Le rappresentazioni nascoste
E normale che...
« Usiamo molte parole per definire convinzioni irrazionali: quando sono molto diffuse le chiamiamo “fedi”, anziché “psicosi” o “illusioni”: la sanità mentale è un fatto di quantità».
Richard Dawkins
Non ricordo i contenuti specifici delle lezioni che Franco Basaglia tenne all’università di Parma, negli anni Settanta (era il corso di Igiene mentale), ma le sue acute e sconvolgenti riflessioni su crimini di pace, maggioranze devianti, violenza legittimata delle istituzioni totali, mi hanno insegnato profondamente. Così i testi di Paulo Freire, Ivan Illich, don Lorenzo Milani, Célestin Freinet che hanno aperto, in me, squarci di consapevolezza, illuminando oscurità e ottusità del pensiero, e delle azioni da esso determinate, altrimenti insospettabili, impercettibili.
Le rappresentazioni nascoste
«Pensiamo e parliamo ignorando i presupposti del nostro pensiero e del nostro linguaggio, come se tutto questo non avesse conseguenze per noi e per il mondo fuori di noi».
L’ammonimento di Rosalba Conserva, insegnante, fondatrice del Circolo Bateson, ci rammenta che gli esseri umani non agiscono direttamente sul mondo. Ciascuno di noi è artefice (e vittima) di proprie rappresentazioni della realtà; creiamo, cioè, mappe e modelli che usiamo per orientare il nostro comportamento (ma la mappa non è il territorio). La nostra visione del mondo condiziona in larga misura l’esperienza che ne abbiamo, il modo in cui lo percepiamo, le scelte che ci sembreranno possibili o necessarie.
Ce lo ha spiegato mirabilmente Gregory Bateson.
Non ce ne rendiamo conto, ma tutti noi siamo per buona parte determinati da abitudini di pensiero, assiomi, logiche, stereotipi culturali, pregiudizi «estetici» sui quali non esercitiamo alcun tipo di riflessione, che sono perciò sottratti al nostro controllo, eppure agiscono in profondità, segnando impercettibilmente, ma proprio per questo più incisivamente, la nostra visione del mondo, il nostro esservi e agire.
Così ci sono convinzioni, pratiche, regole che appaiono necessarie, ineluttabili, addirittura naturali, perché consuete, familiari; pacifiche al punto da non dover essere motivate, giustificate.
Un meccanismo utile ed economico, giacché permette di risparmiare energie e risorse, soprattutto mentali, ma non privo di insidie.
Fino al secolo scorso era considerato normale il combattimento formalizzato tra duellanti, anche all’ultimo sangue, per la difesa dell’onore, della giustizia e della rispettabilità, da svolgersi secondo regole prestabilite e accettate dai contendenti.
D’altra parte, ancora oggi affidiamo alle bombe le sorti di una contesa territoriale, il diritto di accesso alle risorse.
La logica (aberrante, stupida) della guerra ci è familiare, lo è da millenni, ma non per questo è insuperabile; anzi, voglio credere che sia destinata a diventare, il prima possibile, oggetto di dotta e incredula curiosità, come sono ora altre pratiche che sembravano un tempo logiche e inevitabili, come, appunto, i duelli o il giudizio di Dio.
Non scandalizza né indigna la filosofia mercantilistica, espressa incessantemente e ovunque dalle sirene del marketing, che spinge al consumo sempre più compulsivo, illimitato di beni limitati, giungendo a mobilitare risorse inestimabili per indurre e rinnovare desideri drogati: non si produce per poter soddisfare un bisogno, si crea, artificialmente, il bisogno per poter produrre (e vendere); è normale. E continuiamo a depredare, ferire, distruggere il nostro pianeta, ormai agonizzante: l’unico di cui disponiamo.
Una società simile è destinata a condurci inesorabilmente a quella che gli esperti chiamano «la sesta scomparsa delle specie», un’estinzione di massa come quella che cancellò dal pianeta i dinosauri. La differenza è che stavolta si viaggia a una velocità impressionante: ogni giorno si estinguono tra le 50 e le 200 specie. Si tratta per lo più di batteri, di specie invisibili, ma non solo di queste (ci sono anche le api: in Italia ne sono scomparse 23 miliardi in pochissimo tempo). Non siamo più minacciati dalla catastrofe, siamo già nella catastrofe. L’ultimo rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) afferma infatti che se smettessimo da oggi di bruciare anche multimediali prefigurano alternative anche radicali all’istruzione scolastica.
È normale, perciò giusto, che quando iniziano a frequentare la scuola, i bambini siano sottratti all’universo palpitante degli interessi, delle curiosità, dei problemi autentici (ma anche dei bisogni indotti dalla precoce esposizione al plagio televisivo o delle convenienze-convenzioni-convinzioni degli adulti) e segregati in un ambiente emotivamente controllato, quando non asfittico, e cognitivamente angusto, protetto da schermi invisibili, eretti da annose consuetudini pseudodidattiche e incardinati in un sistema di regole ferree quanto inconsistenti - l’insegnante Maria Antonietta Di Capita, esperta di educazione interculturale, parla di «mura per difendersi, per segnare confini, per impedire l’incontro, per farti sentire “straniero”. Mura per ritagliarsi uno spazio in cui crescere abbastanza da poterne uscire». Un mondo inquietante, un corpo separato (dal territorio, dal quotidiano...) che non ha ponti verso l’esterno e nemmeno al suo interno (tra studente e studente, tra classe e classe); una sorta di satellite artificiale della società su cui sono relegati gli individui per un addestramento all’esistenza, invero piuttosto estraniante: si vive una simulazione distorta, una virtualità sterilizzata, dove tutto, o quasi tutto, è artificioso, fasullo, al più verosimile.
Normalmente lo spazio scolastico (soprattutto nelle superiori) risulta anonimo, segnato da un’atmosfera di provvisorietà, di imminente abbandono che ne stempera l’identità: aule «fredde», grigie e spoglie, corridoi e scale dagli intonaci macchiati e scrostati, muri lordati di graffiti ribelli, di scritte e disegni osceni, di manifesti lacerati. Tutto sembra all’insegna del disordine casuale o dell’ordine impersonale, quando non della trascuratezza e dello sporco. Uno spazio rigidamente strutturato, organizzato per corridoi costruiti, come le caserme, per dividere, dall’esterno e all’interno.
Quello scolastico è (ancora) spazio del controllo e dell’addestramento, destinato a irrigidirsi con il passaggio agli ordini e gradi successivi.
«Sarà spazio - scrive il pedagogista interculturale Raffaele Mantegazza, docente universitario - che tenderà sempre più alla completa colonizzazione del vissuto, alla definizione esaustiva del gesto, che verrà a sua volta inserito in un orizzonte di computabilità, nel registro contabile dei premi e dei castighi. Erediterà, dallo spazio della caserma, questa possibilità di definire il gesto fin nelle sue più intime sfumature (...). Allora lo spazio diventerà spazio della localizzazione del corpo, all’interno del quale ogni sedia, ogni banco, ogni finestra richiamerà alla Norma, all’Ordine, alla compostezza e alla disciplina».
Normale, anzi canonica è la disposizione della cattedra posta di fronte ai banchi allineati su più file, in un ambiente disadorno, anonimo, o addirittura squallido, che poteva essere tollerata quando l’insegnamento, appunto, cattedratico era l’unica possibilità di acquisizione della conoscenza, perciò la funzione principalmente attribuita alla scuola; quando il modello della pura trasmissione delle informazioni era il solo ammissibile; quando l’insegnante godeva di prestigio culturale; quando la frequenza scolastica appariva l’unica possibilità di riscatto sociale; quando la licenza o il diploma erano simboli di status, necessari per l’accesso a professioni di rango.
Oggi non è più così
Sono venute meno le condizioni che potevano legittimare la classica impostazione del rapporto insegnamento-apprendimento, con la corrispondente «rappresentazione» spaziale, la più idonea a una comunicazione univoca: l’insegnante parla alla classe, indistintamente, e gli alunni ascoltano, così che le conoscenze transitino dal docente-soggetto al discente-oggetto; gli studenti sono seduti ciascuno al proprio banco rivolto verso la cattedra; i più «esposti», seduti nella prima fila, vedono soltanto il professore; gli altri vedono il professore e le teste, le spalle dei compagni seduti davanti - se il modello pedagogico praticato prevedesse una comunicazione anche circolare, tra pari, tale disposizione risulterebbe del tutto incongrua.
Ebbene, nonostante risulti destituita di fondamento culturale, sociale e pedagogico, questa configurazione si ripropone immutata, quasi fosse necessaria, irriducibile, e suscita perplessità e disappunto il mancato adeguamento da parte degli studenti, a conferma della diffusa convinzione, spesso inconsapevole, secondo cui la variabile «spazio» sarebbe del tutto irrilevante rispetto alla riprogettazione didattica, organizzativa, relazionale delle attività.
Ed è normale una pianificazione del tempo scolastico che fissa una durata unica, l’ora di lezione (tutt’al più ridotta di qualche minuto), per la sequenza di insegnamento, e ritmi di progressione delle discipline uniformi, che comportano l’atomizzazione delle materie e l’inerzia passiva con cui il tempo è vissuto. Quello della scuola è un tempo canonico: ore di lezione e settimane invariabili si incasellano in una struttura predeterminata di tutto un anno, ripetitiva.
Per non dire del calendario, ancora oggi d’impianto gregoriano e ispirazione agronomica: l’inizio delle lezioni coincide con il periodo della vendemmia e la conclusione con quello della trebbiatura; scandito, al suo interno, dalla successione delle ricorrenze liturgiche: Natale e Pasqua come «naturali» spartiacque curricolari.
Un tempo prestabilito, iterativo: ora dopo ora, giorno dopo giorno, anno dopo anno... E il tempo eterodiretto, cioè misurato, oggettivo dell’istituzione; esterno al soggetto, determinato dalle varie scadenze amministrative, che si scontra con quello autodiretto che è il tempo personale, soggettivo scandito dai propri ritmi biologici, psicologici, culturali di apprendimento.
Già nella scuola dell’infanzia l’inizio e la conclusione delle attività sono decisi unilateralmente dagli insegnanti, secondo il programma stabilito o il loro insindacabile giudizio. Scaduto il tempo previsto si passa ad altro, talvolta cambiando ambiente e/o docente, magari in gruppi anche molto numerosi, spezzando il continuum emotivo, cognitivo e sociale che dà senso e spessore ai «lavori in corso», bloccando e dissolvendo l’attenzione di chi fosse ancora interessato, frustrandone l’impegno, e prolungando artificiosamente l’applicazione di chi abbia invece svolto più rapidamente il compito o (da tempo) esaurito il proprio interesse.
Ma non meno artificiosa, ancorché normale, risulta la composizione delle classi, regolata sugli anni di corso, che contrabbanda un’omogeneità fittizia tra età cronologica, sviluppo cognitivo ed esperienza scolastica. Basti pensare ai bambini che iniziano la frequenza alla scuola dell’infanzia o alla scuola elementare: tra chi sia nato a gennaio e il suo compagno di sezione/ classe nato a dicembre intercorrono dodici mesi di vita intensissima, di progressi vertiginosi, di conquiste formidabili.
E per noi del tutto «naturale» che le classi siano composte da coetanei - l’eccezione, infamante, è rappresentata dai ripetenti. Questa regola ci appare normale semplicemente perché siamo stati abituati così, e crediamo sia il modo migliore di governare il processo di insegnamento-apprendimento. In realtà si tratta di una procedura organizzativa che risponde più alle esigenze dell’apparato che ai bisogni formativi di alunni e studenti. Non ha senso (oltre quello burocratico) ingabbiare artificiosamente in scomparti chiusi bambini e ragazzi che invece potrebbero ben altrimenti giovarsi di una più ampia fluidità dei rapporti.
Le attività scolastiche si svolgono per ragioni rigorosamente «estrinseche», remote o addirittura ignote: gli alunni e gli studenti non sanno perché fanno le cose che fanno.
Basta provare a chiederlo: le risposte impacciate, l’atteggiamento perplesso o stupito confermano eloquentemente l’impertinenza stessa della domanda posta.
La scuola è un obbligo a cui si deve soggiacere. Il problema della legittimazione logica e psicologica dell’azione compiuta non si pone. Non è necessario che il lavoro svolto abbia (anche) un senso proprio: l’impegno è dovuto, non occorre una ragione intrinseca.
Le cose non si fanno per rispondere a esigenze riconosciute, a desideri personali o condivisi, per risolvere problemi incontrati nella realizzazione di un progetto, per scoprire o comunicare, per informare altri sulle esperienze compiute, per ottenere, da qualcuno che ne abbia facoltà, un provvedimento, un intervento, una fornitura, per imparare qualcosa di utile alla soddisfazione di un bisogno soggettivo o collettivo, per interesse, per divertimento, per gioco o solo per il piacere di farlo.
No, le cose si fanno perché si devono fare, perché così è stabilito: il problema del perché non si pone neppure.
La domanda che sostiene e promuove lo sviluppo mentale (cognitivo, etico, sociale...) dell’individuo, così come la riflessione filosofica e morale dell’uomo, nella scuola ha ragion d’essere, appare impropria («Chiedilo all’insegnante»). E l’insegnante che decide cosa fare, quando e come farlo, purché non sia l’ordine superiore del libro di testo a stabilirlo. Gli studenti vengono a conoscenza delle attività in programma, nel momento in cui sono chiamati a svolgerle, sempre che non si tratti di interrogazioni e prove di verifica o della prosecuzione di un lavoro incompiuto. Non vi è dunque motivo di perdere tempo in chiacchiere, tanto meno si pone il problema di una discussione preliminare alla definizione degli impegni, alla organizzazione della giornata scolastica, la scansione dei tempi, la gestione degli spazi, l’avvicendamento delle attività, gli argomenti da trattare... è già tutto previsto (programmato) dall’insegnante, dall’istituzione. Inimmaginabile che così non sia.
E si può cambiare
È normale che gli insegnanti diano i compiti a casa: è normale, ma non è sensato; da cui l’appello: Basta compiti! rivolto a genitori, insegnanti, studenti; e la ragione di questo saggio, che si oppone a una delle più inveterate consuetudini scolastiche, tanto più durevole e indiscussa proprio perché immotivata, scontata.
Ben sappiamo quanto incidano nella valutazione del rendimento di uno studente la perizia, la correttezza, la sollecitudine con cui attende al «compito domestico», e proprio per questo non è tollerabile che si infierisca con penalità e reprimende su chi si trova in condizione di svantaggio culturale, senza far nulla per dotare i soggetti più bisognosi degli strumenti concettuali, cognitivi che consentirebbero loro di affrontare l’impegno richiesto con una preparazione idonea, senza nemmeno porsi il problema del «senso» di un obbligo cui si deve soltanto soggiacere (obtorto collo), senza minimamente curarsi della motivazione «intrinseca» allo studio, e limitandosi a praticare una pedagogia da caserma, basata su premi e punizioni (motivazioni, appunto, «estrinseche»).
Nel primo capitolo, I «compiti» della scuola, spiego perché i compiti a casa sono inutili o dannosi e indico quali siano i compiti fondamentali che con il perdurare di tali pratiche la scuola disattende colpevolmente, creando le condizioni per il fallimento, non solo scolastico, degli studenti più bisognosi o meno addomesticabili.
I compiti a casa rappresentano uno degli elementi di criticità cognitiva e affettiva del «sistema» sui quali si potrebbe intervenire direttamente, senza dover attendere o perorare riforme e stanziamenti eccezionali.
Posizione minoritaria e sgradita affrontata nell’accesa discussione, introdotta da una nota di Corrado Augias, avvenuta sul network Ning: La scuola che funziona (vivace creatura di Gianni Marconato) e ricostruita fedelmente nel secondo capitolo, Il dibattito in rete, che ha registrato gli interventi di numerosi insegnanti di diverso orientamento e parere, accomunati dalla medesima tensione etica e sociale.
Quel che d’altro, più utile e sensato, si potrebbe fare per favorire lo sviluppo cognitivo e metacognitivo degli studenti è esemplificato nel terzo capitolo, Immagini e Immaginazione, ove si fa cenno agli inestimabili contributi di Antoine de La Garanderie e Gianni Rodari (entrambi nati nel 1920), autori apparentemente lontani, per impegno e vocazione, che però condividono la curiosità (appassionata e appassionante) per i processi cognitivi e creativi di cui chiunque, anche lo studente più riottoso e inabile, è capace se opportunamente stimolato.
Il quarto capitolo, Accogliere, prima di tutto, è riservato alla declinazione dei caratteri che possono identificare una scuola impegnata ad accogliere (e non a respingere) gli studenti: il primo compito pedagogico di un’istituzione che voglia porsi al servizio dei suoi utenti - «normalmente» avviene il contrario: ci si comporta come se gli studenti fossero al servizio della scuola.
Infine, la chiacchierata «diversamente» pedagogica, I compiti «snaturati», con Maurizio Maggiani, durante la quale si è parlato di compiti, ma anche di sassi, libri, movimenti tra l’altrove e il qui, tesori matematici...
Spero di aver svolto con «sufficiente» diligenza il compito che mi ero assegnato.
Questo testo è estratto dal libro "Basta Compiti! Non è Così che si Impara".
Data di Pubblicazione: 1 ottobre 2017