SAGGI E RACCONTI   |   Tempo di Lettura: 9 min

Benvenuto a Los Angeles

Come un Gatto - Anteprima del libro di Andrew Bloomfield

Una ciarlatana

Quando avevo diciassette anni, mia madre mi chiese di accompagnarla da una sensitiva per cui tutti a Tucson, il nostro paese natale, dimostravano grande entusiasmo. Non avrei mai detto che mia madre potesse andare da una sensitiva e, per quanto ne sapevo, non lo aveva mai fatto fino a quel momento, ma per una qualche ragione si sentiva spinta a incontrare quella donna. Aspettai in anticamera, seduto su una sedia scura imbottita all’inverosimile, mentre Violet faceva la lettura a mia madre nella stanza accanto. Le vedevo parlottare tra loro ma, nonostante i miei sforzi, non riuscivo a distinguere le parole, finché Violet s’interruppe a metà frase, guardò dritto verso di me, oltre la testa di mia madre, e disse d’impulso: “Sa che suo figlio andrà a Hollywood? Là troverà la sua vocazione.”

A quel punto ebbi la certezza che fosse una ciarlatana, uscii e camminai fino alla macchina per aspettare mia madre, determinato a non restare un minuto di più in casa di quell’allucinata. Hollywood! Non potevo credere che mia madre stesse pagando denaro sonante per quelle stupidaggini. Per una inesplicabile ragione avevo messo gli occhi sull’Estremo Oriente e trascorrevo ore in biblioteca a sfogliare libri fotografici suH’Himalaya. Non molto tempo dopo, infatti, mi ritrovai a vivere in Nepal, per due anni, dove trascorsi gran parte del tempo seguendo le indicazioni di una guida per pellegrini del XVII secolo e girovagando lungo i contrafforti montuosi dell’Himalaya, esplorando le rotte descritte nel libro come parte dei miei studi universitari sull’Asia. Hollywood era l’ultimo posto al mondo a cui pensavo. Invece, alla fine, fu proprio lì che approdai.

Di ritorno dal Nepal aprii una libreria a Seattle ma lasciai perdere per lavorare per un astrologo a Los Angeles. Le cose cominciarono alla grande. La mia prima esperienza di Los Angeles avvenne all’alba, a pochi isolati dalla spiaggia di Santa Monica. Era una tranquilla e placida domenica. Mi sedetti su una panchina, a osservare i colori dell’alba che giocavano con le nuvole nel cielo. Penso proprio che mi piacerà qui, pensai. Poi, in lontananza, sentii lo stridio dei freni e il motore di un’auto spinto oltre i limiti. Vidi una piccola Toyota rossa sbucare da dietro un angolo e venire a tutta velocità verso di me, piena zeppa di uomini dallo sguardo truce e insieme disperato. Lanciate al suo inseguimento cerano cinque auto della polizia a sirene spiegate.

Non credevo alla mia fortuna

Non credevo alla mia fortuna: stavano girando un film proprio dov’ero seduto io! L’auto rossa continuava a girare in circolo inseguita dai poliziotti. Poi uno degli uomini sulla Toyota si sporse fuori dal finestrino posteriore e puntò la pistola contro la polizia. Alla vista dell’arma il conducente dell’auto di pattuglia sterzò uscendo dalla traiettoria e colpendo di striscio la macchina parcheggiata di fronte a me. Un agente dal lato passeggero saltò fuori e mi buttò a terra urlando: “Stai giù, idiota! Hanno appena rapinato una banca!”. Fu allora che mi si accese la lampadina. Non avevo visto né telecamere né troupe televisive, davo semplicemente per scontato che tutto a Los Angeles fosse un film. Fu la mia prima lezione che, in quella città, il velo tra realtà e finzione era molto sottile.

La sera successiva feci la mia prima uscita su Sunset Strip. Passai accanto al vecchio Café Trocadero, un night-club di alto livello un tempo frequentato dalle più grandi star e dove nelle notti di sabato i magnati del cinema giocavano a poker puntando poste ingenti. Superai il Roxy e il Whisky a Go Go e attraversai la strada per vedere quello che un tempo era stato il jazz bar Melody Room. Superai la placca in cemento nel punto in cui River Phoenix era morto di overdose. Poi salii appena sulla collina e superai Le Dòme, il ristorante aperto da Elton John.

Attraversai La Cienega Boulevard e mi avvicinai al Mondrian Hotel, dove un addetto alla sicurezza in smoking mi fece passare velocemente per un ingresso laterale. Fui sospinto in fretta e furia accanto alla lussuosa piscina e condotto al piano superiore, dove si teneva l’inaugurazione dello Sky Bar. AU’improwiso mi trovai seduto a un tavolo di fronte a Adam Sandler, che si stava gustando una bottiglia di birra fredda, Jean-Claude Van Damme, due produttori fatti di cocaina sporchi di polvere bianca sul viso, e a due bionde esageratamente procaci che continuavano ad alzarsi la camicia fin sopra la testa, mettendo in mostra i seni nudi agl’invitati che facevano baldoria ai bordi alla piscina di sotto.

Lasciai lo Sky Bar e m’imbucai nella porta accanto, alla House of Blues. Era piena zeppa di persone e mi ritrovai sospinto al piano di sopra e sotto una corda rossa che delimitava la zona VIP. Mi scontrai con un tizio che si rivelò Sylvester Stallone. Lui mi guardò e mi chiese: “Come va?” mentre ballava con sua moglie, Jennifer Flavin. Come va?! Rocky aveva appena chiesto “Come va?” a me? Era uno scherzo?

La gente tendeva a scambiarmi per uno importante, e finire in scenari surreali sembrava un tema ricorrente per me. Persino Steven Spielberg. Un pomeriggio eravamo entrambi fuori da una palestra di karate a Brentwood, a pochi metri di distanza l’uno dall’altro: a quanto pareva, suo figlio stava facendo lezione in palestra, ma Steven continuava a guardare me, non lui. Io non ricambiavo lo sguardo, pensavo che fissare le celebrità fosse da maleducati. Quando alla fine lo guardai a mia volta, vidi che aveva un’espressione confusa sul volto, come se cercasse di ricordare chi fossi. Fece qualche passo verso di me e allora gli dissi: “Spiacente Steven, non ci conosciamo.” Sembrava sollevato.

Dal momento che Violet l’aveva azzeccata su Hollywood, pensavo che avesse ragione anche riguardo al mio posto nel mondo del cinema. Aveva detto che in questa città avrei trovato la mia vocazione, e cos’è Hollywood se non la mecca del cinema? Purtroppo non sapevo né recitare, né fare il regista, né il produttore. E non avevo contatti. Passeggiando per Walk of Fame un pomeriggio, mentre fissavo con lo sguardo inebetito da turista ogni stella impressa nel cemento, trovai un volantino appallottolato che pubblicizzava un corso di sceneggiatura. C’era scritto a lettere cubitali: “Vuoi sfondare a Hollywood? Scrivi una sceneggiatura grandiosa!”.

Decisi che il modo migliore per imparare a scrivere una sceneggiatura era leggerne il più possibile. Di quelle buone. Studiai attentamente i testi nelle biblioteche della Writers Guild and Motion Picture Academy. Scrissi copioni, molti copioni. Di tutti i generi. Partecipai a concorsi per aspiranti sceneggiatori, feci domande a produttori, manager e agenti, e frequentai corsi di sceneggiatura. Presto capii che Hollywood era un circuito chiuso. Se non avevi conoscenze, la tua sceneggiatura era destinata a restare nel mucchio di testi indesiderati, insieme alle altre cinquantamila sceneggiature registrate ogni anno alla Writers Guild.

Compresi che i miei primi giorni a Hollywood, pieni di buoni auspici, erano stati un’esperienza estatica ed emozionante. Da lì in poi tutto andò a rotoli.

Dopo qualche anno mi ritrovai senza soldi e senza casa, costretto a vivere in macchina. Spesso parcheggiavo vicino all’oceano, così quando all’alba arrivavano i poliziotti potevo fingere di essere un surfista che si preparava a prendere le prime onde del mattino. Di notte m’imbucavo nei gruppi attorno ai falò sulla spiaggia, dando a intendere di far parte della festa, cercando cibo dove potevo, e di solito trovavo un piatto di fagioli da un furgoncino che vendeva tacos. Ero diventato un altro numero nelle statistiche di Hollywood.

Sophie e Heather

Alla fine contattai una ragazza con cui ero uscito dopo il mio arrivo a Los Angeles. Di solito ero io ad andare da lei e così avevo fatto amicizia anche con sua sorella Heather, con la quale condivideva una villetta degli anni Trenta, a una decina di chilometri dal centro. Venendo a sapere della mia difficile situazione, Sophie e Heather mi offrirono ospitalità sul loro sofà per qualche giorno.

Quel divano bitorzoluto mi sembrò un hotel a cinque stelle e riuscii finalmente a rilassarmi, perché fino ad allora avevo sempre dormito con un occhio aperto per paura di ladri e poliziotti. Avere qualcuno che mi offriva un posto dove stare dopo che tutte le porte mi erano state sbattute in faccia fu un sollievo. Mentre vivevo su quel divano, riconsiderai la mia vita e decisi di tornare alle origini. Scrivi di quello che conosci, mi dicevano sempre gli insegnanti ai corsi di sceneggiatura. Bene, conoscevo l’Asia. Così quando incappai nella storia vera di un trafficante che aveva cambiato vita grazie all’incontro con un monaco tibetano, pensai di aver fatto bingo.

Chiesi in prestito i soldi per volare fino a San Francisco e incontrare di persona quel trafficante. Dopo aver trascorso parecchi giorni a registrare la sua storia, mi sentivo completamente nel mio elemento. Quando rientrai nel sud della California, per la prima volta dopo anni, ero pieno di entusiasmo. Sicuramente dipendeva da quel nuovo progetto, ma anche dal fatto che vivevo in un posto migliore. Dal momento che andavamo molto d’accordo, le due sorelle mi proposero di diventare loro coinquilino, mi offrirono la stanza libera e io accettai pieno di gratitudine. Adesso che avevo un posto sicuro dove stare, potevo praticare anche lastrologia, a cui mi ero avvicinato anni prima; leggere i temi natali era un modo per contribuire all’affitto e alle varie spese di casa. E, ironia della sorte, si rivelò la strada giusta per entrare a Hollywood. Nel giro di pochi mesi tra i miei clienti c erano proprio alcuni dirigenti degli studi cinematografici che stavo cercando d’impressionare come sceneggiatore.

Dopo il viaggio a San Francisco avevo la testa pullulante di idee per la realizzazione di un eventuale film. Sentivo il bisogno di aria fresca e volevo sgranchirmi le gambe prima di cominciare a scrivere quella che, ne ero certo, sarebbe stata una sceneggiatura rivoluzionaria, così aprii la porta sul retro e andai in giardino. Rimasi pietrificato dalla vista di un gattino morto.

Questo testo è estratto dal libro "Come un Gatto".

Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017

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