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L'Arte dei Desideri - Seminario in DVD - Anteprima del libretto di Igor Sibaldi, Maura Gancitano e Andrea Colamedici

Shock del presente

Shock del presente

In sociologia si studia una tendenza chiamata: shock del presente. E la sensazione che nel presente ci sia già tutto quel che si può volere, e che perciò il futuro non serva più. E pare sia molto diffusa.

Se la pubblicità ci può convincere di qualcosa, è perché volevamo crederlo già per conto nostro. E che la gente, oggi, si sente come in cima a una piramide evolutiva: cioè in un gran brutto posto dove stare. Scenderne non si può, perché è impossibile tornare a periodi precedenti. Salire nemmeno. Quindi possono solo stare fermi. Devono essere contenti di quello che c’è già, per non sentirsi disperati - cioè senza speranza di qualcos’altro. Ma uno che deve essere contento, non è contento.

La maggior parte della gente non è in grado di desiderare, perché ha quella ripugnanza del futuro. Ma non tutti sono la maggioranza: ad alcuni quel futuro vuoto può sembrare spazioso. Il che cambia tutto.

Pensa a quella piramide evolutiva: troppo alta, e con intorno il vuoto. E immagina, invece, come ti sentiresti se non fossi in cima a nulla, ma avessi davanti a te un luogo spazioso, dove mettere quel che ti pare. E bello riempire pian piano un futuro spazioso, facendolo diventare presente. Poi magari lo svuoti, e ridiventa futuro. Oppure, quando il tuo presente è troppo pieno, ti accorgi che è diventato passato, e te lo lasci indietro. Io mi figuro il passato come una stanza talmente ingombra da non poterci più nemmeno infilare una mano.

Nel passato non si rientra. Non occorre risolvere le questioni del passato, e non si può, dato che nel passato non puoi tornare. La miglior cosa da fare con quelle questioni è superarle. Quando le superi ti sembrano cose da poco, sulle quali non valeva proprio la pena di fermarsi.

È impossibile che il passato ti angosci. Quel che è passato è precluso. Tutte le nostre angosce sono nel presente e l’unica cosa che ci può angosciare è il futuro. Ma non corri questo rischio quando cominci a desiderare, cioè a esplorare quel che hai davanti, a cogliere qualsiasi occasione di curiosità, in cerca di non si sa ancora cosa: è talmente piacevole. Pensa alla gente che passa ore e ore perlustrando internet: io, nella loro ansia di trovare qualcosa, vedo proprio quell’impazienza d’un futuro, che è l’antidoto della ripugnanza del futuro, e il prodromo del desiderare. Purtroppo è limirata a internet, cioè a una macchina in cui si cerca riparo dalla vita.

Hai notato che la gente vive più di quanto si sarebbe aspettata?

Hai notato che la gente vive più di quanto si sarebbe aspettata? Quando ero ragazzo, la gente a cinquant’anni andava in pensione. A sessanta cominciava già la decrepitezza. Oggi l’Occidente è pieno di ottantenni in buona salute. E chi non è ancora vecchio intuisce che vivrà anche più di loro, in condizioni fisiche e intellettuali migliori delle loro, e ha paura, perché la nostra mente non è pronta all’impresa di trovare ragioni di vita per molti decenni di fila. Così i non-vecchi si fermano, non vogliono che il tempo passi, e non perché dopo la vecchiaia c’è la morte, ma perché nel XXI secolo dopo la vecchiaia si sta profilando un’altra fase, che non ha ancora un nome, lunga poco meno di tutto il periodo che avrà preceduto l’invecchiamento.

In questo fatto, io ci vedo l’equivalente fisiologico di quel che sta avvenendo alla nostra epoca: sia le persone sia l’epoca avrebbero davanti a sé molto futuro, ma temono di entrarci perché temono sia vuoto. Così si impongono di perdere tempo, in vario modo.

La gente ha prospettive talmente indebolite, da credere che avere molta vita in più sia un inconveniente. Certo, non parlo degli individui eccezionali: sono sicuro che ne esistano ovunque, inventivi, fiduciosi che la civiltà troverà e raggiungerà molti nuovi traguardi, oppure sicuri che la civiltà attuale crollerà e sarà sostituita da un’altra migliore.

Ma prendiamo il caso di qualcuno come tanti. Poniamo che uno non ritenga di essere già del tutto soddisfatto di quel che ha, e che, perciò, ogni tanto provi a volere qualcos’altro: non so, un elicottero, o un impiego prestigioso alla NASA, oppure un momento di gloria per un suo magnifico atto di generosità. All’inizio gli piace immaginarlo ma, riflettendoci, comincia a farsi strada nella sua mente una sensazione sottile, insistente: Già, ma poi, gli dice quella sensazione, quando avrai quell’elicottero o quel momento di gloria, che cosa cambierà veramente in te e intorno a tel E la risposta non arriva: o perché non c’è, o perché lui la teme; allora l’immagine che si era fatta di quelle belle cose si affievolisce, diventa una fantasticheria, e poi pian piano sparisce. Così il presente si richiude su se stesso.

Oppure facciamo un altro caso, secondo me più cupo. Poniamo che ti sei andata bene nella vita, e che tu abbia già tutto per essere felice: può bastarti? No, come ben sai. Una felicità ha senso se porta da qualche parte, cioè se apre possibilità (in inglese, happy, «felice», e happen, «succedere», sono parole apparentate); se no è una condizione noiosa o, peggio ancora, una condizione da difendere, che induce ansia e che dunque non è più una felicità.

Così tu, persona felice, provi a domandarti: «Verso dove sta andando la mia fortunata esistenza, così che la mia fortuna aumenti sempre?» E subito senti davanti a te quella barriera di vuoto compatto: non c’è niente più in là, né dentro né fuori. E, a meno che tu non sia molto sventato, non c’è nemmeno nulla o nessuno che potrà portarti via quel che hai. Nessuna crisi, nessuna guerra, perché la tua civiltà è cauta, industriosa e - almeno entro i suoi confini — in pace. Non ti succederà mai più niente, salvo la morte tra moltissimo tempo. Allora ti viene quasi voglia di perderla, la tua felicità, per riaprirti direzioni future. Ma ti sembra troppo stupido perderla, la tua felicità, e perciò non la perderai, mentre rimani seduto sulla cima della piramide.

Tu somigli a uno di questi due tipi, all’insoddisfatto o al felice? Un po’ a tutti e due, vero? In fondo anch’io. E non credo che quello stato d’animo dipenda da nessuno in particolare. Non si tratta né di un inizio di depressione, né di scarso vigore mentale, o debolezza di carattere. È una caratteristica dell’epoca in cui viviamo, e non è certo la prima volta che capita.

Di quella stessa barriera hanno parlato i drammaturghi russi, i romanzieri tedeschi e americani, i teologi cristiani, i poeti latini, le fiabe. Ritrovi quel vuoto compatto nella storia di Paolo di Tarso, che riteneva l’Impero romano una civiltà bloccata, ma non voleva esserne bloccato lui; o in quella del giovane Mosè, che riteneva la mentalità egiziana immobile come i suoi maestosi templi (e perciò pose il comandamento «Non farai sculture»). A guardar bene, il futuro vuoto c’è stato perfino per Adamo ed Èva - che nell’Eden avevano già tutto, ad eccezione della speranza che il futuro portasse loro qualcosa di nuovo; e perciò si fecero cacciare via.

Sviluppare una depressione o cambiare mondo

Da quel che ho notato, in questi periodi le scelte praticabili sono sempre state due: o sviluppare una depressione, magari senza accorgersene, oppure cambiare mondo.

Prima opzione: deprimersi. Per sviluppare una depressione basta rassegnarsi. Fare in modo che ogni giorno somigli il più possibile al giorno precedente. Così possono passare anni, decenni anche, finché l’epoca termina con la improvvisa disgregazione del mondo a cui ci si era abituati.

Quella sensazione del futuro vuoto è tipica delle epoche al tramonto. Quando un mondo sta per finire, la maggioranza della gente non percepisce nulla nel futuro perché il futuro, per quel mondo, non c’è. Fu così in Austria, nei primi anni del Novecento: leggi Musil. Fu così per i borghesi e nobili delFImpero russo, negli anni che precedettero la rivoluzione: leggi Cechov; e per tutti i sovietici prima della Perestròjka: guarda i film di Michalkòv. Fu così sul finire delFImpero romano, come Paolo aveva previsto. E, a quanto pare, fu così anche nell’Eden.

L’altra opzione è, dicevo, cambiare mondo.

Non: cambiare il mondo. Non ne varrebbe la pena, proprio perché si tratta di un mondo che non ha più nulla da dire o da fare, che non abbia già detto o fatto. Sarebbe inutile che tu o io, accorgendoci di questo vuoto di futuro della stragrande maggioranza, volessimo cambiare un mondo simile per restituirgli vitalità e possibilità: nessun individuo ci riuscirebbe. Un mondo è un insieme di fatti: miliardi di fatti collettivi (sociali, economici, culturali, politici, psicologici) che delineano gigantesche tendenze: ogni individuo è, in confronto, una minuscola serie di fatti personali, che non potrebbero cambiare quelle tendenze più di quanto un ombrello potrebbe cambiare il corso di un temporale.

Se pochi o tanti si unissero per cambiare il mondo, sarebbero pochi o tanti ombrelli in un temporale. E poi, per impegnarsi a cambiare qualcosa bisogna amare quel qualcosa, e nei fatti che costituiscono il mondo occidentale non c’è niente da amare. Le guerre che facciamo altrove? Le ingiustizie sociali? L’inquinamento atmosferico e mentale? La pubblicità? La nostra politica? I nostri valori, ormai meramente retorici? O il nostro piramidale senso di superiorità su tutte le altre culture?

Quel che si può amare dell’Occidente sono soltanto atti di singoli individui, artisti, scienziati, filosofi, o singole persone oneste - che nel nostro mondo hanno incontrato soprattutto ostacoli. Oggi che i singoli individui, da noi, sono paralizzati dalla ripugnanza del futuro, perché dovrebbero amare il mondo che l’ha prodotta?

Invece, cambiare mondo non è complicato. In pratica, si tratta soltanto di trasformare il mondo attuale in una situazione - che è una parola non meno magica dell’«apriti Sesamo» di Alì Babà. Solo che «apriti Sesamo» serviva per entrare in una caverna, mentre la parola situazione., se la si usa bene, serve a uscire da ciò che ti sta intrappolando.

Situazione significa: un posto dove stai - e il modo in cui ci stai, e i rapporti che hai lì, i pensieri che ti vengono lì, e così via. Quel posto può essere più o meno grande: un appartamento, uno Stato, un continente, o appunto un mondo. Piccolo o grande che sia, quel posto ti può sembrare un destino, fino a che non riesci a pensarlo come una situazione: cioè soltanto come un posto, limitato e limitante, intorno al quale ci sarebbero tanti altri posti dove stare.

Per esempio, con un appartamento è facile: se ci vivi da un po’, è probabile che gli angoli e i colori dei muri, i mobili, i tappeti e quel che si vede dalle finestre ti siano diventati talmente familiari da tenere lontana dalla tua mente l’idea di poter abitare altrove. Capita regolarmente, a un certo tipo di persone. Ma è sufficiente che queste persone si accorgano che il loro appartamento è soltanto la loro situazione attuale, e subito svanirà la fascinazione che l’appartamento stava esercitando su di loro — e cominceranno a pensare a una casa diversa.

Lo stesso vale per il tuo mondo, che è solo una tua abitazione più grande. Accorgersi che può essere soltanto una tua situazione attuale, significa rimpicciolirlo tanto da farlo diventare un posto tra tanti.

Esiste un equivoco molto frequente, per il quale si adopera il termine «mondo» per indicare il pianeta Terra, o le condizioni geologiche e climatiche che permettono all’umanità di vivere su questo pianeta, o addirittura la realtà tutt’intera. Perciò tante persone, quando pensano alla fine del mondo, riescono a figurarsi soltanto un cataclisma definitivo, le trombe del Giudizio; e non capiscono che cosa significhi l’espressione: i confini del mondo. Al massimo, possono pensare che si riferisca all’aldilà. Ma è solo perché queste persone si sono rassegnate al loro mondo.

Questo testo è estratto dal libretto "L'Arte dei Desideri - Seminario in DVD"

Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017

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