Leggi in anteprima un estratto dal libro di lain McNay e scopri come la ricerca spirituale è la ricerca dell’Uno, della completezza.
Jeff Foster - La meraviglia dell'essere
Intervista di lain McNay
Iain: Jeff, che cos’è la non-dualità?
Jeff: Beh, è questa la domanda, vero? Per me, la parola “non-dualità” significa “non due” e indica il fatto che in qualche modo tutto è Uno. Anche se nel mondo le cose e le persone appaiono divise, come individualità distinte, e per quanto sembri che esistano un passato, un futuro e degli oggetti separati, in realtà è tutto Uno. E l’Unità non è staccata da quello che succede. La ricerca spirituale è davvero la ricerca dell’Unità, del completamento, dell’unione.
I: Ci rendiamo conto che vogliamo qualcosa di più per sentirci completi. In un certo senso, è qualcosa di molto umano.
J: Lo è davvero, e la ricerca inizia con la percezione del senso di separazione. Si inizia a cercare perché ci si sente separati. Nel mondo materiale sarà la ricerca di denaro, fama, relazioni migliori, di una maggiore affermazione di sé; nel mondo spirituale è la ricerca del risveglio, deH’illuminazione, della liberazione; ma in realtà si tratta sempre della stessa ricerca. È la ricerca del completamento. La ricerca di casa. Io cerco di comunicare che, innanzitutto, non abbiamo mai lasciato casa. Quell’Unità è tutto ciò che esiste, e si trova qui e ora, e noi non ne siamo mai separati. Nel comprendere questo, tutta la ricerca di qualcosa di più svanisce.
I: E come ci si sente quando succede?
J: [ride] Sai, è molto difficile parlarne! Quando succede, intendo quando il sé separato svanisce, tu non sei lì a sperimentarlo!
I: Quando dici: «Tu non sei lì», che cosa significa esattamente?
J: Per dirla in modo semplice, non ci sono il passato e il futuro. È svanito quel pesante senso di me stesso come persona separata dal resto. Esiste solamente quello che sta succedendo e lì non c’è nessuno che lo sappia. È semplicemente qualcosa che non si può conoscere: un tuffo nell’ignoto, nel quale comunque ci troviamo sempre e in ogni caso.
Un’apertura verso tutto ciò che esiste
I: Ma tu pensi ancora? Ti capita ancora di fare dei ragionamenti?
J: Beh, i pensieri emergono ancora. Ai pensieri è consentito manifestarsi, ma non sono più un problema, perché non c’è più qualcuno che li utilizza per costruirsi un’identità. Noi cresciamo nel mondo e ci attacchiamo alle cose. Cerchiamo di trasformarci in qualcosa. Si potrebbe dire che la condizione umana è davvero questa: il tentativo di essere qualcuno, di essere qualcosa, di possedere, di afferrare. Quando tutto questo svanisce, ogni cosa si libera, in modo che finalmente possa essere se stessa, senza nessun tentativo di afferrarla. Ovviamente, nel corpo può manifestarsi qualunque cosa: pensieri, suoni, odori, sentimenti, ma non c’è più la sensazione che si tratti di qualcosa di mio, o che io sia un’entità separata in grado di controllare qualcosa che si manifesta. Così, capita che ci siano dei suoni, ma non c’è nessuno che li sente. Non c’è nessuno che pensa: «Io sto facendo questo! Sto ascoltando». Si vede che l’“io” al centro della mia vita è un’illusione. Si vede che la vita non ha un centro; ma questo non significa che sia finita! Le persone pensano che quando avviene la liberazione tutto si ferma e smette di esistere. Non è assolutamente così. Avviene un’apertura. Un’apertura verso tutto ciò che esiste. Il consenso a ciò che c’è. Ma non è qualcosa che si fa, ed è questo il messaggio difficile da ascoltare!
I: Che cosa succede alla personalità?
J: È proprio la personalità che viene superata! E si vede che in essa non c’è niente di fisso che si possa definire “io”.
I: Però, continui ad avere le tue preferenze e avversioni personali, solo che non ti dominano più?
J: Sì, diventa tutto molto giocoso. Giochi a essere Jeff, quando è necessario. Questo personaggio di Jeff, dove si trova? È soltanto un pensiero che succede adesso. Non è una condizione speciale in cui mi trovo. Questo è vero per tutti noi: siete soltanto un pensiero. Tutto il vostro passato e il vostro futuro è soltanto un pensiero che emerge adesso.
I: Sei consapevole dei cambiamenti che avvengono nel corso del tempo nella personalità? Diventa più rifinita? Perde certi fardelli?
J: È davvero difficile parlarne senza far sembrare speciale il personaggio di Jeff, che invece è molto ordinario. La personalità decade, crolla, e si ritorna a ciò che c’era già e che è sempre stato lì, solo che non riuscivamo a vederlo. Eravamo così persi nel gioco della ricerca da non poter vedere quello che avevamo davanti.
I: Ho trascorso del tempo con persone che si sentono in uno spazio illuminato, uno spazio risvegliato, o in qualunque modo tu voglia chiamarlo. E non c’è dubbio che lì stia succedendo qualcosa di speciale, eppure a volte vedevo che la loro personalità prendeva il sopravvento. Mi interessa esplorare la possibilità che forse la personalità possa svilupparsi in modo tale da non esercitare più nessun genere di influenza.
J: Può sembrare che la mente, il pensiero, la personalità o comunque tu voglia chiamarla, abbia ancora forza dopo aver compreso questo fatto (ovvero dopo aver visto che non esiste un “io” al centro della vita, anche se esso rappresentava il fondamento su cui abbiamo costruito la nostra esistenza). Tutta la mente sta cercando e quindi può tornare a intromettersi. È come il momento in cui pensi di esserti risvegliato, e invece non lo sei, perché la mente interferisce.
I: Proprio perché pensi di esserti risvegliato. Pensi di essere speciale, di essere separato.
J: Esatto. Fino a quando pensi di esserti risvegliato o illuminato o liberato c’è ancora un “io” che pensa. L’idea di conseguimento personale è la cosa più difficile da lasciare andare. Per lungo tempo ho pensato di essere illuminato e, sai, era soltanto una convinzione. Quella era separazione: «Io sono illuminato e voi no!» Separazione. E c’era anche un senso di superiorità: pensavo di avere qualcosa di speciale, ma anche tutto questo è svanito. È stata l’ultima illusione a scomparire. Però si trattava proprio di un’illusione. L’ego adora pensare di essere illuminato, così può andarsene in giro a dire che è illuminato!
I: Ovviamente, è uno scherzo fenomenale!
J: Infatti, e quello che si vede andando oltre è che non esiste un “io” che possa essere illuminato o non illuminato.
C’è soltanto quello che succede adesso
I: Questa fase, so che non è la parola giusta, ha uno sviluppo? Si evolve? Percepisci dei cambiamenti? È qualcosa in movimento?
J: C’è soltanto quello che succede adesso, tutto il resto svanisce in sottofondo. In questo, nel qui e ora, tutto è compiuto. Si vede che la vita è già completa, e in quella visione ciò che non è reale semplicemente svanisce, si brucia, anche se può sembrare che ci voglia del tempo; ma nella chiarezza si vede che esiste soltanto l’adesso, solamente questo. Pertanto, possiamo parlare dei cambiamenti di Jeff, ma a me questo non sembra più reale.
I: Ricordo di aver parlato con qualcuno al quale era successo qualcosa di molto significativo. Era come se lo sfondo fosse diventato il primo piano e viceversa. I punti di riferimento si erano invertiti, le cose andavano in fumo e si vedeva la vita da una prospettiva diversa.
J: Però questo è sempre stato qui. Non si tratta di un nuovo punto di riferimento. Io dico sempre che i bambini piccoli lo vedono. I neonati lo vedono.
I: Perché quando nascono non si sentono separati? Percepiscono soltanto l’interconnessione?
J: Non percepiscono nemmeno quella. Per loro esiste soltanto quello che succede adesso. Non c’è nessuno che dice: «Mi sento connesso, mi sento un tutt’uno con ogni cosa». No, c’è soltanto la spontaneità, solamente quello che accade nel momento presente. Da adulti ci sembra di esserci allontanati così tanto da quella spontaneità, da quel senso di vitalità, da quella semplicità. Cercando di essere qualcuno diventiamo molto grevi, pesanti e seri. Ci perdiamo quello che sta succedendo, perché siamo così impegnati a cercare qualcosa di più, qualcosa per l’io.
I: Non si tratta di un gioco?
J: Il gioco è quello.
I: Esiste una qualche via di uscita? I bambini possono rimanere in quello spazio anche quando crescono?
J: Io sospetto che sia possibile; ma bisogna notare che non ci sono errori nell’Unità. Il gioco deve essere giocato. La separazione, la sofferenza devono andare in scena per poter essere viste. È come se fossero qui per risvegliarci. Considerando l’intensa sofferenza e l’assidua ricerca nella mia vita, so che a quel tempo è stato orribile, ma guardando indietro vedo che semplicemente doveva andare in quel modo. Non ci sono stati errori. Tutto era lì per risvegliarmi. Punto.
I: Prima parlavamo proprio della storia della tua vita. Hai passato dei periodi difficili in cui sei stato molto infelice. E, comprensibilmente, ti sei rivolto alla meditazione e all’autoindagine per trovare una via di uscita.
J: Assolutamente sì. La mia ricerca era il tentativo di sfuggire all’infelicità che stavo sperimentando. Tutta la mia vita era stata piuttosto infelice, ma raggiunsi il punto di rottura attorno ai venticinque anni. Provavo una tale sofferenza e infelicità. Vedevo l’inutilità di ogni cosa.
I: Sì, la futilità della vita, era questo il nucleo della tua infelicità?
J: Era il peso di essere una persona separata da tutto il resto. Lo sentivo davvero intensamente. Ero molto solo. Sentivo che al mondo non importava di me. Non avrei mai potuto instaurare delle relazioni. Ero veramente da solo.
I: Il gioco non funzionava per te?
J: Non funzionava. Ero stato benedetto con il dono di un intelletto acuto, suppongo che fossi piuttosto intelligente, ma a parte quello, decisamente mi odiavo. Odiavo il mio aspetto. La vita mi sembrava un peso. Al mattino non volevo alzarmi dal letto. Tutto era troppo per me. E penso di essermi sentito così per gran parte della mia vita. Ovviamente, non mi rendevo mai pienamente conto di quanto fossi infelice. Pensavo soltanto: «Questo è quello che sono, è questa la mia sorte».
I: Lavoravi in qualche modo sulla tua personalità? Le persone potrebbero obiettare che la tua personalità non si era adeguatamente formata, forse a causa di brutte esperienze vissute nell’infanzia.
J: Superficialmente ho avuto un’infanzia piuttosto felice. I miei genitori erano amorevoli con me. Ho sempre avuto tutto quello di cui avevo bisogno; ma dentro tutto era già troppo per me. Odiavo chi ero.
I: Quando dici che odiavi chi eri, come facevi a vederlo?
Io sapevo chi ero!
J: Beh, è questo il problema. Io sapevo chi ero!
I: Così ti sentivi separato da tutti gli altri, e sentivi che c’era qualcos’altro là fuori con cui non riuscivi a entrare in contatto?
J: Mi sentivo sempre una persona minuscola in un mondo enorme. Mi sentivo totalmente insignificante. E penso che sia questa la separazione portata all’estremo, dove ero andato a finire io. Lo sentiamo tutti in certa misura. Ci sentiamo delle piccole persone in un grande mondo, un mondo in cui si nasce, si soffre, si invecchia e si muore.
I: Sappiamo che moriremo ma pensiamo: «Non io!». Per gran parte di noi la morte sembra molto lontana.
J: Ci proviamo e la mettiamo da parte. Cerchiamo di non pensarci. Ma sai, viene comunque fuori in altri modi. Emerge come sofferenza o ansia. Il tentativo di sfuggire alla morte essenzialmente è il tentativo di fuggire dal fatto di essere una nullità. È per questo che temiamo la morte: è letteralmente un tuffo nel nulla. E non si può conoscere il nulla. La mente opera nell’ambito di ciò che è noto. Noi temiamo quello che non conosciamo.
I: Quello che non comprendiamo?
J: Sì, è la stessa cosa. Possiamo controllare quello che conosciamo, che comprendiamo. La morte ci mostra che non c’è nessun controllo. La morte e la malattia hanno un modo spiritoso di mostrarci che qui avviene qualcos’altro, qualcosa ben al di là del nostro controllo. Per questo passiamo la nostra vita, ovviamente senza rendercene conto, cercando di sfuggire alla realizzazione del fatto di non essere niente. A qualche livello, sappiamo tutti di non essere niente. Siamo stati tutti dei neonati. Abbiamo assaggiato l’innocenza, la mancanza di rigidità, quell’apertura, la sensazione di non essere nessuno in particolare. Ed essenzialmente quell’innocenza, quella freschezza, quell’apertura non si è perduta, è stata solamente oscurata dal gioco della ricerca, almeno all’apparenza. Dal gioco di essere una persona separata, qualcuno separato dal mondo. Ed è da quell’illusione, da quella supposizione, che inizia tutta la sofferenza. Per me, la sofferenza e la separazione avevano raggiunto un punto critico, ed è stato allora che quest’altra possibilità ha cominciato a trasparire. In questo caso particolare, si doveva arrivare alla disperazione assoluta.
I: Quindi arrivato all’estremo ci fu la svolta?
J: Sì, si trattava di trasformarsi o di suicidarsi. Non c’erano altre opzioni. I: Suona molto drammatico!
J: Sì, cambiamento o suicidio.
I: È stata una decisione che hai dovuto prendere tu?
J: Nel raccontarlo sembra sempre che abbiamo la possibilità di scegliere, ma ovviamente non è mai così. Doveva succedere nel modo in cui è successo. In questo non ci sono errori. È proprio lì l’illusione, e dove inizia tutta la sofferenza: con la sensazione di essere una persona separata che può scegliere, con la sensazione che le cose nel passato avrebbero potuto essere diverse. Il che implica che questo, ciò che sta accadendo adesso, non dovrebbe essere così come è. Quando si vede che niente avrebbe potuto accadere diversamente, è come dire che questo deve essere esattamente così come è. Non potrebbe essere diversamente.
I: Quando hai raggiunto quel punto critico, che cosa è successo dopo?
J: Beh, mi sono ammalato, un caso piuttosto grave di mononucleosi infettiva. E una notte sono svenuto nel bagno. Vomitavo sangue e ho perso i sensi. Mi sono svegliato in una pozza di sangue, cercando di muovermi e rendendomi conto di essere paralizzato. E ho pensato: Ecco - sto per morire. E in quello c’era qualcosa, su quanto questa vita sia preziosa e con quanta rapidità possa essere spazzata via, qualcosa che rimase con me. Qualche giorno dopo, nel letto dell’ospedale, mi sentivo molto meglio e mi era rimasto qualcosa di quell’esperienza. Tutta la mia vita: non mi ero mai reso conto di quanto fosse prezioso il semplice fatto di essere vivo. Lo avevo dato per scontato. Nella sua semplicità, avevo ignorato il fatto di essere vivo, per cercare di essere qualcuno nel mondo. Qualcosa dell’esperienza avuta in bagno mi aveva colpito, il sapore della morte e quanto fosse vicina, e quanto facilmente tutto questo possa svanire. Era qualcosa sull’importanza della nostra vita. La malattia era arrivata dal nulla, veramente dal nulla. Allora quel fatto mi aveva terrorizzato: con quanta facilità tutto questo può venirci portato via. Per tutta la vita ero stato un ateo convinto. La parola “spiritualità” non aveva nessun significato per me. Faccende di streghe e orchi e demoni! La religione mi sembrava ridicola. E ricordo che accanto al mio letto, in ospedale, c’era una Bibbia e mi sono ritrovato a sfogliarne le pagine e a leggere le parole di Gesù, e per la prima volta nella mia vita non erano soltanto parole vuote, non erano solo delle sciocchezze inventate da qualche uomo, c’era qualcosa in esse, qualcosa sulla Vita Eterna, sulla sua preziosità, qualcosa su, beh, qualcosa che andava oltre. Non avevo scelta. È lì che iniziò la ricerca spirituale. Dovevo scoprire che cosa fosse questa risonanza. E dovevo trovarla “là fuori”.
I: Quando dici che iniziò la ricerca, che forma prese?
J: Beh, ero stato un cercatore per tutta la vita. L’individuo è un cercatore. Ma è stato a quel punto che è cominciata la ricerca spirituale. Mi sono semplicemente ritrovato a farla. Una volta che il fuoco è stato acceso, non si torna indietro. Sono tornato a Manchester per stare con i miei genitori mentre mi riprendevo dalla malattia, e mi sono chiuso nella mia stanza per circa un anno.
I: Misure piuttosto estreme!
J: Ero una persona molto estrema [ride]. Ero benedetto, o maledetto, non so, da un intelletto fortissimo. Mi ero formato all’Università di Cambridge. Ero molto intelligente, e una volta messe le mani su qualcosa dovevo farla a pezzi. Dovevo proprio entrarci dentro, era quella la mia natura. Una volta che il fuoco divampò, fu così intenso, iniziò semplicemente ad ardere e io non potevo più ignorarlo. Ho iniziato con i libri fondamentali su Buddhismo, Cristianesimo, meditazione, autoindagine e poi tutto, intendo proprio tutto! Ho provato ogni cosa!
I: Intendi dire che hai provato una certa tecnica di meditazione per un po’, una certa religione per un altro periodo... ?
J: Sì, e ho cominciato ad avere ogni genere di “esperienze spirituali”. Visioni fugaci dell’Unità, la dissoluzione del sé, un’intensa compassione; a volte semplicemente scoppiavo in lacrime e piangevo per ore, per via della pura bellezza di tutto. C’erano anche momenti di grande disperazione. Visioni dell’impermanenza, della transitorietà di ogni cosa. Il vedere che io in realtà non c’ero e che l’intera ricerca in effetti potrebbe essere inutile. È stato un periodo molto drammatico. Le vecchie convinzioni iniziavano a svanire, credenze che avevo da tutta la vita. Cominciavo a vedere che non ero quello che pensavo di essere.
I: Fondamentalmente, eri positivo riguardo a quello che ti stava succedendo?
J: Non posso dire che fossi positivo. All’inizio era tutto molto eccitante, ma verso la fine fu piuttosto brutto. La ricerca divenne così intensa, ma sapevo di non poter rinunciare. Lo sapevo.
I: Quando dici intensa, intendi che facevi cose più estreme? Meditavi per periodi sempre più lunghi?
J: Era intensa nel senso che mi ero autoescluso dalla vita ordinaria. Dalle relazioni umane ordinarie. Dalle cose semplici. A essere sincero, non mi ricordo molto di quel periodo. Succedevano tantissime cose e svanivano con altrettanta rapidità. A un certo punto penso di essere diventato un attivista vegano! Stavo semplicemente esplorando tutto, alla ricerca di risposte. Sapevo che le risposte non si potevano trovare nel mio modo di vivere, e nemmeno nel fatto di avere un bel lavoro o di trovare una bella ragazza da sposare. Non c’erano risposte nei modi o nei luoghi in cui pensavo di poterle trovare. Lo vedevo chiaramente. Arrivò a un’intensità tale che tutta la mia identità venne consumata dal fatto di essere un cercatore spirituale. Quello ero io. Avevo scambiato la mia vecchia identità con una nuova! Così facendo, pensavo di liberarmi da tutte le identità, ma non potevo vedere che l’assunto: «Io sono un cercatore spirituale» per me stava diventando un’identità più forte che mai. Era qualcos’altro a cui aderire.
Nuovi orizzonti
I: Però aveva aperto il tuo mondo. Ti aveva dato nuovi orizzonti.
J: La ricerca spirituale era stata un’enorme apertura, ma rimaneva la sensazione di essere un individuo separato. In un certo senso, penso che tale sensazione a quel punto fosse più forte che mai. Non ero più molto infelice, ma suppongo che lo fossi in modo diverso. Adesso ero infelice per non aver raggiunto l’illuminazione. Ero infelice “spiritualmente”.
I: Eri proprio molto motivato!
J: Moltissimo. Oggi le persone vengono ai miei incontri e mi fanno delle domande, ma vedi, il fatto è che io ho già chiesto tutte quelle cose! Avevo cercato! Avevo posto ogni domanda umanamente nota senza mai trovare le risposte. Beh, le trovai. Trovai un mucchio di risposte... poi però la ricerca ricominciava. Sembrava un incessante movimento verso un futuro. La costante ricerca di qualcosa che pensavo di aver perso. E adesso si vede così chiaramente: fino a quando c’era una persona separata che cercava di risvegliarsi, esisteva la separazione della persona! Ed era proprio quello ciò che non potevo scrollarmi di dosso: essere una persona separata. Non importa quanto ci provassi strenuamente, sembrava proprio che non riuscissi a sbarazzarmi di questo “io”, questo “me” separato. A un certo punto, lo vidi così chiaramente: fino a quando ci sarebbe stato un “io”, non potevo risvegliarmi. Quindi, da allora mi concentrai su come potermi sbarazzare di questo “io”. Sbarazzarmi del sé alla radice di tutto. Non riuscivo a vedere che si trattava di un sé che cercava di sbarazzarsi di se stesso. Un tale circolo vizioso di pensieri! E quel genere di circolo vizioso divenne sempre più sottile. La ricerca proseguiva in modi sempre più sottili. Appena la ricerca di un certo tipo veniva superata, cambiava forma e continuava in un modo più sottile. Era come se la mente non volesse cedere. Non volevo abbandonare l’idea che un giorno “io” alla fine mi sarei risvegliato. Tutto quello che posso dire è che, in qualche modo, nel bel mezzo di tutto, l’intera faccenda svanì; ma certamente non posso affermare che avvenne a causa di qualcosa che fui io a fare. Sforzandomi di farlo svanire, avevo semplicemente rafforzato il senso di un “io”.
I: Ma se non avessi fatto quegli sforzi, sarebbe svanito comunque?
J: Beh, questa è la domanda cruciale, vero? Si vide chiaramente che era già lì, già completo. Il risveglio, l’Unità, in qualunque modo vuoi chiamarlo, era già lì. Ma non era qualcosa che potessi avere. Non si poteva possedere o afferrare, ed era nell’atto di afferrarlo o nel tentativo di possederlo che mi sembrava di perderlo.
I: Per un cercatore spirituale è un terribile dilemma. Da un lato, non puoi ottenerlo, dall’altro non puoi smettere di provare ad afferrarlo. Devi pur sempre vivere la tua vita, seguire il tuo cuore, andare dove ti porta la vita, bisogna farlo, ed è quella l’avventura incredibile. Ed è molto ispirante incontrare qualcuno come te, che ha fatto tutto questo e poi qualcosa si è aperto, qualcosa è cambiato. E la tua infelicità, la tua depressione, sono svanite, qualunque sia la ragione.
J: Ma vedi, il bello di questo è che lo si è visto proprio in mezzo a quella disperazione.
I: Sì, lo capisco.
J: Io pensavo di dover superare la disperazione prima di potermi risvegliare. Ma quello che si vide è che era già qui, proprio nel cuore di quello che avevo considerato la mia vita, nel nucleo della disperazione. Si vide che non si trattava affatto della “mia vita”, che non importa cosa stesse succedendo, lì c’era una libertà che non poteva mai andarsene, perché non era qualcosa che io avessi. Era qualcosa che semplicemente si trovava lì e non aveva niente a che fare con “me”. È come se si sedesse lì e consentisse alla ricerca di andare in scena. Attraverso tutta la mia ricerca e la mia sofferenza c’è sempre stata soltanto l’Unità, ma io non ero capace di vederla. Eppure, anche se non la vedevo, c’era stata sempre e soltanto l’Unità! Nonostante questo, tutto il gioco della ricerca e della sofferenza si era svolto perfettamente. Si vide anche questo: non avrebbe potuto andare diversamente. La ricerca si era esaurita quando era giunto il momento. Quando essa era pronta. E non aveva niente a che fare con me. Mi ricordo quando lo compresi per la prima volta osservando una sedia. Mi trovavo nella mia camera a casa, guardavo la sedia e mi resi conto di non averla mai vista prima. Ero stato troppo occupato a cercare qualcos’altro! Qualcosa per me. Qualcosa di infinitamente di più di una sedia. Cercavo l’illuminazione, la liberazione, il risveglio. Sempre nel futuro. E così avevo perso la sedia. E avvenne qualcosa di divertente: fu come se la sedia rivelasse i suoi segreti. Nello svanire della ricerca, la sedia rivelò i suoi segreti. Era l’Unità mascherata da sedia! Non era affatto una sedia! La chiamiamo sedia così non dobbiamo vedere davvero, pensiamo: «Sì, so che è una sedia, so che è un tavolo...» Ma quando tutto questo svanisce, è come se non si potesse sapere niente di niente. Non è una sedia, è quello che c’è. Tutto diventa estremamente vivo. Eppure possiamo ancora chiamarla sedia. Possiamo continuare a utilizzare il linguaggio ordinario. Possiamo ancora fare come se conducessimo una vita molto ordinaria. Eppure, al di sotto, tutto è un miracolo. Niente è come pensavi che fosse. Nel momento in cui hai un’idea di che cosa sia, quella è soltanto un’idea. È qualcosa di troppo vivo perché si possa mai catturarlo o conoscerlo.
I: E tu hai avuto alcune di queste... esperienze. Nel tuo libro La meraviglia dell’essere, racconti che un giorno stavi camminando sotto la pioggia a Oxford e ti sei reso conto di essere tutto e di trovarti a casa. Queste situazioni si sono manifestate più spesso e sono diventate più intense?
J: La prima volta è stato tutto molto drammatico. È stato scioccante vedere che il segreto era sempre stato qui, sin dall’inizio, proprio nel cuore di una vita molto ordinaria. Che lo straordinario era sempre stato nascosto nell’ordinario, nelle cose più comuni. E quando lo si vide per la prima volta fu un dramma e una grande agitazione. Al giorno d’oggi, è diventato tutto molto ordinario. Molto lieve. È sempre lì in sottofondo. Non è più drammatico o drastico. È come se tutto fosse ricaduto all’interno di una vita molto ordinaria, almeno in superficie. A quei tempi però, c’è stato ogni genere di esperienza. Mentre camminavo sotto la pioggia a Oxford quel giorno, esisteva soltanto l’amore. Era tutto. Ogni cosa era una sua manifestazione, e non c’era niente di separato da quello che consideravo come me stesso. Allora fu qualcosa di nuovissimo e drastico, drammatico, ma tutto questo è svanito adesso, ed è molto più lieve.
I: C’è stata della paura quando sono successe queste cose?
J: Quando la persona svanisce, esiste soltanto quello che c’è, ed è tutto così chiaro, così ovvio. Non si può conoscere e non se ne può parlare, ma innegabilmente è quello. E poi la mente ritorna a intromettersi, soltanto a quel punto si inizia a parlare e a scrivere dell’evento. Si dice: «Ho avuto un’esperienza, è successo a me». In realtà tu non c’eri affatto! Non è successo a te\ È per paura che la mente ritorna e cerca di afferrare quello che è successo. Tenta di creare una struttura per potersi sentire al sicuro.
I: Te lo chiedo perché qualche anno fa ho letto il libro di Suzanne Segai, Collision with the Infinite, in cui sembra che l’autrice abbia avuto un’esperienza simile. Ma aveva anche un’ansia tremenda. L’ansia, presumibilmente, ha a che fare con la mente?
J: Sì, è sempre la mente che cerca di rimanere. Forse l’ultima tattica che utilizza è quella della paura. «C’è qualcosa da temere! Qualcosa da temere!» In realtà c’è soltanto la paura. È soltanto la paura che si manifesta. Non c’è niente di cui avere paura.
I: Lì dove sei adesso qualche volta provi ansia o paura?
J: Qui può manifestarsi qualunque cosa. Paura e ansia, no, davvero non più. Ma il punto è che qui tutto è ammesso. Rabbia, paura, gioia, tristezza... ogni cosa è ammessa. Può arrivare di tutto. È come se tutto potesse manifestarsi esattamente nel momento in cui emerge, semplicemente perché non c’è nessuno che cerchi di fare resistenza, combattere o ricavare da esso un’identità. Diciamo che se tua madre muore potrebbe esserci della tristezza. Le persone credono che la liberazione sia uno stato in cui in realtà non provi niente, un posto nel nulla in cui niente può più influenzarti o avere effetto su di te. Questa è un’enorme scemenza! È soltanto un’altra idea, un altro concetto. L’Unità ammette tutto. Come potrebbe non farlo? Essa è tutto! Quindi può esserci della tristezza. E quando c’è la tristezza, vuol dire che c’è la tristezza! Ma non c’è nessuno che cerca di farne qualcosa. Allora succede una cosa buffa: la tristezza vive la sua breve vita e poi si brucia, con i propri tempi.
I: E non ci sono strascichi?
J: Nessuna ripercussione. E qui la tristezza può essere pienamente triste! In mezzo alla tristezza si può vedere che la tristezza c’è e al contempo non esiste. Questo è un luogo in cui la mente non potrebbe mai andare. Qui c’è tristezza, ma siccome non c’è nessuno, perché qui non esiste una persona e quindi qualcuno che possa essere triste, in realtà la tristezza non esiste affatto. Perfino nel chiamarla tristezza ci deve già essere una persona che la definisce, etichettandola. È impossibile parlarne e comprendere. Qui c’è la tristezza e al contempo essa non c’è, non esiste.
I: Questa è assenza di identificazione, vero? È come se tu ti limitassi a osservare?
J: Tutto viene registrato. Senza sforzo. Pensiamo di essere noi a udire, vedere, respirare. In realtà tutto questo sta semplicemente succedendo, con facilità e senza sforzo. Esiste un’intelligenza qui che è totalmente al di là della mente. La mente non ha nessuna speranza di poterla afferrare. È ciò che fa battere il cuore. Ciò che respira.
I: Il corpo umano è un meccanismo incredibilmente intricato.
J: E la cosa più difficile da sentirsi dire è che il corpo non ha bisogno di noi. Al corpo non occorre la nostra ricerca o sofferenza o identità. Funziona senza alcuno sforzo senza di noi. Sentire di essere irrilevante, assente, è la cosa più difficile per chi rimane attaccato agli insegnamenti ricevuti e al gioco del diventare qualcuno. Eppure non si tratta di un’assenza fredda, morta e distaccata. È un’assenza estremamente viva e piena. È un’assenza piena di tutto quello che sta succedendo. In realtà, quell’assenza è presenza perfetta. Per questo parliamo dell’essere presenti, dell’essere nell’adesso. Ma quando sei totalmente presente, “tu” non ci sei. Quindi in realtà “tu” non puoi essere presente. Non è qualcosa che puoi fare. La presenza è lì in assenza di “te”.
Essere presenti
I: Quella è una delle prime cose che si impara su un percorso spirituale: essere presenti.
J: Sì, ma quello che si vede qui è che esiste soltanto la presenza. Non è qualcosa che puoi avere o al quale puoi avvicinarti. E tutto sta già accadendo all’interno di quella presenza. Perfino la ricerca e il non essere in presenza avvengono nella presenza più perfetta! La presenza sta già abbracciando tutto. Non nega niente, non resiste a niente. Ammette anche la manifestazione della sofferenza più intensa. Nell'immagine di Gesù sulla croce, vediamo che nel cuore della sofferenza più intensa conosciuta dall’uomo, proprio nel suo cuore, c’è l’eternità. L’eternità non si trova nella fuga dalla sofferenza, ma è nel cuore della sofferenza. Quindi proprio nel cuore della sofferenza più intensa si può vedere che non c’è nessuno che sta soffrendo.
I: Però sembra che ci sia moltissima sofferenza nel mondo. Di recente in televisione abbiamo visto quanta sofferenza c’è nel Myanmar e in Cina per via del ciclone e del terremoto. Le persone hanno perso la casa e i loro cari, ci sono feriti senza nessun soccorso medico. Questo ha qualche effetto su di te?
J: Sono io nel Myanmar, io nel terremoto. Io che muoio di fame in Africa. A volte le persone sentono il messaggio della non-dualità e pensano che significhi ritirarsi e non fare niente. Credono che parli dello stare in disparte con arroganza, affermando: «È solo un sogno, soltanto una storia, non c’è nessuno lì che sta soffrendo quindi a che serve fare qualcosa?» In realtà, vedendo chiaramente che non c’è nessuno che sta soffrendo, e che la sofferenza è solamente una storia, può esserci un’azione senza sforzo nell’aiutare dove c’è bisogno. Ma questo arriva da un posto in cui tu semplicemente non sai niente. Proviene dalla non-conoscenza. L’Unità riconosce se stessa nel volto del bambino che muore di fame e può muoversi per aiutarsi, non per pietà, non perché ha bisogno di essere una brava persona, tutto questo non c’entra affatto. Non deriva da una moralità prestabilita. Nel vedere che tutto è Uno, e questo è il mistero dell’universo, in qualche modo si muove per aiutarsi, perché vede solamente sé, nel bambino che muore di fame, nella vittima del terremoto. E così si muove per fare qualcosa, se è possibile. Oppure no. Vedi, potrebbe anche non muoversi per niente. Non c’è modo di saperlo. Viene da un posto di non pensiero, non da un posto in cui io soffro perché tu stai soffrendo, e provo pietà per te, e voglio essere una persona buona. No, l’universo non ha bisogno di questo. Non ha bisogno della nostra pietà. Non ha bisogno della nostra sofferenza in aggiunta a quella di altri. Quindi, vedere tutto con chiarezza significa porvi fine. Dopodiché può esserci un movimento per andare ad aiutare, oppure no.
I: E che forma potrebbe assumere quel movimento?
J: Non c’è modo di saperlo in anticipo. Nel movimento in cui hai un’idea di cosa dovresti fare per aiutare, in cui stabilisci un piano, smetti di vedere. Ad esempio, se pensi che la cosa più importante al mondo sia salvare la foresta pluviale amazzonica, e hai sempre pensato soltanto a quello, potresti perderti il fatto che quell’anziana e fragile signora che sta attraversando la strada proprio adesso ha bisogno del tuo aiuto in questo momento. Siccome hai un’idea fissa di cosa sia giusto e di cosa sia sbagliato, potrebbe sfuggirti che quell’anziana signora è più importante di tutte le foreste pluviali messe insieme, perché si trova proprio lì, davanti a te, e inoltre anche lei è te. Pertanto, non c’è una struttura in questo, uno schema, e io non lo comprendo, nessuno lo comprende, è semplicemente il mistero della creazione. In qualche modo riconosce se stesso. È Dio che si vede ovunque.
I: Quindi cosa ti motiva? Tu tieni dei discorsi, scrivi dei libri. Che cosa ti mantiene in movimento?
J: Non so davvero da dove arrivi. A essere sincero, sembra che tutto si limiti a succedere. È tutto al di là del mio controllo. Jeff non avrebbe mai potuto farlo. Se Jeff ci avesse provato, avrebbe fallito miseramente. Potrebbe sembrare che stia solo cercando di apparire intelligente, ma è davvero questa la sensazione che si prova. Sembra davvero qualcosa senza sforzo. Si limita a svilupparsi, a evolvere, e davvero non so come avvenga o perché, però sta succedendo. A quanto pare, questa espressione della non- dualità esce da questa bocca, ed è sempre una sorpresa. I: Prima stavi dicendo che eri molto timido. Hai studiato astrofisica a Cambridge in parte perché non volevi comunicare con le persone. Ed eccoti qui a parlare senza problemi!
J: [ride] Lo so! È sbalorditivo. Davvero non ho idea di come possa essere. Ai miei incontri mi siedo e parlo come sto facendo con te adesso e le parole semplicemente vengono fuori. Se potessi esprimerlo verbalmente, direi che è come se mi sedessi in disparte a osservare queste parole che escono. E qualche volta mi sorprendono. A volte sono scioccato da quello che viene fuori. C’è la sensazione che io non avrei potuto, non lo avrei detto.
I: Sentendo i veri geni del nostro tempo, gli Einstein di questo mondo, dicono tutti di non aver creato le loro idee, sono state le idee ad arrivare da loro, semplicemente dal nulla.
J: Tutto emerge dal nulla.
Sei come un veicolo
J: Ma questo non ha niente a che fare con me. Tutto sembra manifestarsi senza sforzo. Parla di se stesso! Non c’è sforzo nel parlarne perché non c’è niente di cui parlare! Quello di cui stiamo parlando qui è il niente. Non è un oggetto. Non si può individuare. Nel momento in cui pronunciamo la prima parola al riguardo, siamo già nel sogno. E una volta che lo si vede con chiarezza, una volta visto che non se ne può parlare, le parole semplicemente tornano a emergere liberamene, io mi siedo in disparte e osservo le parole uscire, e non so quale sarà la prossima. Molti artisti ne parlano: quando fluiscono, quando sono davvero dentro a quello che stanno facendo, l’arte arriva semplicemente dal nulla, si fa da sola, emerge dal niente. È come se ci trovassimo al bivio tra creazione e distruzione e tutto accadesse adesso. Questa è la creazione e la distruzione e non si può conoscere. Ed è qui la sua bellezza: se si potesse comprendere, sarebbe un oggetto. Sarebbe un concetto. Questa però è la pura non-conoscenza. E in assenza della ricerca, il mistero si rivela, non soltanto nel discorso ma in ogni cosa. In questi fiori, in questo pavimento, in questa sedia, nel tavolo. È tutto. Ogni cosa è il mistero. È qualcosa che esce dal niente. Il fatto stesso che stia accadendo è il miracolo.
I: Da un punto di vista matematico, se il nostro pianeta fosse anche solo infinitesimamente diverso da come è, non potrebbe ospitare la vita umana. E questa è una delle cose che dimentichiamo: il delicato equilibrio del tutto. È questa la sensazione che ricevo da te: tutto semplicemente accade, non sappiamo perché, ma e così. E un qualche tipo di cambiamento avvenne in te tanti anni fa, non accadde molto, ma fu significativo. Riguardò l’accorgersi di quanto tutto sia intricato, delicato e sottile.
J: E prezioso.
I: Sì.
J: E di quanto ci allontaniamo da questo nella nostra ricerca, nel tentativo di essere qualcuno. Il valore estremamente prezioso proprio al cuore della vita è sempre stato lì, ma ci sfugge. Siamo troppo occupati a cercare qualcosa. Davvero non mi è successo niente. Niente è cambiato. C’è sempre una vita ordinaria che viene vissuta. Solo che non c’è nessuno che vive quella vita. La vita viene vissuta. È il vivere in se stesso. È l’Unità che interpreta se stessa sotto forma di una persona apparentemente separata. Essenzialmente non c’è nessuna differenza tra me e te. È l’Unità che “guarda” attraverso questi occhi ed è sempre l’Unità a “guardare” attraverso i tuoi. E l’Unità non ha preferenze: è ugualmente “felice” nel guardare attraverso questi occhi o nel sentire attraverso queste orecchie e nel farlo attraverso quegli occhi e quelle orecchie. L’unica cosa che all’apparenza ci separa è la storia di “me”. Una storia così fragile da poter svanire, lasciando solamente la presenza. È il miracolo nel cuore delle cose, proprio in mezzo alla confusione della vita umana. E quando si vede è scioccante perché distrugge tutta la ricerca, lasciandoti qui, totalmente presente e totalmente assente.
I: E le persone si perdono così tanto. In un certo senso è molto triste, e in un altro è meraviglioso.
J: Ma non potrebbe essere davvero in un altro modo. Forse la sofferenza e la ricerca sono qui per mostrarcelo. Forse niente è fuori luogo, e già dal Big Beng con tutto il suo valore e la sua fragilità, niente è mai stato fuori posto. E ci lascia qui. Semplicemente qui.
I: È un modo fantastico per concludere, Jeff. Ho davvero apprezzato la tua visita.
Data di Pubblicazione: 20 luglio 2018