SALUTE E BENESSERE

Blue Mind - Mente e Acqua - Anteprima del libro di Wallace J. Nichols

Blue Mind - Mente e Acqua - Wallace J. Nichols - Speciale

La blue mind nel lavoro e nel gioco

Estratto del libro "Blue Mind - Mente e Acqua" di Wallace J. Nichols

La Blue Mind nel lavoro e nel gioco

Il campione di nuoto in acque libere Bruckner Chase non sarà versatile come Duke Kahanamoku, ma i suoi exploit sono comunque piuttosto impressionanti. Seconda persona nella storia ad attraversare a nuoto con successo gli oltre quaranta chilometri cosparsi di meduse da un capo all’altro della Baia di Monterey in California, Chase ha anche nuotato per tutta la lunghezza e la larghezza del lago Tahoe (rispettivamente più di trentasei e diciannove chilometri), lungo tutto il perimetro dell’isola di Pennock in Alaska (oltre tredici chilometri) e di tre delle isole del lido del New Jersey (più di trentasei chilometri, trentun chilometri e mezzo e ventisei chilometri e mezzo), e da Lanai a Maui (quasi quindici chilometri e mezzo). Dirigente commerciale di mestiere e atleta specializzato nelle prove di resistenza dall’età di 19 anni, Chase ha trasformato il suo amore per l’acqua in una carriera ad ampio spettro: addestratore di bagnini, organizzatore di programmi di nuoto in acque aperte per i Giochi Olimpici Speciali, difensore del mare sponsorizzato attraverso le borse di studio del National Marine Sanctuary Foundation [Fondazione Nazionale per la Riserva Marina; N.d.T], oggi allena i giovani nelle Samoa americane, insegnando agli adolescenti a nuotare, le regole della sicurezza nell’acqua e a diventare mentori della cultura marina.

«Quando ho iniziato a immergermi nell’oceano mi è successo qualcosa di profondo» ha detto Chase, «e questo continua a spingermi ad aiutare gli altri a scoprire e abbracciare la loro personale connessione con l’acqua».

Quella connessione personale è importante per chiunque scelga una professione o uno sport dentro, sopra, sotto o vicino all’acqua. E questo vuol dire un bel po’ di gente. Nel 2011, nei soli Stati Uniti, ad esempio, 21,5 milioni di persone hanno svolto un tipo di esercizio fisico legato al nuoto; 56,1 milioni hanno praticato la pesca; 2,48 milioni hanno fatto surf; 2,8 milioni si sono immersi con l’autorespiratore; 9,3 milioni hanno praticato lo snorkeling; 3,8 milioni sono andati in barca a vela; 7,5 milioni sono andati su un acquascooter; 4,6 milioni hanno fatto sci nautico; 10,17 milioni canottaggio; 7,3 milioni kayak; 1,38 milioni windsurf e 1,6 milioni paddle surf (o SUP). Nel 2012 altri ottantotto milioni di Americani sono usciti in barca a motore per scopi ricreativi, corrispondenti al 37,8 per cento della popolazione degli Stati Uniti. Nel mondo, più di cinquecento milioni di persone hanno scelto attività ricreative legate all’acqua come mezzo di esercizio fisico, evasione, sfida, rilassamento, eccitazione e gioco. (Questa cifra aumenta di molto se si includono coloro che trovano una connessione spirituale attraverso l’acqua. Decine di milioni di persone, ad esempio, si immergono nel fiume Gange durante il festival indiano del Kumbh Mela, il più grande raduno di persone a scopi religiosi).

Dal lato professionale, la gamma di mestieri basati sull’acqua è ugualmente impressionante: dai bagnini ai pescatori, dai marinai agli scienziati, da chi insegna tecniche che hanno a che fare con l’acqua o procura cibo di origine marina per i nostri pranzi e le nostre cene, o fornisce e fa manutenzione all’equipaggiamento e agli impianti necessari per qualunque forma di attività ricreativa incentrata sull’acqua, agli uomini e alle donne che per proteggere gli interessi economici e la sicurezza dei propri Paesi, prestano servizio nella marina militare, nella guardia costiera o nella marina mercantile. Alcuni di questi uomini e di queste donne lavorando affrontano seri rischi o addirittura la morte, come ci ricordano programmi televisivi quali Deadliest Catch [Pesca Estrema; N.d. 77] e film come La tempesta perfetta e Captain Phillips. Le persone che navigano lungo i percorsi marittimi possono trascorrere mesi lontane dalla terraferma, in ambienti angusti, con turni di lavoro che portano a un sonno frammentario e provocano una fatica estenuante. Perché certi individui sono attratti dal lavoro in un elemento ben più letale della terra o dell’aria?

E su questo non c’è dubbio: l’acqua è di gran lunga più letale. Nel 2012 nel mondo (a esclusione degli USA) solo trecentosessantadue persone sono morte in incidenti aerei su velivoli commerciali; nello stesso anno, nei singoli Stati Uniti ci sono stati millecinquecentotrentanove incidenti riguardanti aerei civili di ogni tipo (commerciali, di pendolari, privati), con quattrocentoquarantasette vittime. Ma, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ogni anno nel mondo annegano trecentottantottomila persone; e questa cifra non tiene conto di chi è annegato in un’inondazione o come conseguenza di un trasporto via mare. L’irresistibile attrazione dell’acqua non è tale per chiunque, naturalmente; per alcuni un mestiere che ha a che fare con l’acqua è soltanto un lavoro, proprio come per altri nuotare su e giù nella piscina locale non è che un buon modo per fare esercizio fisico. Ma leggete o ascoltate quello che dicono dell’acqua chi pratica il rafting nelle cosiddette “acque bianche” (o “acque vive”) o il kayak, o i nuotatori, i surfisti, i tuffatori, i marinai o i pescatori, e sentirete il linguaggio di persone che sono innamorate del loro sport o della loro professione, quando non ne sono addirittura dipendenti.

Nell'acqua: il nuovo

Quest'estate ho nuotato nell’oceano e ho nuotato in una piscina, sale nelle mie ferite, cloro nei miei occhi, sono uno sciocco autodistruttivo, uno sciocco autodistruttivo.
- Loudon Wainwright III, Swimming Song [Il canto del nuoto; N.d.T]

Ci sono diverse ragioni per cui il nuoto è al quarto posto nella classifica delle attività ricreative più popolari negli Stati Uniti, ed è quella a cui le persone più desiderano dedicarsi ammesso non lo stiano già facendo. La prima ragione è la convenienza: non serve altro che la persona stessa e una massa d’acqua. Ma sono i modi in cui interagiamo con l’acqua che rendono il nuoto sia salutare che piacevole per il corpo e per il cervello.

Tutto si riduce alla viscosità, alla pressione e alla spinta idrostatica. Archimede (il filosofo-matematico greco che si presume sia arrivato all’idea dello spostamento dell’acqua mentre entrava in una vasca da bagno) affermò che quando un oggetto penetra nell’acqua, l’acqua si sposta e nello stesso tempo esercita sull’oggetto stesso una spinta verso l’alto con una forza uguale al peso del volume dell’acqua spostata. Quella forza dà origine a una spinta idrostatica, o la capacità di galleggiare. Se un oggetto è compatto e denso (come, ad esempio, l’ancora di una nave), è più pesante della quantità d’acqua spostata e affonda. Se un oggetto è leggero (come un pallone da spiaggia gonfiato) o il suo peso è diffuso su un’area abbastanza grande perché la quantità d’acqua spostata sia pari al suo peso (come lo scafo di una barca), galleggia.

Perché dunque il corpo umano, che sembrerebbe piuttosto denso e compatto per il suo peso, dovrebbe galleggiare? Facile! Ricordate che il corpo, cioè il nostro sangue, le nostre ossa, gli organi, la pelle e i muscoli alla nascita sono fatti fino al settantotto per cento di acqua (percentuale che diminuirà gradualmente con l’età), per cui la nostra densità è all’incirca la stessa di quella dell’elemento in cui nuotiamo. Siamo anche fatti al quindici per cento di grasso, che è più leggero dell’acqua, e abbiamo polmoni pieni di aria, il che aumenta la nostra capacità di galleggiamento (proprio come accade per quel pallone da spiaggia). Quindi un corpo umano del peso di un centinaio di chili scarsi, in acqua di fatto pesa solo quattro chili e mezzo. (Questa relativa assenza di peso è il motivo per cui fin dagli anni Sessanta gli astronauti hanno usato le immersioni in acqua per allenarsi alle missioni nello spazio esterno). Questo spiega anche perché delle vasche di galleggiamento così piccole riescano a tenerci a galla.

Ma l’esperienza del nuoto è ben di più del semplice galleggiare. L’acqua è dotata di una tangibilità, di un peso, e di una resistenza pari a seicento volte quella dell’aria. A differenza della terra e dell’aria, possiamo esplorarla in molteplici dimensioni: sopra, sotto e lateralmente; come fa notare il neurologo Oliver Sacks, ci sentiamo tangibilmente sostenuti e abbracciati da questo «mezzo spesso e trasparente». La resistenza e la pressione dell’acqua contribuiscono a fare del nuoto una delle migliori forme tanto di esercizio aerobico come di tonificazione dei muscoli. Poiché la pressione dell’acqua al di fuori del corpo è maggiore della pressione al suo interno, spiega Bruce E. Becker, direttore del National Aquatics and Sport Medicine Institute [Istituto Nazionale per gli Sport e Medicina Acquatici; N.d. 7T] dell’Università dello Stato di Washington, l’acqua spinge via il sangue dalle estremità, attirandolo verso il cuore e i polmoni. Il cuore risponde aumentando lo sforzo, spingendo questo volume supplementare di sangue più efficacemente con ogni battito, facendo così circolare verso l’alto un volume sanguigno del trenta per cento superiore alla norma. Per far fronte a questo sovraccarico, le arterie si rilassano e diminuiscono la resistenza nei confronti del flusso sanguigno.

La parte interessante

Ed ecco la parte interessante: uno degli ormoni che regolano la funzione arteriosa è la catecolamina, e le catecolamine fanno parte della risposta del corpo allo stress. Nelle parole di Becker: «Durante l’immersione, il corpo emette un segnale che porta all’alterazione dell’equilibrio delle catecolamine, che diventa simile a quello che si ritrova durante il rilassamento o la meditazione». In altre parole, il semplice fatto di trovarsi nell’acqua crea una sensazione di rilassamento e una diminuzione dello stress.

Ma non è tutto. Anche i polmoni ricevono un maggior volume di sangue, il quale, combinato con la pressione che l’acqua esercita sulla parete della cassa toracica, li fa lavorare più duramente per respirare (approssimativamente il sessanta per cento più che sulla terra): questo significa che l’esercizio fisico nell’acqua può rafforzare i muscoli respiratori e migliorare la loro efficienza. In uno studio che confronta l’aerobica acquatica con l’aerobica “asciutta”. Becker ha scoperto che, mentre varie forme di aerobica miglioravano i livelli di fitness e in un certo grado la capacità respiratoria, solo l’esercizio fisico acquatico migliorava la resistenza respiratoria. Anche i muscoli beneficiano dell’incremento della circolazione, poiché ricevono quantità maggiori di sangue e ossigeno. E anche questa è una cosa buona, dato che spostare il corpo nell’acqua richiede sforzo; nel nuoto, ogni muscolo trae vantaggio da quello che è essenzialmente un allenamento di resistenza (uno dei modi migliori per migliorare sia il tono che la forza). Inoltre, il nuoto fa lavorare i grandi muscoli lisci del corpo, stirandoli e allungandoli ad ogni bracciata insieme alle giunture e ai legamenti, mentre la testa e la colonna ricevono un buon allenamento con ogni respiro. Tutto questo significa che nuotare fendendo l’acqua con bracciate ritmiche non solo induce uno stato rilassato, ma accresce anche la forza fisica.

Come altre forme di esercizio aerobico, il nuoto può produrre il rilascio di endorfine ed endocannabinoidi (le sostanze naturali simili alla cannabis secrete dal cervello), che riducono la risposta cerebrale allo stress e all’ansia. Alcuni ipotizzano che gli effetti di benessere provocati dal nuoto siano legati alla stessa “risposta di rilassamento” scatenata da attività come l’Hata Yoga. Nel nuoto, i muscoli si tendono e si rilassano continuamente in maniera ritmica, e questo movimento è accompagnato da una respirazione profonda e ritmica, il che nell’insieme contribuisce a mettere i nuotatori in uno stato quasi meditativo. (Tra poco parleremo molto più approfonditamente di questo stato). Nelle parole di uno dei più grandi nuotatori agonistici dei nostri tempi, Michael Phelps: «Il luogo dove mi sento più a casa mia è in acqua. Scompaio. E all’acqua che appartengo».

Quel senso di appartenenza aumenta con la ripetizione. Recenti studi hanno mostrato che l’esercizio fisico regolare è associato con un incremento del numero di nuovi neuroni nell’ippocampo, l’area cerebrale legata all’apprendimento e alla memoria. Più neuroni significa maggior funzionalità cognitiva; questa può essere la ragione per cui un regolare esercizio aerobico, come il nuoto, si è rivelato in grado di mantenere intatte le nostre capacità cognitive con l’avanzare dell’età. Ma c’è dell’altro nell’esercizio fisico procurato dal nuoto. Sebbene noi trascorriamo i nostri primi nove mesi di vita in “acqua”, alla nascita non siamo in grado di nuotare. Si dice che i bambini “imparano” a nuotare, poi a strisciare, quindi a camminare e poi a correre, ma questo accade senza che venga loro insegnato. Il nostro cervello è fatto in modo che queste capacità emergano naturalmente. Ma i modi in cui usiamo il nostro corpo in acqua, cioè dovendo consapevolmente dare un ritmo ai nostri respiri, distendendo e alzando il braccio per poi tirare l’acqua verso di noi e muovendo le gambe indipendentemente dal ritmo stabilito dalle braccia, non hanno niente in comune con il modo in cui ci muoviamo sulla terra. Dobbiamo imparare a nuotare, ed è stato dimostrato che questa combinazione di sforzo cognitivo ed esercizio aerobico fornisce la massima quantità di quella che è chiamata “riserva cognitiva”, vale a dire la resilienza della mente nei confronti dei danni cerebrali.

Purtroppo, secondo uno studio del 2010 commissionato dalla USA Swimming Foundation [Fondazione Statunitense per il Nuoto; N.d.T\> il quaranta per cento dei bambini caucasici, il sessanta per cento dei bambini ispanici e il settanta per cento dei bambini afroamericani hanno una capacità di nuotare scarsa o nulla. (In tutto il mondo l’annegamento rimane la causa principale di morte dovuta a “danno non intenzionale” tra i bambini sotto ai 5 anni). Considerato quanto stiamo imparando sui benefici del nuoto per il fìsico e per la Blue Mind, non si tratta soltanto di un fatto spiacevole, ma di una crisi della salute pubblica.

Ed è per questo che il nuotatore in acque aperte Bruckner Chase vive nelle Samoa americane, un piccolo territorio statunitense situato quindici gradi sopra all’equatore, a sei ore di volo dalle Hawaii. Per contribuire alla promozione della consapevolezza relativa all’ambiente marino, nel 2011 egli ha attraversato a nuoto i quattordici chilometri e mezzo che separano l’isola di Aunu da Pago Pago Harbor, impresa che nessuno aveva mai realizzato prima; e non l’ha fatto perché era una sfida di nuoto in acque aperte, ma perché tutti i locali erano convinti che sarebbe stato divorato lungo il tragitto. «Questa è una cultura vecchia di tremila anni, con una forte tradizione orale» ha fatto notare Chase —. «L’attacco di uno squalo avvenuto duecento anni fa può essere tramandato per generazioni, trattenendo la gente dall’entrare nell’acqua profonda. È una cultura che ha dei legami con il mare, eppure aveva membri della squadra di primo intervento della Guardia Costiera della Marina Militare che non sapevano nuotare. Non c’è da stupirsi se il tasso di annegamenti è molto elevato».

Ricordi molto antichi (specialmente quelli che hanno a che fare con denti aguzzi) significano che la paura dell’acqua può trasformare una preoccupazione in un retaggio fondamentale. Così Chase e sua moglie, la dottoressa Michelle Evans-Chase, si sono riproposti di cambiare la cultura relativa al nuoto. Hanno fondato un programma di nome Toa o le Tai (Eroi del Mare) in cui addestravano gli adolescenti a stare con sicurezza dentro e nelle vicinanze del mare, quindi hanno insegnato le stesse cose a bambini più piccoli. Chase è giustamente fiero dei risultati del suo programma, tra cui figura un giovane chiamato Tank. «La prima volta che ho parlato a Tank, lui diceva che non sarebbe mai entrato nell’acqua fino ad avere la testa sotto, punto e basta» dice Chase. «Oggi, Tank salta nell’acqua profonda trenta metri e che fino a un anno fa riteneva piena di squali. E tutti i suoi amici supplicano di essere inseriti nel programma».

Mio padre biologico, Jack Hoy, era un “tipo acquatico” e fu un vorace nuotatore per tutta la sua vita. In effetti era fatto per nuotare: spalle larghe, cassa toracica prominente, con un corpo che si assottigliava gradualmente senza soluzione di continuità scendendo verso i piedi. Alle superiori e nel college gareggiò nelle squadre di nuoto e per tutta la vita nuotò, andò in barca a vela e pescò. Il luogo preferito di Jack in tutto il mondo era Cape Rosier, e più e più volte egli tornò in quella parte della rocciosa costa del Maine. Fu là che la sua famiglia e i suoi amici si radunarono per la sua cerimonia commemorativa nell’agosto 2013. A Bakeman Beach, i figli e i nipoti di Jack al tramonto si spogliarono e si tuffarono nel freddo Atlantico. Nuotammo nella piccola baia, come lui amava fare. Io sentii ogni bracciata. Certo, era freddo, ma non aveva importanza. Nuotare insieme, nel suo nome, qui nel suo posto, fu forse il miglior tributo che avremmo potuto offrire a Jack. In un punto qualunque della profonda acqua che andava oscurandosi ci riunimmo spontaneamente in un cerchio. Non c’era molto da dire, l’oceano e i nostri corpi scoperti, simili per effetto del DNA di Jack ma diversi a causa della varietà apportata dalle sue compagne e spose, parlavano chiaramente per conto di generazioni e antenati, e noi eravamo tutti connessi da uno stesso filo, collegati dall’acqua. L’amore per l’acqua fu uno dei suoi doni.

Alcune delle reminiscenze più intense che le persone possano avere riguardo all’acqua sono ricordi legati al nuoto insieme alla famiglia. Il babbo che vi tende le braccia mentre saltate nella piscina per la prima volta; la mamma che siede con voi sulla spiaggia nell’acqua bassa, ridendo insieme a voi mentre le onde si precipitano ad avvolgervi; il fratello o la sorella maggiore; il cugino o la cugina che vi conducono al largo, nell’acqua più profonda di quanto potreste mai osare da soli. L’amore per il nuoto spesso è tramandato nelle famiglie, e trovarsi nell’acqua insieme può creare un legame in qualunque fase della vita.

Ma può darsi che a voi l’acqua invece abbia procurato un’esperienza diversa, non così felice o addirittura spaventosa (non obbligatoriamente un attacco di squalo risalente a duecento anni fa). Anche se i miei genitori biologici hanno entrambi avuto forti affinità con l’acqua per tutta la vita, mia madre adottiva ha sempre avuto paura dell’acqua e aveva una lunga lista di ragioni illogiche per non bagnarsi; di rado entrava in una piscina con i suoi bambini (e quando lo faceva non metteva mai la testa sott’acqua). Nel modo più assoluto, poi, si rifiutava di entrare in qualsiasi mare, lago o fiume. Mio padre adottivo aveva rapporti leggermente migliori con l’acqua, ma neanche lui era proprio un pesce. Persino la nuotatrice competitiva Leanne Shapton aveva una specie di paura dell’acqua. Ecco cosa scrive:

«Essendomi sempre allenata in piscina, sono abituata a vedere quattro pareti e un fondo. Quando questa chiarezza non c’è più, divento nervosa. Immagino delle cose. Squali, fianchi scivolosi di grossi pesci, scabrosi frammenti di fregate affondate, scuro ferro corroso, correnti. Posso nuotare lungo la spiaggia, con le onde che arrotolano e rovesciano le mie solite bracciate e il fondo di sabbia scanalata che si dimena sotto di me, ma alla fine mi impaurisce l’orizzonte aperto, il turbamento blu di quello strapiombo che è la piattaforma continentale».

Questo testo è estratto dal libro "Blue Mind - Mente e Acqua".

Data di Pubblicazione: 29 settembre 2017

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