SELF-HELP E PSICOLOGIA

Cos'è un Daimon - Il Sentiero Nascosto della Psiche Umana

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Anteprima del libro "Ho'Omana" di Claudio Marucchi

Latte macchiato

All’inizio mi sono preso troppo sul serio: ho infatti un problema con l’infinito e uno con la luna. Non so perché tra le prime parole che pronuncio - mi è stato riferito - è uscita l’espressione «Stronza luna»; forse il mio Daimon mi mette in guardia fin da subito su alcuni noti pericoli.

L’infinito invece è una di quelle seduzioni infantili che non trovano posto nel formarsi delle prime costruzioni della conoscenza, e nemmeno nelle successive. E incomprensibile, inimmaginabile, inconcepibile. Quindi diventa la sola cosa a destare il mio interesse. La faccia concreta dell’infinito, che per un bambino non può essere un concetto filosofico, è l’incontro con due scenari: il cielo stellato e il mare. La contemplazione infantile non è esente da rischi di identificazione, di sconfinamento tra osservatore e osservato. Se lo sguardo sosta a lungo sulla vastità liquida e ondeggiante del mare o nella nera profondità della notte puntellata di luce, l’incanto che ne deriva è una vertigine che sfuma e polverizza i flebili confini di un “io” ancora in formazione. Si chiama estasi, e impasta la meraviglia con la paura. È la prima droga sperimentabile. L’assenza di limiti o confini diventa la prima di tutte le dipendenze. La sua incomprensibilità la rende ingombrante, urticante, scomoda, e si traduce in un’emozione che si stabilizza, si cronicizza, diventa lo sfondo del mio animo: l’inquietudine. Una forma in incubazione del disagio esistenziale. C’è una fitta parentela tra estasi, meraviglia, terrore, irrequietezza, mal di vivere.

Non potendomi rappresentare mentalmente l’infinito, partorisco quindi un nome per l’emozione che suscita. Non conoscendo la parola inquietudine, né malinconia, né tanto meno l’espressione “disagio esistenziale”, ed essendo lontano dall’imbattermi nella nozione poetica di mal de vivre, non posso che usare un’immagine semplice. Tutte avrebbero potuto rappresentare più o meno degnamente quell’ineliminabile incrostazione del profondo, ma quando hai meno di sei o sette anni hai poche opzioni tra cui scegliere, e tutte ingenue o idiote, a seconda dei punti di vista. In fondo un bimbo è culturalmente ignorante, per questo è ancora un bimbo, e per questo ha un altro genere di sapienza. Che l’ignoranza regni sovrana tra i grandi non significa che essi siano rimasti bambini, purtroppo. Fatto sta che quell’emozione, che oggi direi essere il coagularsi dell'irrisolvibile problema dell’infinito nella mia coscienza, la chiamo “macchiolina”. Perché la sento, forse la vedo così. Più che un nome scelto con fatica, è una spontanea constatazione, immediata e lampante. Una parola stupida per un argomento enorme, quasi un insulto alla profondità della questione. Quella macchia scura — unico neo in una psiche candida come il latte - è il carburante del mio successivo incedere. Tutto è stato compiuto per metterla a fuoco, avvicinarla, e non per evitarla o rimuoverla, anche quando ho creduto di doverlo e poterlo fare. Esigo meraviglia e paura ancora oggi, perché ci sono droghe che non si devono mai abbandonare.

Gesù ama il Diavolo

Daimon è un termine simbolicamente adatto a rappresentare il sentiero che ho percorso fino ad ora, e probabilmente quello che mi resta da percorrere. In Grecia, luogo in cui si sono eretti i bastioni del nostro inconscio “locale”, veniva spesso associato a un essere intermedio tra il nostro piano di esistenza e un piano che le coscienze di allora identificavano in quello divino, il sovrasensibile. Responsabile di fenomeni simili all’ispirazione, ma con i tratti di una possessione, il Daimon è orientamento, guida e riferimento di uno stato di coscienza più vero e leale, e perciò disorientante e perturbante. Come voce ispiratrice o come intuizione prerazionale, il Daimon prende in custodia il soggetto e lo conduce, rivelandosi infine come avente a che fare con la sua vera e profonda natura originaria. Credo che il Daimon simbolicamente includa la più perfetta sintesi di ciò che la storia dell’alchimia e dell’iniziazione chiama “grande Opera”: la coincidenza tra la propria volontà e il proprio destino. In ciò consiste la massima libertà possibile.

Non è curioso che la parte più intima e rappresentativa di un soggetto sia accessibile al di fuori del soggetto stesso? Sia cioè mediata da un ente esterno? Il centro sarebbe quindi là fuori, in una sorta di rivelazione della natura transpersonale della nostra parte più personale. La saggezza antica non fa l’errore di concepire la psiche umana come un circuito chiuso, una scatola che tutto contiene, come oggi vorrebbe far passare una certa linea di pensiero new age sostenendo che: «E tutto dentro di te»; tutto tranne te stesso, verrebbe da pensare. Siamo veramente noi stessi quando siamo dislocati rispetto a quell’attenzione che ci vuole “presenti”. Paradossale e sconcertante, scoprire che il nostro “qui e ora” è l’elevazione a potenza di un’illusione, e che il più gustoso e reale esser “presenti a se stessi” si riveli nel fare spazio a qualcos’altro, nell’annullare la differenza tra interiorità ed esteriorità, tra sé e mondo, insomma nel rendersi parzialmente assenti. E la prova che la spiritualità contemporanea non ha capito niente e vive di depistaggi e consolazioni, rafforzando lo stato di coscienza di veglia conscia, che in realtà è l’ostacolo da superare.

Il vero Sé non abita in noi. Ci attraversa, può rapirci di tanto in tanto, ma non ci appartiene come qualcosa di interno, proprio, centrale. Se così fosse, dovremmo rappresentarlo come un varco per qualcos’altro, un centro cavo, perché tutto ciò che sentiamo rappresentarci veramente ci riconduce sempre a qualcosa di esterno, distante, e soprattutto non controllabile.

Il Daimon è zingaresco e vagabondo, vive di incursioni e rapimenti. In stagioni diverse è stato equiparato al genio, che è spesso il genius loci o genio tutelare legato a certi luoghi e zone di potere, oppure all’angelo custode. Il termine daimon ha sopportato le variazioni che la coscienza storica impone a ogni parola intensamente rappresentativa, fino a intrecciarla a una serie di significati simbolici poi recuperati dalla moderna psicanalisi. Ma non prima di aver subito la sorte di una graduale caduta, quando il cristianesimo iniziò ad associare il “demone” al maligno e al diabolico. Demonizzare il Daimon parrebbe un mero esercizio tautologico, ma se ancora oggi i più raffinati devono distinguere l’uso di “demoniaco” da quello di “daimonico” (parola tra l’altro inesistente nella nostra lingua) è proprio per l’emarginazione peggiorante toccatagli in sorte. Pensando all’etimologia, daimon è termine connesso al verbo greco Saicofiai (“daiomai”), che significa “dividere, separare”, dalla radice proto-indoeuropea Sa (“da”). Il significato che assume per traslato è “dispensare”, “diffondere”, “propagare”. Qui emerge più chiaramente la natura di Eros come Daimon supremo. Questo termine ha una storia complessa, da una prima accezione fortemente positiva a una decisamente negativa, fino a un suo recupero non ancora ultimato. Rivedo la strada che percorro, da quando ho memoria, nelle vicende alterne di questa parola. Ecco il motivo principale per cui questo libro porta come titolo Daimon, essendo simile al sentiero che ho calcato.

In una foto scattata verso la fine del mio terzo anno di vita appaio adagiato in una cesta, con una corona dorata sul caschetto biondo. Si tratta della recita di fine 1980 all’asilo. Il mio ruolo? Gesù bambino. Le suore hanno notoriamente un’inconscia inclinazione per la perversione. All’epoca, infatti, ho in testa solo mostri e in mano solo dinosauri di rara bruttezza. E come può un palestinese di duemila anni fa essere impersonato da un biondino con i capelli lisci? L’immaginario religioso non può che essere decisamente antistorico.

A undici anni, infatti, quel che resta di quel Gesù bambino ritaglia da giornali, riviste o fumetti, ogni immagine del demonio, riponendole diligentemente in un cassetto. Quando mia madre le trova, viene dritta da me. «E queste cosa sono?» «Mamma, mi piace il Diavolo». L’innocente soltanto può dire la verità e scagliare così la prima pietra, che è sempre l’unica pietra. Non ci sono altre pietre da scagliare, perché questa ammissione fa uscire definitivamente dallo stato di innocenza, quindi anche dalla verità.

(“dia-ballein”), “gettare divisione”, “separare”; il Diavolo è l’oppositore. Il quadro generale è chiaro: da una crisi in embrione (la macchia) a un’inconscia volontà di opposizione. Non è raro che il proprio Daimon si manifesti già nella prima infanzia, quando si è meno condizionati e più aperti alle possessioni. Opporsi è un modo di affermarsi. Ma ci si afferma essendo radicali. Tutti vogliono, pretendono e si convincono di essere “diversi”. Distinguersi dagli altri è un compito sociale, è già incluso e previsto dal sistema. E pur nella presunzione di diversità messa in scena da chiunque, lo stagno paludoso dell’uguaglianza e della conformità continua ad appiattire e inglobare le differenze. Essere soli, ecco il modo di affermarsi. Integralismo dell’essere minoranza assoluta, opposizione a ogni costo, totale e sistematica. Andare radicalmente contro. Così si inizia l’emancipazione e la costruzione di sé. Affermarsi negandosi, rifiutando fermamente ogni proposta, ancora un paradosso, ancora una contraddizione.

Dall’Abisso con Amore

Ricordo distintamente che da piccolo, prima di addormentarmi, mi capitava spesso di pensare all’abisso, ai fondali marini più profondi e scuri, immaginando di essere in una capsula - il letto, che era un materasso per terra, allora come ora - vagante in perlustrazione di quei fondali.

L’abisso è un archetipo che declina nella profondità la stessa potenza dell’infinito e della notte. In quell’abisso trovo un accompagnamento al sonno e al sogno. Non si dice forse sprofondare o cadere nel sonno? Lo stare presso l’estremità in basso mi offre un rapporto più sicuro con la vastità, pur consegnandomi a paure più concrete: il buio e il suo popolo. Ricordo ancora quanto mi piaccia provare un brivido di paura. Serve integrarla per poter dormire. Scopro quindi che aver paura prima di dormire è un ottimo metodo per far pace con ciò che spaventa, e poter così dormire. Inizio a sentirmi protetto dalle stesse oscure figure che mi terrorizzano. Se penso a quante ore spendono molti genitori a rassicurare i figli sul fatto che l’uomo nero non esiste, e nonostante ciò non riescano a far passare loro il timore o il sospetto verso le tenebre! Magari basterebbe dire loro che l’uomo nero potrebbe esserci, ed è disposto a fare amicizia se non lo si teme, o che può proteggere se non lo si caccia via. In effetti, il diavolo non è così brutto come lo si dipinge.

La fascinazione per l’orrore, la mostruosità, l’ombra, la morte, mi stana fin dai primi anni di vita. Teschi, corna, denti aguzzi, sangue, squame, artigli, obbrobri vari, ovunque li veda provo un brivido di eccitazione. Quella mostruosità con i connotati del pericolo è l’insegna di una paura che viene dai tratti più distanti e allarmanti del regno animale. La disumanità ravviva quel misto di terrore e meraviglia con cui l’inconcepibilità dell’infinito mi aveva sedotto una volta per sempre. La macchiolina si allarga a macchia d’olio e si popola di adorabili mostri. È una paura che voglio abbracciare, una scomodità che mi veste a pennello, imparo a sostare con fiducia presso quel timore. I miei giochi sono mostri, poi libri sui dinosauri, cartoni animati e successivamente film interamente figli di quel sottogenere, fumetti dai titoli evocativi come Mostri, Splatter, Scanners, Satanik (per adulti, ma il giornalaio — di nome Sauro, giuro! - compiacente soprassedeva) e così via, nella costruzione di un immaginario invaso da ogni sorta di perturbante e spaventosa anormalità. La paura diventa amica e le mie prime condivisioni consistono nel provare piacere a stupire, poi sconvolgere e possibilmente spaventare l’altro. La paura si associa al piacere. L’adulto sorride, mia sorella e qualche amichetto un po’ meno.

Ciò che sta accadendo è semplice, ora, da spiegare. L’esteriorità pura, abissale e non riconducibile a nulla di conosciuto si traveste e si rende accarezzabile nel solo modo che un bambino protetto e rassicurato da una famiglia presente e amorevole può sperimentare: un vero e proprio gioco d’amore con le forme dell’ignoto, un'erotica infantile con la paura. Non è una compensazione per l’eccesso di attenzioni e dolcezze, è un inconscio confronto-incontro con l’alterità. Il primo Daimon è Eros, e il primo Eros si consuma tutto in un rapporto con l’immaginazione. L’immaginazione è l’animarsi dell’esterno, del profondo e dell’antico che sconfinano nella mente bambina, agitandosi in forme incoerenti.

La mostruosità che ogni buona educazione pretende di emarginare, esorcizzare, nascondere, reprimere, controllare, per me è sintomo di quella radicale diversità che credo vada protetta, perché è qualcosa di vulnerabile, in via di estinzione, costretta oltre i confini. Sento di essere solidale con la difformità e con ciò che la maggior parte dei soggetti detesta, rifiuta, teme. Una sorta di tenerezza si affianca e poi si sostituisce al timore quando guardo all’emarginazione della follia, della bruttura, dell’orrore, di tutto ciò che viene banalmente classificato come “male”. Amo il drago e odio l’arcangelo Michele.

Da bambino capita spesso che un adulto sorridente ti chieda: «Cosa vuoi fare da grande?» Ci si aspetta sempre che il piccolo risponda con una professione, un lavoro, un mestiere. Verso i sei o sette anni la mia risposta è immancabilmente: «Il barbone!»

Sono un reietto innato? No, è la mia precoce tensione inconscia verso l’opposizione assoluta.

Nonostante le apparenze, la vicinanza all’orrore non si associa a cattivi sentimenti, non impedisce lo sviluppo di gioia, entusiasmo, amicizie e divertimenti. Ha il vantaggio però di consentire l’apertura di zone franche, prima assoggettate a timori. L’assimilazione di alcune paure si compie esaltandole, rendendole ben visibili, ingrandendole abbastanza da poterle conoscere e smettere di temerle. Il gusto verso ciò che disgusta è un primo passo fondamentale per perdere la vergogna, su cui le religioni antinaturali (ebraismo, cristianesimo e islam su tutte) hanno costruito una parte del loro successo. Caduti disgusto e vergogna, si perde la paura (altro alleato delle fortune dei monoteismi), soprattutto verso la morte. La paura della paura sfuma così in una miriade di giochi, fantasie, pensieri, immagini che iniziano a essere percepiti come piacevoli. Così profonda, così intimamente vivida, la paura per me diventa un gioco, che aiuta a superare la paura stessa. Sono i miei primi superamenti di dualismi e conflitti. Ricordo bene le sfide ad addentrarmi nelle stanze di casa senza accendere la luce, in modo da avvertire fisicamente il brivido di quel risucchio nel vuoto che solo il buio può regalare. Non c’è quasi differenza tra agitarsi ed eccitarsi. Senza terrore per il nero e il suo corteo, si perdono molti pregiudizi, si diventa più aperti, più tolleranti, meno rigidi. Si è più liberi e inclusivi, e non si rischia di scivolare — più tardi — nel moralismo. A quel tempo non conosco ancora il moralismo e i danni che può creare, ma mi diverto a sconvolgere, come se spontaneamente godessi del sentirmi “ghettizzato” da alcuni individui facili a scandalizzarsi. Così, se guardato con sospetto o timore, anch’io potevo assomigliare ai miei mostri.

Questo testo è estratto dal libro "Daimon".

Data di Pubblicazione: 15 febbraio 2018

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