SELF-HELP E PSICOLOGIA   |   Tempo di Lettura: 9 min

Come individuare le cose realmente importanti per cui vale la pena vivere.

Cos’è davvero importante per vivere veramente?

Perché non ci si pone più spesso la domanda: cos’è davvero importante? Scopri la risposta leggendo l'anteprima del libro di Alexandra Reinwarth.

Il giorno dopo essere morta mi sveglio e sono felice

Sento il vocìo di L. e del bambino provenire dalla cucina e aroma di caffè nell’aria. Non è un giorno particolare, un semplice venerdì. Fuori è grigio e pioviggina, e io sento il piccolo piagnucolare: “Ma io VOGLIO la Nutella...!”.

Normalmente a questo punto caccerei di nuovo la testa sotto il piumino, un po’ infastidita dai capricci del bambino e di cattivo umore per il tempo schifoso.

Ma non è un giorno come gli altri, perché ieri era il mio giorno di morte e oggi, per fortuna, mi sono svegliata di nuovo. Ho ancora un giorno. E poi un altro e un altro ancora, e così via - sempre che tutto vada bene. Vedrò il bambino diventare grande. Vivrò un’altra primavera. Posso abbracciare le persone che amo e, se voglio, adottare altri cento cani, aprire un negozio di fiori, fare un viaggio in Messico e imparare a preparare quei tortini deliziosi. Oppure potrei imparare il linguaggio dei sordomuti. Posso fare tutto questo perché ho l’enorme fortuna di essere ancora qui. E la stessa fortuna ce l’avete anche voi. Come faccio a starmene distesa a letto e a sentirmi così incredibilmente felice in un venerdì tanto grigio e piovoso, è quello che intendo raccontarvi in questo libro. Ha a che fare con un esperimento immaginario partito circa un anno fa, nel modo seguente.

Come tutto è iniziato

Ci sono settimane davvero allucinanti. Il bambino non ascolta e ti fa perdere un sacco di tempo, con il lavoro non si riesce a tenere il passo, tuo marito ha dimenticato di pagare la multa e ora è arrivata la cartella esattoriale con la mora - e come se non bastasse, si è rotta pure la stampante. Già la seconda, quest’anno. Ah! Pure il computer è andato in tilt e l’ultimo back up risale ovviamente al 500 a.C.

Ci sono settimane del genere. Per quanto mi riguarda, pure troppe.

“Finalmente è venerdì!” esclamo spesso, strafelice che sia finalmente arrivato il weekend. La settimana ce la siamo lasciata alle spalle, possiamo congratularci con noi stessi, fare un bel segno di spunta e brindare assieme a colleghe e colleghi altrettanto felici con il prosecco del venerdì. E sia lodato in eterno chi ha introdotto questa usanza negli uffici qui in Germania. È come se ci facessimo tutti quanti i complimenti per avere superato la settimana. Un’altra al termine della quale, per due giorni, potremo finalmente fare quello che ci pare (i colleghi più giovani) o sbrigare tutte le incombenze accumulate nel corso della settimana (quelli con famiglia). Il lunedì mattina, poi, ci si ritroverà di nuovo lì, dopo essere quasi annegati nella doccia da quanto si è sbadigliato, e aspetteremo con ansia l’ora di tornare a casa, il prossimo fine settimana, la prossima vacanza o - i più disperati - persino la pensione.

La routine quotidiana può davvero logorare un individuo. Manca solo che ci chiedano: “Ricordi quando non vedevamo l’ora di diventare grandi per fare tutte quelle cose interessanti? A che punto siamo?” ed eccoci a rimuginare su dove siano finiti i grandi sogni e gli ambiziosi traguardi, e su come mai ci ritroviamo ora in questo vortice fatto di quotidianità, abitudini e totale mediocrità. Eppure un tempo avevamo scritto convintissimi Carpe diem nel nostro album di poesie. E sta ancora scritto là, ma solo “in linea di principio”, perché che si applichi tale insegnamento nella vita reale non si può proprio dire. È già tanto riuscire ad arrabattarsi in un modo o nell’altro, godersi piccoli piaceri come una domenica a letto, un sorriso, un buon pranzo e un disegno del proprio figlio. Ma poi ecco che dalla radio si sente Udo Jürgens cantare: “Ich ivar noch niemals in New York, ich war noch niemals auf Hawaii, ging nie durch San Francisco in zerriss’nen Jeans...” e mentre fischietto assieme a lui, penso: nemmeno io. Io al massimo sono stata a Creta, e l’aspetto più avventuroso di quella vacanza è stato il non avere prenotato in anticipo l’albergo e aver dovuto cercarne uno sul posto. Il cosiddetto “battito della vita” si è ridotto a un fruscio costante, una dolce ninna nanna alla quale mi abbandono.

Sul lavoro...

Di questa vita mediocre, limitata e improntata sulla sicurezza, sono ovviamente responsabile io in prima persona. Sono io ad avere preso le decisioni alla base della stessa - decisioni che in buona parte si sono anche rivelate ottime. Per esempio il marito (per lo più, almeno) e il bambino. Di questo posso ritenermi soddisfatta, visto che per molti l’unica ragione per non tornare sui propri passi è il non riuscire nemmeno a immaginarsi una vita senza il partner.

Per quanto riguarda le decisioni sul lavoro... insomma. In molti casi mi sono lasciata consigliare dalla paura: meglio non rischiare, meglio non rinunciare alle sicurezze, meglio evitare sfide che si potrebbero perdere. E anche per il resto, troppo spesso non faccio quello che voglio, ma quanto risulta più logico e sensato. A volte è già un’impresa scoprire effettivamente cosa si vuole davvero.

Mentre espongo tutto questo all’amica Jana davanti a un caffelatte al Café Einstein e blatero sulla vita e su come si dovrebbe abbandonare tutto il superfluo per concentrarsi su quello che davvero conta, con un gesto della mano lei liquida in un attimo le mie chiacchiere. “Tu avrai pure i tuoi problemi,” dice scuotendo la testa, “ma io ieri ho incontrato Nadja” e abbassa lo sguardo inspirando profondamente. Nadja, sua tutor ai tempi dell’università, era poi diventata una cara amica. “Te l’ho detto, vero, che le hanno trovato qualcosa al seno?” E ancor prima di scorgere le lacrime nei suoi occhi, so cosa seguirà. “No,” commento io scuotendo la testa e prendendole la mano. “Sì,” conferma lei tirando su col naso, e ci guardiamo. Il cancro di Nadja è ricomparso. Lo aveva già sconfitto, ma ora, anni dopo, è ancora lì.

La sera abbraccio più a lungo e più forte del solito il mio uomo un po’ confuso e il bambino recalcitrante (“Heeey!”). Siamo tutti e tre in buona salute e siamo insieme - ecco quello che conta davvero. Tutto il resto è secondario. “Quanto sono felice di avervi,” sussurro loro all’orecchio, stringendoli ancora una volta (“Heeeeeyyyyy!”). “Vi voglio bene,” lo dico troppo poco.

Ovviamente sappiamo tutti che, prima o poi, finiremo nella fossa - non siamo imbecilli. Nella vita di ogni giorno, però, releghiamo tale consapevolezza ben in fondo al cervello, dove possiamo ritrovarla se necessario, ma senza bisogno di inciamparci continuamente. E poi ci comportiamo come se fossimo immortali. Finché un’amica si ammala o un collega ha un incidente, e all’improvviso ce ne ricordiamo bene: non siamo immortali.

Quando la sera stessa racconto a L. della diagnosi di Nadja, ricordiamo una serata insieme a casa di Jana in cui Nadja si era lamentata di riuscire a malapena a vedere i figli, per il tanto lavoro che aveva, e di non potere fare assolutamente niente per cambiare la situazione, dato che lo stipendio del compagno non bastava per l’ipoteca sulla casa. “Se solo avesse trascorso più tempo con i bambini,” mi scappa di dire, non per fare quella che ne sa di più, ma perché mi dispiace davvero.

“E l’ipoteca?” chiede L. “Fanculo la casa,” ribadisco io. E mi viene in mente anche il viaggio intorno al mondo che pianificava fin dai tempi dell’università e che non è riuscita mai a fare perché non le hanno concesso l’aspettativa.

E che ha sempre voluto un cane, che sognava di aprire un hotel da qualche parte al Sud e che segretamente sperava che il compagno, padre dei suoi figli, prima o poi le chiedesse di sposarlo.

“Perché non gliel’ha mai detto?” chiede L. guardandomi stupito, e di preciso io non so cosa rispondere. “Probabilmente preferiva fosse lui a chiederglielo - è più romantico che proporlo.” Per un attimo l’atmosfera si fa un po’ strana. L. si sta certamente chiedendo se magari desideri anch’io una cosa del genere. Spostiamo gli sguardi imbarazzati da un punto all’altro del tavolo.

“Anche tu una volta avevi in mente di aprire un hotel da qualche parte al Sud, ricordi?” Fortunatamente L. cambia discorso e io sono costretta a sorridere perché sì, è vero, in effetti una volta lo volevo fare. “Lo vuoi ancora?” mi chiede.

“Non riesco a immaginarmi niente di più bello,” rispondo di slancio. Se qualcuno si sta chiedendo come mai non me ne stia allungata da tempo su una sdraio davanti al mio bed & breakfast sorseggiando un Campari Orange, la risposta è: ho un lavoro, ho L. e il bambino e al solo pensiero di cosa comporterebbe un progetto del genere mi sento già sudare la fronte. Allontano l’immagine e chiedo invece a L.: “Cosa faresti, tu, se sapessi che non hai più molto da vivere?” perché nel giro di un secondo divento adulta. “Di certo non me la prenderei per un paio di multe,” risponde lui cercando di svicolare.

Ma poi riprendiamo seriamente il discorso, perché in effetti già il pensiero di dover compiere il grande passo - come prima o poi accadrà - è di incredibile aiuto per correggere un paio di cose. E se invece di immaginare tale evento in un momento ben lontano, un futuro non meglio definito, ce lo teniamo sempre ben presente, ci rendiamo davvero conto di quanto sia importante sfruttare il tempo e le energie che abbiamo a disposizione.

Riassumendo: sapendo di avere ancora solo qualche mese da vivere, prenderei le stesse decisioni? Mi arrabbierei per gli stessi motivi? Farei quello che faccio oggi? Con chi trascorrerei il mio tempo? E come? Cosa vorrei continuare assolutamente a fare e cosa no, in quanto irrilevante? Sarei felice, alla fine, di avere avuto sempre la casa pulita e rispettato tutti i termini di consegna? Perché non ci si pone più spesso la domanda: cos’è davvero importante?

È incredibile come ci si dimentichi in un attimo del tutto. E di come si finisca un’altra volta ad affannarsi settimana dopo settimana - tanto che alla fine si vorrebbe davvero averne qualcuna in più.

Data di Pubblicazione: 15 luglio 2019

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