SELF-HELP E PSICOLOGIA   |   Tempo di Lettura: 5 min

Come capire cosa fare da grande

Cosa fare da grande

Anteprima del libro "Diventa Chi Sei" di Emilie Wapnick

Benvenuti nella tribù

"Emilie"?.

Alzai lo sguardo dal banco dei salumi. Davanti a me c'era l'insegnante di teatro con cui avevo fatto un corso quand'ero ragazza. Non la vedevo da anni. Ci abbracciammo e, raccontandoci un po’ di cose, mi disse come andava la sua scuola.

Poi mi chiese: "Tu, invece, che fai?"

"Il prossimo autunno comincerò a studiare Legge", risposi entusiasta (l'anno prima avevo seguito un corso introduttivo di giurisprudenza ed ero rimasta come affascinata da cose come contratti e diritto di proprietà, che mi avevano mostrato il mondo da una prospettiva compieta-mente nuova).

Lei ebbe una reazione che non mi aspettavo. Fece una smorfia buffa e inclinò la testa.

"Mmm... pensavo che saresti diventata una regista".

Il cuore mi finì nei calzini. Eccolo lì: il mio dramma racchiuso in sei parole. Pensavo che saresti diventata una regista.

L'episodio risale a una decina di anni fa. lo ne avevo 23 e cominciavo pian piano a farmi un'idea di me stessa. Notavo la mia tendenza a tuffarmi continuamente in nuovi progetti, a lasciarmi assorbire totalmente da essi, divorando voracemente tutte le informazioni che riuscivo a raccogliere per realizzarli. Dopo qualche mese (o anno), però, incredibilmente l'interesse tendeva a svanire e un altro progetto, ugualmente esaltante, si affacciava al mio orizzonte. La dinamica si ripeteva. Raggiunto un discreto livello di competenza, subentrava, ogni volta, la noia. Ovviamente, a quel punto la gente, osservandomi, puntualmente mi diceva: "Però, Emilie, ci sai fare! Hai trovato la tua strada". Altro che strada! Il senso di colpa, piuttosto; la vergogna.

Questo modo di essere - appassionarsi a qualcosa, tuffarsi nel suo mondo, carpirne i segreti e, dopo un po', lasciarla andare - mi dava un'ansia tremenda. Per giunta, convinta che questa tendenza riguardasse solo me, mi sentivo profondamente sola. I miei coetanei non avevano certo capito tutto di loro stessi, ma si muovevano lungo una traiettoria lineare, orientata verso un'unica direzione, o così mi sembrava. Il mio percorso, invece, era un caotico zig-zag: musica, arte, web design, regia, Legge...

Sentire la mia ex insegnante di teatro pronunciare quella frase con evidente imbarazzo e delusione - "PENSAVO CHE SARESTI DIVENTATA UNA REGISTA" - fu come sbattere la testa contro una Verità da cui ero sempre fuggita: non ero capace di dedicarmi a una sola cosa per volta. Questa consapevolezza mi donò un momento di lucidità assoluta, e non tanto piacevole. Mi feci tante domande: troverò mai la mia strada? Ma esiste davvero una strada? Se non ho vocazione per quello che ho fatto finora, la prossima volta sarà quella giusta? Sarò mai soddisfatta di quel che faccio per più di qualche anno o, alla fine, ogni interesse perderà fascino? La domanda più insidiosa scaturì di conseguenza: se per essere felice devo andare di fiore in fiore, riuscirò mai a combinare qualcosa? Temevo di essere geneticamente incapace di concentrarmi su un obiettivo e portarlo a termine. C'era qualcosa di sbagliato in me, ne ero certa.

Qualcuno dirà: pensieri frivoli di una ragazza privilegiata, magari dovuti all'età o alla mancanza di maturità, ma "Che ci faccio qui?" è una domanda che tutti gli esseri umani si pongono. Vivere sulla propria pelle questo genere di confusione - che non riguarda solo la carriera, ma l'identità — mi sembra tutto fuorché frivolo. È paralizzante.

Cosa vuoi fare da grande?

Ricordi quand'eri piccolo e ti chiedevano cosa volevi fare da grande? Come ti sentivi? Se penso ai miei cinque o sei anni, la risposta esatta non mi sovviene. Ricordo, però, quello che accadeva subito dopo: la faccia dell'adulto che mi aveva fatto la domanda assumeva un'aria di orgoglio e approvazione. Dichiarare un'identità fa stare bene. Il mondo (almeno, il mio piccolo mondo) approvava.

Poi, quando cresciamo, qualcosa succede: da un divertente esercizio di immaginazione l'interrogativo "cosa vuoi fare da grande" diventa serio e ci trasmette sempre più ansia. Cominciamo a sentire la pressione e l'obbligo di dargli una risposta concreta, che abbia un peso e delle conseguenze cui saremo vincolati. È come se il mondo attorno a noi provasse a individuare che tipo di persona stiamo diventando e noi volessimo la stessa approvazione che ci assicuravano da piccoli, quando eravamo convinti che avremmo fatto il pagliaccio da circo o il pompiere.

Vogliamo tutto e rifiutiamo le etichette, cercando di evitare le scelte sbagliate. Mentre il mondo attorno a noi ci sprona a "scegliere una specializzazione", a "puntare sulle nostre forze" e a "trovare una nicchia tutta nostra", noi poveri mortali ci arrovelliamo per capire chi siamo e che cosa potrà dare significato alla nostra vita. Siamo vittime di pressioni esterne e interne, che s'intrecciano con l'inquietudine esistenziale e la confusione identitaria. E il caos non si limita all'adolescenza. Per molti di noi, dura per tutta la vita.

Il mito dell’unica vera vocazione

La domanda "cosa vuoi fare..." riesce a seminare il panico nei cuori e nelle menti di tutti noi perché sottintende che dovremmo essere una sola cosa. Se a cinque anni snoccioli una lista di dieci future versioni diverse di te stesso, probabilmente l'interlocutore adulto ribatterà: "Allora? Che cosa scegli? Non puoi mica fare tutte queste cose!". Senza dubbio, c'è scarsa tolleranza per gli adolescenti che rispondono: "Voglio essere biologo marino, disegnatore di tessuti e giornalista!". Il sotto-testo è sottile, perché la domanda cosa vuoi fare da grande? nasconde qualcos'altro, e si può tradurre così: in questa vita puoi avere solo un'identità, qual è la tua? Non è terribile? Detta così, è normale che il risultato sia puro stress.

Questo testo è estratto dal libro "Diventa Chi Sei".

Data di Pubblicazione: 7 marzo 2018

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