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Benvenuti a Truva, la Città della Speranza
Il gommone in mezzo al mare
Quando calò l’oscurità e il mare si tinse di onice, Juju cercò la mano di Hans ma si fermò prima di toccarlo. A lui non piaceva essere toccato. A nessuno piaceva più.
Juju abbassò lo sguardo. Ora l’acqua le arrivava alle caviglie, i suoi piedi erano due pezzi di ghiaccio nei vecchi stivali.
Il motore giaceva, muto, a poppa. Il carburante era finito ore prima. Erano alla deriva, sospinti da onde sempre più ostinate.
Poi il gommone aveva iniziato a imbarcare acqua, e non c’era nulla che potessero fare, se non piangere o pregare in segreto.
Nonna, naturalmente, non stava facendo né l’una né l’altra cosa. Si guardava intorno, scrutava la notte, gli occhi rapaci, come se fosse in grado di far materializzare la riva con la sola forza di volontà. Sedeva accanto a Hans però non lo degnava di uno sguardo. Pareva ancora più brutta del solito.
Hans tremava senza controllo. Era piena estate, ma il vento sferzava la barca senza pietà raschiando il mare in piccole gocce e gettandole tutto intorno. Non era soltanto il freddo, però. C'era una tenebra nel suo sguardo, una vacuità che Juju gli aveva visto dentro solo di rado. Una volta sui monti albanesi, un’altra nei campi greci, un’altra ancora...
«Ehi» disse Juju, sporgendosi verso di lui.
Nessuna risposta. Hans teneva gli occhi fissi sulle ginocchia e sbatteva le palpebre di tanto in tanto, ma la sua mente era lontana anni luce.
Allora le venne un’idea. Finse di frugarsi in tasca, di estrarre qualcosa. «Guarda cosa ho trovato» disse sforzandosi di sorridere. Le sue mani erano vuote, ma le dita mimavano un barattolo. Juju finse di svitare il coperchio, di affondare un dito all’interno. Poi se lo portò alle labbra e finse di leccarlo con fare compiaciuto. «È Nutella.» Gli porse il barattolo invisibile. «Vuoi un po’?»
Hans sbatté le palpebre. Guardò le mani di Juju, una punta di confusione negli occhi. Poi, a sua volta, fece finta di raccogliere un po’ di cioccolato e di leccarsi le dita. L’ombra di un sorriso gli increspò il volto. E Juju pensò che, se sapeva strappargli un sorriso, allora c’era ancora speranza.
Un fascio di luce tagliò la notte. Il fondo del gommone cedette un poco sotto il peso dei suoi passeggeri. Erano troppi, quarantaquattro a bordo di un mezzo costruito per ospitarne la metà, e ora si stavano muovendo, allarmati.
Continuavano a imbarcare acqua.
«È la guardia costiera» disse qualcuno in un tono che era al contempo un urlo e un sussurro. Poi giunse il rumore di un motore. Si stavano avvicinando a grande velocità. La guardia costiera significava essere riportati indietro, significava finire in prigione. Ma significava anche la salvezza da quelle acque gelide. E forse, adesso, il caldo sudicio di una cella pareva a Juju un’opzione migliore dell’infinita distesa del mare.
Poi un lampo. E se invece non fosse stata la guardia costiera? E se...
Il naufragio
Fu allora che il primo colpo esplose nella notte. La gente iniziò a urlare, ad alzarsi, il gommone si inclinò da un lato.
Non era la guardia costiera. Erano i vigilanti mascherati che presidiavano i confini. Ma non furono loro a mietere più vittime quella notte. Fu il panico. Quando il gommone cominciò a sprofondare, la gente balzò in acqua. Juju lanciò un’occhiata a Nonna, poi afferrò Hans per il giubbotto salvagente.
E poi il mare.
Gelido, nero come la notte, tutto intorno e sotto e sopra. Quando sei in fuga, il mare si trasforma in un abisso. Caccia, si incunea, ti perseguita. Un baratro senza fondo. Juju tornò a galla senza fiato, aveva perso Hans nei flutti. Dov'era? Dov'era finito? Aprì la bocca cercando di espandere il torace, ma niente, l’aria non entrava. Voleva urlare, chiamarlo, ma non aveva voce. Pareva quasi che il freddo le avesse strizzato i polmoni fino a rimpicciolirli.
Hans. Sapeva nuotare? Il suo giubbotto salvagente era allacciato bene? O stava forse per perdere anche lui?
Una mano le afferrò i capelli. Era Hans. Pallido, le labbra violacee nella luce lunare, ma tutto intero.
Vivo. Si aggrapparono l’uno al giubbotto dell’altra e, tentando di tenere il capo e il collo fuori dall’acqua, iniziarono a nuotare lontano dalle urla, dagli spari, dai tonfi dei corpi che cadevano in mare.
Restarono così, reggendosi l’una all’altro, respirandosi il fiato per lunghi minuti, ma Juju sapeva che non avrebbero retto a lungo. Il gelo stava già spodestando il calore dai loro corpi.
«La riva» disse Hans con un filo di voce.
Juju aguzzò la vista. Dapprima si trattava di luci sparute che affioravano tra le onde, poi un nugolo di lucciole e infine case, lampioni, strade. Iniziarono a nuotare con rinnovato vigore, e così i loro piedi toccarono i ciottoli sul fondo, e quasi senza accorgersene si ritrovarono sdraiati sulla spiaggia, ansimanti, intirizziti, all’asciutto.
Salvi.
Juju tastò la spiaggia intorno a sé, prese una manciata di ghiaia e la lasciò scivolare via sentendo la dolcezza di millenni di mare e vento e viaggiatori tra le dita. Poi si toccò il collo, il cuore già in gola, ma il pendente era ancora lì. Lo strinse forte nel palmo della mano e le sfuggì un sospiro.
Ce l’avevano fatta, erano arrivati in Turchia. L'Europa, con i suoi orrori, si trovava finalmente alle loro spalle.
Rimasero sdraiati per lungo tempo, Juju non avrebbe saputo dire quanto. Giacevano, semplicemente, senza toccarsi ma guardandosi, gli occhi negli occhi, come per accertarsi di non perdersi, di non rimanere soli. L’aria intorno a loro odorava di alghe e di cose che marciscono.
L'alba era ancora lontana quando arrivarono le voci e le torce e i cani. Juju fece per alzarsi.
«Siamo...»
«Sappiamo cosa siete» sbraitò uno degli uomini, un accento duro tra gola e petto.
Non c'era nient’altro da dire. L’uomo la strattonò per farla alzare, le torse le braccia dietro la schiena e gliele legò, come se fosse una minaccia. Hans stava ricevendo lo stesso trattamento. Gli uomini erano tre, i cani due. Non indossavano maschere, il che significava che non erano vigilanti, ma questo non li rendeva certo innocui. I cani annusavano con impazienza, le code ritte, pronti a scattare a comando.
«Cammina» disse uno degli uomini, e i bambini ubbidirono.
Nonostante tutto, più il rumore delle onde si allontanava alle loro spalle, più Juju sentiva il cuore placarsi. Il mare, capì in quel momento, sarebbe sempre stato tra i suoi peggiori nemici. Poi il rombo di un motore coprì tutti gli altri suoni, e la luce dei fari di una macchina parcheggiata l’investì. Ora Juju poteva scorgere i lineamenti degli uomini. Uno di loro aveva un volto piacevole, il naso aquilino. Un altro aveva un muso affilato, da ratto. Nel suo sguardo, l’avidità di un pirata davanti a un forziere. Hans trattenne un gemito quando questi lo spinse contro la fiancata dell’auto.
Juju e Hans finirono nel baule mentre i cani sedevano sui sedili posteriori. L'abitacolo odorava di caffè e deodorante e, quando la macchina partì, Juju abbozzò un sorriso. Sorridere era l’ultima cosa che le andava di fare, ma lo fece comunque, per Hans. “Se posso alleviare anche solo di un poco la paura di questo bambino” si disse, “allora anche la mia pena si attenuerà.”
Durante il tragitto gli uomini si scambiarono qualche parola in una lingua ignota. Erano turchi, di sicuro, i primi che incontravano. Non erano amici.
L’auto si arrestò poco dopo. Una portiera si aprì e uno degli uomini scese.
«Due» disse in inglese. «Bambini.»
Juju tese le orecchie. Chi era il suo interlocutore?
«Quanto?» chiese.
La risposta le fece rizzare i peli sulle braccia. Non tanto per il contenuto - una cifra in una valuta a lei incomprensibile - ma per la voce. Era una voce nuova, gracchiante, metallica, quasi non fosse umana.
L'uomo imprecò, disse: «Valgono molto di più, e lo sai. Ci farete... quanto, con loro? Il triplo? Il quadruplo?».
Il respiro di Hans si fece affannoso. Juju avrebbe voluto confortarlo, dirgli che sarebbe andato tutto bene, ma non voleva mentire. Il sangue le pulsava nelle orecchie impedendole di sentire il resto della conversazione.
Il bagagliaio si aprì. Juju strizzò gli occhi, la luce era abbacinante, bianchissima. Poi i suoi piedi toccarono terra e, prima di rendersene conto, qualcuno le liberò le mani. Girandosi trovò la fonte della voce metallica. Era una figura alta, imponente, senza volto. Indossava una tuta blu, blu dalla punta delle scarpe fino al casco che gli copriva il viso per intero e alle armi che gli adornavano la cintura. Stampata sul cuore, una F.
«Da questa parte» disse gracchiando attraverso la maschera. «Non abbiate paura.» Era un essere umano, dopotutto, un militare. Come nelle pubblicità.
Juju lo seguì su per due gradini, poi si voltò a cercare Hans.
Anche lui stava strizzando gli occhi davanti a tutta quella luce.
F di Fortuna
Si trovavano in una stazione, una delle più straordinarie che avessero mai visto. I binari correvano argentati su un letto di ghiaia candida, la luce artificiale pareva piovere da ogni angolo del soffitto. Le panchine che punteggiavano la banchina sfavillavano, laccate, invitando a sedere. L’aria profumava di disinfettante al gelsomino, e ovunque – dagli schermi incastonati nelle pareti agli stendardi che pendevano all’entrata e all’uscita – campeggiava quella stessa F.
La F di Fortuna.
«Sarebbero dovuti crepare in mare» disse l’uomo che li aveva appena venduti. «Ora paiono tutti carini, ma crescono. E gli adulti sono forti e sani, hanno il cellulare e vengono qui per stuprare, gli uomini, e per corrompere, le donne.»
Parlava al vento e nessuno gli rispose, ma l’astio che gli infiammava la voce diede a Juju i brividi. Se non fosse stato per i soldi, qualcosa dentro di lei le disse che non si sarebbe limitato solo a legarle le mani.
«Hanno i negozi da dove vengono» continuò lui, «hanno la tv e i cinema e le strade...»
«Abbiamo anche i soldati.» Silenzio.
Era stata Juju a parlare. Lo aveva fatto quasi senza accorgersene, di sicuro senza pensare, come se le parole di lui le avessero acceso un fuoco in petto, un fuoco che doveva a tutti i costi liberare.
L'uomo mosse un passo verso di lei. «Allora perché non restate a combattere?»
«Perché...» Juju fece per ribattere, ma il militare la superò con una falcata e si piantò tra lei e il trafficante.
Si fronteggiarono per un momento, il gendarme sui gradini, le mani strette intorno al fucile, e il trafficante sotto, gli occhi spiritati, i denti snudati. Fu lui a indietreggiare. Sputò a terra e tornò alla macchina senza aggiungere una parola.
Un attimo dopo, gli uomini, le torce e i cani erano spariti in una nube di polvere.
Il militare premette un tasto sul lato del casco, proprio accanto al microfono da cui usciva la sua voce, e con un cenno indicò a Juju e Hans di avvicinarsi al bordo della banchina.
Il treno arrivò come un fulmine nella notte. Si fermò senza fare rumore, e le sue porte si aprirono. Il militare indicò la più vicina, un gesto gentile, perentorio, che non ammetteva discussioni. Juju entrò con passo incerto, e Hans dietro di lei.
«Benvenuti» disse una voce preregistrata. «Siete al sicuro adesso.»
La Città della Speranza
Juju cercò il militare con lo sguardo. Era ritto in piedi dietro il finestrino, ogni emozione nascosta dal blu del casco. Li aveva salvati dai trafficanti ma anche lui non era un amico.
Juju si sedette. I sedili erano estremamente confortevoli, e di nuovo le sue membra le ricordarono quanto fossero provate dopo la traversata.
Le porte si chiusero e il convoglio ripartì in perfetto silenzio.
Juju e Hans si guardarono negli occhi senza dire una parola. Poi Juju abbassò lo sguardo. Hans doveva aver perso una scarpa in mare, il suo piede nudo toccava appena a terra.
Era cresciuto parecchio nell'ultimo anno, ma su quel sedile così grande, così vuoto, a Juju parve ancor più piccolo dei suoi dodici anni. Un bambino dagli occhi colmi di parole inespresse.
La carrozza odorava di borotalco e si allungava a perdita d’occhio, immacolata a eccezione delle finiture blu che adornavano i poggiatesta di quei sedili soffici e vuoti. Erano gli unici passeggeri in una capsula di puro silenzio. Juju si sentì al sicuro, proprio come la voce preregistrata aveva suggerito.
Quanto erano fortunati a essere vivi, su quel treno, mentre tutti gli altri... e Nonna...
«Questo è l’inizio della vita che meritate.»
Juju trasalì quando la voce preregistrata tornò a invadere la carrozza. Il finestrino accanto a loro prese vita riempiendosi di immagini e colori, accompagnati da una melodia struggente. Una madre barcollante che reggeva tra le braccia il figlio seminudo, un uomo senza gambe che elemosinava piangendo, una bambina pallida come un lenzuolo, magra come uno spettro, che guardava in camera con occhi infiniti.
Juju sentì il pudore arrossarle le guance e nascose a stento una smorfia.
«Prima c’era solo guerra, sofferenza, morte» disse la voce preregistrata. «Poi...»
L'immagine cambiò. Svettante su un cielo azzurrissimo scintillava una torre di vetro e metallo. Il video intervallò inquadrature da lato, da sotto e dall’alto prima di fissarsi sulla base della struttura. Qui, innumerevoli sportelli si aprivano su file di uomini e donne sorridenti.
«Poi una nuova era ebbe inizio...»
Braccia cariche di cibo, corpi sani e ben vestiti, una bambina che rideva bevendo e danzando sotto un getto d’acqua cristallina. La musica cambiò e un motivetto dai toni epici si diffuse nella carrozza.
«... un’era senza violenza, senza crimine, senza discriminazione...»
Il finestrino si riempì di mezzi busti. Una donna vestita in modo squisito, lo sguardo intenso incorniciato da una cascata di boccoli. Un uomo biondissimo, in qualche maniera smilzo e paffuto al contempo, con un mestolo in pugno. E poi una madre, o meglio, una donna di cui tutto urlava: “Sono una mamma” - il volto tirato, i capelli arruffati, tre gemelli tra le braccia.
«... un'era in cui diventare la migliore versione di te stesso.»
In rapida successione: sorrisi di bambini, occhi di bambini, operatori bluvestiti circondati da orde di bambini e – stacco – il logo di Fortuna.
«Qui sei al sicuro. Qui sei alla pari. Qui siete tutti uguali.»
Una pausa. «Benvenuti a Truva, la Città della Speranza.»
Il finestrino si spense. Al di là, le luci di una metropoli si stendevano a perdita d’occhio. Erano luci timide, quasi dei lumi di candela, intermezzate da quelle ben più sfrontate dei lampioni. Disegnavano un dedalo all'apparenza infinito di sentieri e strade tra le casette.
Juju premette il naso contro il vetro. Ora che il treno si era inerpicato su un sovrappasso e scivolava sempre più lento sui binari, poteva scorgere il circondario in modo via via più nitido. Si lasciò sfuggire un sospiro. Quelle tra le luci non erano case. Erano tende, capanne, baracche. Una distesa infinita.
“Benvenuti a Truva” pensò. “Il campo profughi più grande del mondo.”
Data di Pubblicazione: 22 ottobre 2021