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Come l'email ci rende infelici

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Scopri come il flusso continuo di email ci renda infelici e impara come lenire questo forte stress, leggendo l'anteprima del nuovo libro di Cal Newport.

Come l'email ci rende infelici

Un'epidemia di sofferenza silenziosa

All’inizio del 2017 in Francia è entrata in vigore una nuova legge che mira a tutelare il “diritto alla disconnessione”. Secondo la legge, le aziende francesi con cinquanta o più impiegati hanno l'obbligo di negoziare norme specifiche riguardo alle email in orario extra lavorativo, al fine di ridurre notevolmente il tempo che, di sera o nel fine settimana, i lavoratori dedicano alla posta elettronica. Myriam El Khomri, ministra del lavoro, ha motivato la nuova legge, in parte, spiegando che è un passo necessario per ridurre eventualità di burn out. Indipendentemente dal fatto che si ritenga o meno che tali attività imprenditoriali debbano essere soggette a regolamentazione governativa, il fatto che i francesi abbiano avvertito il bisogno di approvare tale legge rimanda, in primo luogo, a un problema di carattere più generale che travalica i confini di un particolare Stato: l'email ci sta rendendo infelici.

Possiamo trovare argomentazioni concrete per questa affermazione se esaminiamo gli studi e le ricerche pertinenti. In un articolo del 2016, scritto, tra gli altri, da Gloria Mark, un team di ricercatori ha collegato quaranta lavoratori intellettuali ad alcuni cardiofrequenzimetri wireless, per dodici giorni lavorativi. I ricercatori hanno registrato la variabilità della frequenza cardiaca dei soggetti, una tecnica comune per misurare lo stress mentale. Hanno inoltre monitorato l’uso del computer da parte dei lavoratori, mettendo così a confronto i momenti in cui controllavano la posta elettronica con il livello di stress. Ciò che hanno scoperto non sorprenderebbe i francesi: “Più tempo in una [determinata] ora trascorriamo utilizzando la posta elettronica, maggiore è lo stress rilevato in quell’ora.”

In uno studio di follow up condotto nel 2019, un team, diretto ancora una volta dalla dottoressa Mark, ha posizionato una telecamera termica sotto il monitor del computer di ogni soggetto, per misurare il calore rivelatore che infiamma il viso ed è indice di un disagio psicologico. I ricercatori hanno scoperto che dedicare alcuni momenti della giornata a controllare le email ricevute — una “soluzione” spesso suggerita come tecnica per migliorare l’esperienza dell'email — non necessariamente è una panacea. In effetti, chi ha un punteggio elevato nella scala del tratto di personalità nevrotica accusa più stress se dedica alcuni momenti specifici al controllo delle email in entrata (forse perché negli altri momenti si preoccupa pensando a tutti i messaggi urgenti che sta ignorando).

I ricercatori hanno scoperto inoltre che, quando sono sotto pressione, le persone rispondono alle email più velocemente, ma non meglio: un programma di analisi del testo, chiamato “Linguistic Inquiry and Word Count” (Indagine linguistica e conteggio delle parole), rivela che è più probabile che le email scritte in situazioni di stress e ansia contengano parole che esprimono rabbia. “Per quanto l'utilizzo dell'email sicuramente permetta alle persone di comunicare risparmiando tempo e fatica”, concludono gli autori dello studio del 2016, “presenta anche un costo.” La raccomandazione dei ricercatori? “Suggeriamo alle aziende di compiere uno sforzo coordinato per ridurre il traffico di posta elettronica.

Altri ricercatori hanno riscontrato una correlazione simile tra email e infelicità. Uno studio del 2019, pubblicato su "The Insernational Archives of Occupational and Environmental Health", ha esaminato l'andamento a lungo termine delle condizioni di salute di un gruppo di quasi cinquemila lavoratori svedesi, secondo quanto dichiarato dai lavoratori stessi. I ricercatori hanno scoperto che l'esposizione ripetuta a “richieste elevate della tecnologia dell’informazione e della comunicazione” (traduzione: la necessità di essere costantemente connessi) si associava a livelli di salute “subottimali”. La tendenza è emersa anche dopo che i ricercatori avevano modificato lo studio per tenere conto di parametri che avrebbero potuto falsare i risultati, come l’età, il sesso, la condizione socioeconomica, il comportamento salutare, l'indice di massa corporea, la fatica dovuta al lavoro e la rete sociale dei soggetti.

 

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Un altro modo per misurare i danni provocati dall’email consiste nell’osservare che cosa accade se limitiamo la presenza di questo strumento. È esattamente ciò che ha indagato la professoressa Leslie Perlow della Harvard Business School, in un esperimento condotto in collaborazione con i consulenti della multinazionale di consulenza strategica, Boston Consulting Group. Perlow ha introdotto una tecnica chiamata Predictable Time Off (PTO, “periodo di pausa prestabilito”). Ai membri del team erano comunicati, ogni settimana, orari fissi in cui potevano disconnettersi completamente dall’email e dal cellulare (con il pieno sostegno dei colleghi). Il cambiamento apportato ha reso i consulenti molto più felici. Prima che fosse introdotta la tecnica del PTO, solo il 27 per cento dei consulenti riferiva di sentirsi entusiasta all’idea di iniziare a lavorare la mattina.

Dopo aver ridotto gli scambi comunicativi, la percentuale è balzata a oltre il 50 per cento. Allo stesso modo, la percentuale di consulenti soddisfatti del proprio lavoro è passata da meno del 50 per cento a oltre il 70 per cento. Contrariamente alle aspettative, la lieve riduzione della reperibilità non ha fatto sentire i consulenti meno produttivi; ha invece aumentato di oltre venti punti la percentuale di chi si percepiva “efficiente ed efficace”. Come riporta nel suo libro del 2012, "Sleeping with Your Smartphone" (Dormire con lo smartphone), che descrive lo studio, Perlow è rimasta molto perplessa quando ha visto per la prima volta i risultati e si è chiesta per quali motivi inizialmente si sia deciso di aderire a una cultura della connessione continua.

Ovviamente non ci occorrono dati per cogliere qualcosa che molti di noi sentono intuitivamente. Come accennato nel capitolo precedente, ho condotto un'indagine che ha coinvolto oltre 1500 dei miei lettori, per capire meglio la loro relazione con l'email. Sono rimasto sorpreso dalle parole forti e cariche di emotività che hanno utilizzato quando ho chiesto di descrivere i sentimenti che provavano nei confronti di questa tecnologia:

  • “È lenta ed estremamente frustrante. [...] Spesso sento che l'email è impersonale e costituisce uno spreco di tempo.”
  • “Detesto non poter mai essere ‘spento’.”
  • “Crea ansia.”
  • “Sono stremato, cerco solo di non restare indietro.”
  • “A causa dell’email oggi sono molto più isolato durante la giornata lavorativa e non mi piace.”
  • “Ti senti perseguitato quando hai un sacco di incombenze.”
  • “Sento un bisogno quasi incontrollabile di interrompere ciò che sto facendo per controllare l'email. [...] Mi rende molto depresso, ansioso e frustrato.”

Sospetto che le parole delle persone sarebbero molto più neutre se chiedessimo loro un parere su altre tecnologie che utilizzano sul posto di lavoro come, per esempio, il programma di video-scrittura o la macchinetta del caffè. C'è qualcosa che ci turba in maniera peculiare, nella messaggistica digitale. Il critico John Freeman riassume efficacemente il nostro rapporto con la posta elettronica quando osserva che con l'email “orientiamo l'attenzione meramente alla prestazione, diventiamo irritabili e incapaci di ascoltare, mentre cerchiamo di stare al passo con il computer.” Anche il teorico dei media Douglas Rushkoff mette a fuoco un punto fondamentale, quando si rammarica: “Facciamo a gara a chi risponde a più email [...], come se lavorare di più al computer significasse qualcosa di buono. [...] Invece di lavorare con la macchina, come facevamo prima, dobbiamo diventare la macchina.” Dipendiamo dall’email, ma la detestiamo anche un po'.

È una realtà importante, per ragioni pratiche. Se gli impiegati sono infelici, le prestazioni peggiorano. Sono anche più esposti, come aveva avvertito la ministra del lavoro francese, al burn out. E così aumentano i costi dell’assistenza sanitaria e si verifica un gravoso turnover di dipendenti. Un esempio perfetto: Leslie Perlow ha scoperto che, con l'introduzione del periodo di pausa prestabilito dalla posta elettronica, era aumentata la percentuale di dipendenti che desiderava rimanere in azienda “a lungo termine”, dal 40 per cento al 58 per cento. I dipendenti infelici, in altre parole, sono un fattore negativo per il bilancio aziendale.

La realtà che l’email ci rende infelici, tuttavia, ha un'implicazione più filosofica che pragmatica. La multinazionale di consulenza strategica McKinsey stima che in tutto il mondo ci siano oltre 230 milioni di lavoratori intellettuali, che comprendono, secondo la Federal Reserve, più di un terzo della forza lavoro degli Stati Uniti. Se una popolazione tanto ampia è infelice a causa di un culto forzato dell’email e dei canali di messaggistica, si crea una situazione che contribuisce ad aumentare notevolmente l’infelicità del pianeta! In una prospettiva utilitaristica, non possiamo ignorare una sofferenza tanto diffusa, specialmente se siamo in grado di fare qualcosa per alleviarla.

 

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L'email confonde i nostri antichi istinti sociali

I Mbendjele BaYaka sono un popolo di cacciatori-raccoglitori che vivono in tribù sparse tra le foreste della Repubblica del Congo e della Repubblica centroafricana. Vivono in villaggi accampamenti chiamati “langos”, che accolgono solitamente tra i dieci e i sessanta individui. Ogni famiglia vive nel villaggio, abitando una propria capanna, chiamata “fuma”. I Mbendijele BaYaka non hanno la tecnologia necessaria per conservare gli alimenti, per cui la condivisione del cibo è un'attività cruciale per la sopravvivenza della tribù. Di conseguenza, come molte altre tribù di cacciatori-raccoglitori, attribuiscono un valore fondamentale alla collaborazione.

In una prospettiva scientifica, i Mbendjele BaYaka sono interessanti perché ci aiutano a comprendere le dinamiche sociali delle tribù dei cacciatori-raccoglitori. Sono dinamiche importanti, perché l'umanità si è organizzata, con assetti simili, per tutto il periodo antecedente alla rivoluzione neolitica. Possiamo quindi sperare di imparare, dallo studio di queste tribù (con alcune cautele), qualcosa su come gli individui della nostra specie sono predisposti dalle spinte evolutive a interagire gli uni con gli altri. E così potremo forse migliorare la comprensione dei motivi per cui l’email è una fonte di disagio per la nostra mente antica.

In uno studio del 2016, pubblicato sulla rivista "Nature Scientific Reports", un gruppo di ricercatori del London University College ha studiato tre diversi villaggi dei Mbendjele BaYaka, nella regione di Sangha e Likouala, nella foresta del parco nazionale Ndoki, in Congo. L'obiettivo dei ricercatori era misurare la “ricchezza relazionale” di ogni individuo, un'espressione tecnica con cui potremmo definire il livello di popolarità all’interno di una tribù.

Per farlo hanno applicato una tecnica consolidata chiamata “gioco del regalo del bastoncino al miele”, in cui ai partecipanti vengono dati tre bastoncini al miele — un cibo molto apprezzato — con la richiesta di distribuirli tra gli altri membri della tribù. Misurando quanti bastoncini al miele riceve ogni membro della tribù, i ricercatori possono misurare, in maniera approssimativa, la posizione che quella persona riveste all’interno della tribù.

I ricercatori hanno scoperto differenze impressionanti nella distribuzione della ricchezza relazionale, perché alcuni membri della tribù avevano ricevuto molti più bastoncini al miele rispetto ad altri. Aspetto più importante, le differenze erano strettamente correlate a fattori come l’indice di massa corporea e la fertilità femminile che, in una tribù di cacciatori-raccoglitori, giocano un ruolo fondamentale nel determinare se una persona riuscirà con successo a trasmettere i propri geni alla generazione successiva.

Molti studi precedenti hanno documentato ciò che i ricercatori definiscono “meccanismi di rinforzo psicologico e fisiologico che incoraggiano la formazione e il mantenimento delle relazioni sociali”. Questo lavoro contribuisce a spiegare perché questi meccanismi si sono evoluti: nella configurazione sociale che ha definito le società umane del Paleolitico, la popolarità aumentava le possibilità che la stirpe sopravvivesse. Un passo naturale consiste nel domandarsi come le persone raggiungessero la popolarità in una tribù di cacciatori-raccoglitori.

Uno studio condotto tra i Mbendjele BaYaka, pubblicato nel 2017 sulla stessa rivista, fa chiarezza riguardo alla domanda. Nello studio i ricercatori hanno convinto 132 adulti di un villaggio BaYaka a indossare piccoli sensori wireless intorno al collo per una settimana. Gli strumenti hanno registrato le interazioni uno-a-uno tra i soggetti, inviando segnali di breve raggio, ogni due minuti, che segnalavano chi fosse vicino a chi. I ricercatori hanno poi usato i dati registrati per creare un grafo sociale. La metodologia è semplice.

 

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Immaginate di cominciare appendendo un grande foglio di carta bianco al muro. Prima di tutto si disegna un cerchio per ogni soggetto che indossa un sensore, distribuendo i cerchi su tutto il foglio. Quindi, per ogni interazione registrata, si traccia una linea che collega due cerchi e rappresenta appunto l’interazione. Se esiste già una linea che collega due cerchi, in particolare, è possibile ripassare la linea, in modo da renderla più spessa. Una volta disegnate tutte le interazioni, ci troviamo con una massa disordinata di spaghetti di vario spessore che collegano i cerchi sulla carta.

Da alcuni cerchi, che sembrano snodi del traffico, partono linee spesse in tutte le direzioni, mentre altri sono collegati solo da poche linee; alcuni cerchi sono collegati tra loro solo da qualche linea, mentre le connessioni tra altri cerchi sono profonde.

A un normale osservatore i grafici sociali sembrano un groviglio disordinato. Per gli scienziati del promettente settore accademico che adesso è noto come scienza delle reti, questi grafici possono fornire informazioni molto interessanti sulle dinamiche sociali dei gruppi che descrivono, una volta codificati in bit digitali e inseriti all’interno di un computer perché siano analizzati tramite algoritmi. Ed è proprio per questo che gli autori dello studio di ricerca del 2017 si sono impegnati a convincere gli Mbendjele BaYaka a indossare i sensori wireless.

I ricercatori hanno scoperto che, studiando il grafo sociale generato dai dati raccolti, erano in grado di prevedere con precisione il numero di discendenti attualmente viventi delle madri BaYaka coinvolte nello studio. Più articolati sono i contatti in rete, maggiore è il successo riproduttivo. Come rivelato dallo studio precedente, in una tribù di cacciatori-raccoglitori la popolarità fa la differenza per quanto riguarda l'idoneità genetica, ossia il successo riproduttivo di un individuo all’interno di un gruppo. I membri della tribù più popolari hanno più cibo e sostegno e diventano quindi più sani e più predisposti ad avere figli sani. Il nuovo studio ha scoperto che la popolarità di ogni individuo poteva essere colta tenendo traccia delle conversazioni individuali: chi gestiva in maniera adeguata le interazioni dirette prosperava, mentre per chi non aveva una rete adeguata di relazioni era più difficile trasmettere i propri geni.

Le conversazioni vis-a-vis sono fondamentali per i Mbendjele BaYaka. In un'ottica ispirata all’evoluzionismo è un passo breve aspettarsi che ci sia in noi umani una predisposizione a considerare quel tipo di socializzazione come una necessità psicologica fondamentale: se trascuriamo le interazioni con chi ci circonda, le persone offriranno i loro metaforici bastoncini al miele a qualcun altro. Sembra un'osservazione di poco conto, in parte perché descrive qualcosa che sentiamo già molto chiaramente.

L’istinto alla socialità è una delle spinte motivazionali più forti per gli esseri umani. In effetti, come spiega lo psicologo Matthew Lieberman nel suo libro del 2013, "Social: Why Our Brains Are Wired to Connect" ("Socialità. Perché il cervello umano è predisposto alle relazioni"), le reti neurali correlate alla socialità sono collegate ai percorsi neurali predisposti alla trasmissione delle sensazioni dolorose ed è per questa ragione che sperimentiamo un dolore intenso quando una persona a noi vicina muore, oppure una desolazione totale quando per troppo tempo rimaniamo isolati dalle interazioni umane. “Questi adattamenti sociali sono fondamentali e ci rendono la specie di maggior successo sulla Terra” scrive Lieberman.

Molto tempo prima che gli scienziati indagassero le strutture che sono alla base della socialità, eravamo già piuttosto consapevoli e riflettevamo sulla pressante necessità di gestire adeguatamente le interazioni sociali. La Torah proibisce esplicitamente il rechilut (ossia il pettegolezzo): “Non andrai su e giù tra il tuo popolo come un chiacchierone; né prenderai posizione contro il sangue del tuo prossimo: Io sono il Signore.” È un riconoscimento, che troviamo nelle Scritture, del potere nascosto delle informazioni che circolano attraverso il grafo sociale di un gruppo. Shakespeare afferma che l'amicizia è centrale nell'esperienza umana, quando scrive il famoso lamento di Riccardo n: “Io vivo di pane, proprio come voi; provo desideri, assaporo il dolore, ho bisogno di amici. Così asservito, come potete venirmi a dire che il sono un re?”

 

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E così ritorniamo alla posta elettronica

Il rovescio della medaglia di una profonda ossessione evolutiva per le interazioni individuali, come per la maggior parte degli istinti innati, è la sensazione di angoscia che sperimentiamo quando quell’istinto è ostacolato. Più o meno allo stesso modo in cui il desiderio di cibo si accompagna a una sensazione di fame in sua assenza, così il nostro istinto sociale sperimenta un disagio e una sensazione d’ansia, se trascuriamo queste interazioni.

È una questione importante anche in ambito professionale, perché, come abbiamo documentato, uno sfortunato effetto collaterale della modalità operativa della mente alveare iperattiva è l'esposizione costante proprio a questa forma di angoscia. L'approccio frenetico alla collaborazione professionale genera messaggi a una velocità che non siamo in grado di gestire: finiamo di scrivere e inviare una risposta, solo per scoprire che nel frattempo abbiamo ricevuto altre tre email. E mentre siamo a casa la sera, o durante il fine settimana, o in vacanza, non possiamo ignorare la consapevolezza che, in nostra assenza, le email nella casella di posta continuano ad accumularsi. Non è una sorpresa constatare che nel sondaggio molti miei lettori hanno segnalato questo tipo di stress:

  • “Avverto continuamente la sensazione di essermi perso qualcosa.”
  • “Psicologicamente, non posso trascurare la lettura di una qualche email, per quanto sia insignificante.”
  • “Mi sembra che le cose si accumulino e così comincio ad avvertire lo stress.”
  • “La casella di posta elettronica mi esaspera perché so quanto sforzo mi occorra per comunicare via email in maniera adeguata.”

A questo punto, però, potreste replicare, sostenendo che intercorre una grande differenza tra il trascurare un'email piuttosto che un compagno, membro della nostra stessa tribù di cacciatori-raccoglitori. La conseguenza peggiore che potrebbe verificarsi nel primo caso è che potremmo infastidire Bob della contabilità, mentre nel secondo caso potremmo ritrovarci a morire di fame. In realtà nella vostra azienda potrebbero anche esserci norme chiaramente definite riguardo ai tempi d’attesa considerati accettabili per rispondere a un'email, il che significa che, probabilmente, Bob della contabilità non ha alcun problema se non rispondiamo subito all’email. Il problema ovviamente è che gli istinti umani radicati profondamente in noi non rispondono alla razionalità.

Se saltiamo un pasto dicendo al nostro stomaco che brontola che più tardi mangeremo, e che quindi non c'è alcun motivo per temere di morire di fame, non riusciremo ad alleviare quella forte sensazione di fame. In maniera simile, se spieghiamo al cervello che, se trascuriamo le possibili interazioni che affollano la casella di posta in entrata, non avremo problemi di sopravvivenza, non riusciremo comunque a evitare una sensazione d’ansia che si sviluppa in sottofondo.

Nei nostri consolidati percorsi neurali, che si sono evoluti nel corso di millenni, superando le carenze di cibo grazie ad alleanze strategiche, questi messaggi lasciati senza risposta diventano l'equivalente psicologico della scelta di ignorare un membro della tribù che potrebbe rivelarsi essenziale per sopravvivere alla prossima siccità. In questa prospettiva, la casella di posta affollata di email non solo genera in noi frustrazione, ma è vissuta come una questione di vita o di morte. E possiamo misurare nella pratica, in laboratorio, il trionfo di questi antichi impulsi sociali sul moderno cervello razionale.

 

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In uno studio particolarmente tortuoso, pubblicato nel 2015 sul la rivista "The Journal of Computer-Mediated Communication", i ricercatori hanno scoperto come valutare con discrezione la nostra risposta psicologica agli ostacoli alla comunicazione che si verificano in un contesto digitale. I soggetti sono stati condotti in una stanza per risolvere alcuni giochi di parole. È stato detto loro che, ai fini dell’esperimento, il ricercatore voleva anche sperimentare un sistema wireless per il monitoraggio della pressione sanguigna. Dopo qualche minuto da quando il soggetto aveva iniziato a cercare la soluzione del gioco di parole, il ricercatore rientrava nella stanza e spiegava che lo smartphone del soggetto creava “un’interferenza” con il segnale wireless, per cui avrebbe dovuto allontanare il cellulare, spostandolo su un tavolo a circa tre metri di distanza. Il soggetto avrebbe comunque potuto sentire la suoneria, ma di certo il telefono sarebbe stato fuori portata. Dopo che il soggetto si era dedicato ai giochi di parole per qualche altro minuto, il ricercatore componeva di nascosto — il numero di telefono del soggetto. A quel punto il soggetto cercava di risolvere il gioco di parole mentre sentiva il proprio cellulare suonare dall’altra parte della stanza, ma non rispondeva, perché in precedenza era stato avvertito dal ricercatore che era importante evitare di alzarsi “per qualsiasi ragione”.

Per tutta la durata della farsa, il sistema di monitoraggio registrava gli stati fisiologici del soggetto, misurando la pressione sanguigna e il battito cardiaco, permettendo ai ricercatori di osservare l’effetto della separazione dal cellulare. I risultati sono stati prevedibili. Per tutto il periodo in cui il cellulare suonava nella stanza gli indicatori di stress e ansia sono schizzati alle stelle. In maniera parallela, i livelli di stress riferiti dal soggetto ci sono innalzati, mentre la situazione, sempre nella descrizione del soggetto, ha cominciato a diventare spiacevole. Anche le prestazioni nella risoluzione del gioco di parole sono diminuite nel periodo in cui il cellulare suonava ma rimaneva senza risposta.

Da un punto di vista razionale i soggetti sapevano che perdere una chiamata non equivaleva a una situazione di crisi, perché è normale non riuscire a rispondere al telefono in tempo, e in quel momento erano chiaramente impegnati in qualcosa di più importante. A dire la verità, in molti casi, il cellulare era già stato impostato in modalità “Non disturbare”, opzione che i ricercatori hanno però furtivamente disattivato quando hanno spostato il telefono dall’altra parte della stanza. Ciò significa che i soggetti avevano già preventivato di perdere le chiamate o i messaggi che fossero arrivati durante l'esperimento. Questa comprensione razionale, però, non poteva competere con gli istinti evolutivi che instillano l’idea che ignorare una potenziale relazione sia una scelta pessima! I soggetti erano divorati dall’ansia, per quanto razionalmente avrebbero ammesso che non c'era nulla di cui preoccuparsi.

La sensazione di trascurare le relazioni interpersonali che necessariamente accompagna la mente alveare iperattiva fa risuonare gli stessi campanelli d'allarme del Paleolitico, a prescindere dagli sforzi che possiamo mettere in atto per convincerci che una mancata risposta a queste comunicazioni non è questione di vita o di morte. L'effetto è talmente forte che quando nella compagnia di Arianna Huffington, Thrive Global, si è cercato di capire come alleviare l'ansia degli impiegati quando questi erano in vacanza (quando la consapevolezza dei messaggi che si accumulano diventa particolarmente acuta), si è arrivati ad adottare una soluzione estrema, nota come Thrive Away: se si invia un'email a un collega che è in vacanza, si riceve un messaggio che ci informa che la nostra email è stata automaticamente cancellata e che dovremo rinviarla al ritorno dalle vacanze

In teoria dovrebbe essere sufficiente una semplice risposta automatica che avvisi il mittente che siamo in vacanza, comunicando il giorno del nostro rientro, ma in questa situazione la logica è secondaria. A prescindere dalle aspettative, la consapevolezza che nella casella di posta sono presenti dei messaggi innesca in noi una sensazione di ansia, rovinando le nostre possibilità di rilassarci mentre siamo in vacanza. L'unica cura consiste nell’evitare che i messaggi arrivino. “L'aspetto fondamentale non è semplicemente che lo strumento crea un muro tra noi e l'email” ha spiegato Huffington. “Una soluzione simile ci libera dall’ansia che nasce all’idea che una montagna sempre più alta di email ci attende al ritorno: un simile stress riduce i benefici della disconnessione.”

Uno strumento come Thrive Away potrebbe alleviare temporaneamente lo stress sociale della mente alveare iperattiva, ma non possiamo ignorare le circa cinquanta settimane all’anno in cui non siamo in vacanza. Fino a quando aderiremo alla modalità operativa tipica della mente alveare iperattiva, che si basa su uno scambio di messaggi continuo, il cervello paleolitico rimarrà in una condizione di moderata ansia diffusa.

 

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Data di Pubblicazione: 2 novembre 2021

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