, il comune avrebbe anticipato i costi per la ristrutturazione, che successivamente sarebbero in gran parte rientrati.

UN NUOVO STADIO: CE N’ERA PROPRIO BISOGNO?

Di fronte alle ripetute proposte di costruzione ex-novo di uno stadio Di fronte alle ripetute proposte di costruzione ex-novo di uno stadio, la posizione del comune fu dapprima pilatesca: nessuna preclusione, a patto che i costi non superassero quelli della ristrutturazione del vecchio.

A poco a poco, tuttavia, l’ipotesi di uno stadio nuovo acquistò consensi, nonostante fosse nata in città una forte opposizione al progetto. Su iniziativa dell’allora consigliere comunale della DC Sergio Gaiotti – che agì sempre a titolo del tutto personale – e dell’associazione ambientalista Pro Natura Torino, si costituì il “Comitato per il no al nuovo stadio”, di cui facevano parte numerose forze sociali, politiche e del volontariato (fig.1).

Il dibattito fu capillare e molto acceso, anche se gli oppositori al nuovo stadio lamentarono una scarsa attenzione alle loro motivazioni, da parte dell’amministrazione comunale e soprattutto della stampa cittadina. Da una parte, si affermava che un nuovo stadio sarebbe costato molto di più della ristrutturazione, dovendosi considerare anche i costi relativi all’acquisizione dell’area su cui sarebbe sorto l’impianto, gli oneri di urbanizzazione e le spese per l’abbattimento del vecchio stadio (come era previsto in un primo tempo), senza alcuna garanzia che la relativa area sarebbe poi stata destinata a verde pubblico o a servizi. Si paventava, inoltre, la possibilità di un’ulteriore ghettizzazione di un quartiere della città, Le Vallette, che ospitava già un carcere, il mattatoio cittadino, alcuni supermercati e un accampamento di nomadi. A queste argomentazioni, l’allora assessore allo Sport della città di Torino, Lorenzo Matteoli, rispondeva che si trattava di «utilizzare un’area periferica attualmente deserta di utenza sociale, perché da questa praticamente inaccessibile, e di restituire alla città una consistente quota di verde in una zona dove questo può essere efficacemente usato in termini sociali» [quest’ultimo riferimento è all’area su cui sorgeva – e sorge tuttora... – lo stadio Comunale; N.d.R.]. Secondo l’assessore, l’area della Continassa rappresentava la soluzione ideale, perché

«gli svincoli della tangenziale ci sono già e il parcheggio può essere realizzato per mezzo di opportuni “blocchetti” che, lasciando crescere l’erba, consentono la circolazione delle auto. Un progetto ambientale accurato, mediante movimenti di terra e suddivisione dell’area articolata, consentirebbe di avere un parcheggio molto simile a un grande parco: il fondo erboso favorisce la piantumazione di alberi ad alto fusto nelle zone di separazione dei settori» [previsioni per nulla realizzate, vedi fig. 2; N.d.R.].

Matteoli continuava comunque ad affermare la volontà del comune di non spendere più di 30 miliardi, ma ribadiva che il nuovo stadio avrebbe Matteoli continuava comunque ad affermare la volontà del comune di non spendere più di 30 miliardi, ma ribadiva che il nuovo stadio avrebbe dovuto avere un carattere polifunzionale, nel quale altre attività (commerciali, terziarie, sociali e di divertimento) avrebbero dovuto integrare quelle sportive. Intanto, le squadre del Torino e della Juventus, che in un primo tempo avevano manifestato uno scarso interesse in merito all’ipotesi di costruzione di un nuovo stadio, furono indotte a cambiare la loro posizione in seguito a importanti concessioni economiche da parte della città. L’ipotesi di abbattimento del vecchio stadio comunale, elemento centrale della proposta dell’assessore Matteoli, veniva intanto del tutto esclusa dopo un intervento della Sovrintendenza ai beni architettonici, che ricordava come l’impianto, trattandosi di un edificio pubblico costruito più di cinquant’anni prima, fosse sottoposto a precisi vincoli. La confusione fu accresciuta dal PCI (allora all’opposizione) che ritenne opportuno partecipare pubblicamente al dibattito, accettando sì la costruzione di un nuovo stadio, ma proponendo l’area alternativa di corso Allamano, alla periferia sud-ovest di Torino.

LA SCELTA DEFINITIVA

Dopo un iter procedurale molto complesso e aspre discussioni, alla fine di luglio del 1986 il Comune di Torino prese la decisione definitiva: si sarebbe costruito un nuovo stadio e l’area prescelta fu quella della Continassa. La decisione ebbe molti strascichi giudiziari: tra gli altri, un esposto al Comitato regionale di controllo, riguardante alcune anomalie nell’emissione del bando relativo alla «concessione, progettazione e costruzione sull’area della Cascina Continassa e la successiva gestione del nuovo stadio della città di Torino», e un ricorso degli esecutori del progetto di ristrutturazione del vecchio stadio Comunale per la mancata concessione del previsto compenso economico. Alla fine dello stesso anno 1986, fu anche reso pubblico il nome dell’impresa che si era aggiudicata i lavori: si trattava dell’Acqua marcia, che aveva presentato un progetto firmato dagli architetti Hutter, Cordero e Ossola (figlio di uno dei calciatori del Torino periti nell’incidente di Superga del 1949). Fece scalpore la bocciatura del progetto presentato da FIAT Engineering, che aveva partecipato al bando e veniva data come la più probabile vincitrice. Molti hanno affermato che la cosa fu mal digerita dalla Juventus – com’è noto, strettamente legata all’industria automobilistica – e che fu la causa dell’aperta ostilità, che avrebbe poi sempre caratterizzato i rapporti tra la squadra bianconera e lo stadio delle Alpi.

Il progetto dell’Acqua marcia prevedeva la costruzione dello stadio a proprie spese, in cambio di 30 miliardi di lire erogati dallo Stato (grazie a una legge apposita per i campionati mondiali di calcio) e della gestione trentennale dell’impianto. La scelta del nome da dare al nuovo stadio fu estremamente complessa: scartati, per motivi di par condicio, i riferimenti a una delle due squadre cittadine (come, ad esempio, “Grande Torino”, “Valentino Mazzola” oppure “Gaetano Scirea”), alla fine prevalse l’imparziale, ma asettica denominazione di stadio delle Alpi. Intanto i costi per la costruzione del nuovo stadio iniziarono a lietata l’IVA e che non era stata adeguatamente presa in considerazione neanche la realizzazione dei parcheggi (costo previsto, 8 miliardi di lire). Non solo: l’impossibilità di abbattere lo stadio comunale imponeva alla città un costo supplementare (quantificato in 3 miliardi di lire all’anno) per la semplice manutenzione conservativa dell’impianto. A queste argomentazioni, l’assessore Matteoli, con incredibile sfrontatezza e superficialità, rispose che il nuovo stadi

«è stato realizzato con fondi dello Stato e con il finanziamento della concessionaria, e quindi senza carico sui cittadini di Torino».

Quasi come se i soldi dello Stato non fossero dei cittadini… Stabilire con precisione quanto costò effettivamente la costruzione dello stadio delle Alpi non è semplice, anche perché molte opere (allacciamenti elettrici, fognature, collegamenti stradali) vennero fatte passare come interventi non direttamente collegati all’impianto. Furono avanzate numerose stime, che arrivarono fino a ipotizzare un esborso di quasi 200 miliardi di lire, anche se solo una parte era costituita da denaro pubblico. Il 7 marzo 1991 il quotidiano «La Stampa», certamente non uno dei più accaniti oppositori all’iniziativa, affermava

«L’Acqua marcia [la società che aveva vinto la gara per la realizzazione dell’impianto; N.d.R.] ha da tempo presentato il conto al comune. Ed è molto più salato di quanto non prevedessero gli accordi. In pratica, le richieste sfiorano i 200 miliardi. Perché? La società di Romagnoli imputa al comune una serie di mancanze: il cantiere consegnato in ritardo di un anno, con la conseguente necessità dell’impresa di lavorare più in fretta, e quindi di spendere di più (60 miliardi); l’aumento della superficie, imposto per ragioni di sicurezza: 15mila m che equivalgono più o meno a 40 miliardi; la mancata pubblicità durante i mondiali, stimata.»

Quali che fossero le cifre reali, va comunque osservato come la costruzione dello stadio e di tutte le opere accessorie abbia assorbito gran parte delle risorse economiche del comune per molti anni. A tale proposito, si fece notare che:

«già quest’anno [1991; N.d.R.] a Torino paghiamo la mancanza di risorse finanziarie: lavori pubblici previsti non partono perché non ci sono i soldi e ogni settore della macchina comunale fa i conti con ristrettezze del bilancio a disposizione, parecchi impianti sportivi di base sono chiusi perché mancano i fondi per le manutenzioni».

Intanto, la vicenda attirò anche l’attenzione della Corte dei conti, la quale avviò un’inchiesta relativa ai costi di realizzazione del manufatto, che però non portò ad alcuna conclusione.

Piero Belletti

Data di Pubblicazione: 29 settembre 2017

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