Scopri quali sono le differenze tra Quoziente Intellettivo e Quoziente Emotivo leggendo l'anteprima del libro di Steven J. Stein e Howard E. Book.
Ridefìnire i concetti di intelligenza e risultato
Ricordate il primo della classe ai tempi della scuola? Il cervellone che prendeva sempre il massimo dei voti e sembrava destinato a una serie di trionfi continui? Probabilmente avete perso di vista quel giovane studente di successo, ma sapete che uno o due vostri compagni hanno raggiunto traguardi importanti (e forse molto inaspettati). Magari hanno fondato un’azienda che ora dirigono, o sono diventati leader di spicco e rispettati nella propria comunità. Ma all’epoca, chi l’avrebbe mai detto? Allora erano impegnati a socializzare, a suonare la chitarra nello scantinato o ad armeggiare con strani pezzi di ricambio in garage. Magari si sono diplomati a fatica con il minimo dei voti, e hanno iniziato a brillare solo una volta trovatisi nel mondo reale.
Non è certo una novità che non tutti i talenti soddisfino i requisiti del modello scolastico, piuttosto restrittivo nella misurazione del risultato. La storia è piena di uomini e donne brillanti e di successo che a scuola andavano male, o malissimo, relegati ai margini da insegnanti e consulenti di orientamento scolastico; ma nonostante queste prove eclatanti, la società ha continuato a credere che il successo scolastico equivalga al successo nella vita o, quantomeno, nel lavoro. Ora questo presupposto viene rovesciato.
La maggior parte di noi sa istintivamente che c’è un abisso tra l’essere bravi a scuola e cavarsela nella vita reale, tra le doti intellettuali e il buonsenso generale. Le prime sono certamente utili ma il secondo, sebbene più intangibile, è molto più interessante: è la capacità di sintonizzarsi sul mondo, di leggere le situazioni e di stabilire un contatto con gli altri, assumendosi la responsabilità della propria vita.
Ora, grazie all’EQ-i, prove innegabili hanno dimostrato una stretta correlazione tra questa capacità, che ha poco a che vedere con l’intelletto in sé e per sé, e il successo a lungo termine.
Cos’è il successo? Definiamolo come la capacità di fissare e realizzare i propri obiettivi personali e professionali, qualsiasi essi siano.
Sembra semplice ma, naturalmente, non lo è. La definizione di successo per ciascuno di noi subirà naturalmente delle variazioni nel tempo: vogliamo cose diverse e perseguiamo obiettivi diversi semplicemente perché abbiamo un’altra età, accumuliamo esperienza e ci accolliamo responsabilità. L’idealismo della gioventù fa spazio alla realtà della maturità e alla necessità di compromessi; imperativi o elementi diversi assumono un’altra intensità, a seconda del ruolo particolare che cerchiamo di ricoprire, ad esempio quello di lavoratore, coniuge o genitore. Qual è la nostra premura principale in un determinato momento? Fare carriera, vivere un matrimonio felice o offrire una guida e un supporto amorevole ai nostri figli? Forse stiamo affrontando una grave malattia, in confronto alla quale tutto il resto passa in secondo piano, e il successo diventa una questione di sopravvivenza. Altro che definizione semplice!
Ma l’obiettivo fondamentale su cui la maggior parte di noi sarebbe d’accordo, cioè avere successo alle nostre condizioni (o a condizioni per noi accettabili) in un’ampia gamma di situazioni, rimane una costante.
Non si può dire la stessa cosa per l’idea di successo della società, in continuo mutamento.
La cultura del Ventesimo secolo, sempre all’inseguimento serrato della scienza e della tecnologia, ha a lungo esaltato l’intelligenza cognitiva come pietra miliare del progresso, così come il compenso economico è da tempo considerato il frutto principale dell’intelligenza. Il problema è che, a volte, tale equazione non ha funzionato come previsto, come ad esempio nella classica domanda: “Se sei così intelligente, perché non sei ricco?”. Solo in anni recenti abbiamo iniziato ad apprezzare gli stretti collegamenti tra l’intelligenza emotiva e una definizione di successo più ampia, più soddisfacente e più completa che comprenda il posto di lavoro, il matrimonio e le relazioni personali, la popolarità sociale, e il benessere spirituale e fìsico.
Se pensate ai vostri amici e familiari, ma anche ai vostri colleghi e alle persone che incontrate nelle svariate occasioni quotidiane, chi secondo voi ha più successo? Chi sembra condurre la vita più piena e felice? Sono necessariamente le persone più dotate intellettualmente o analiticamente?
Più probabilmente, alla base della loro capacità di realizzare ciò che desiderano ci saranno altre caratteristiche e abilità. Maggiore è il vostro senso emotivo e sociale, più vi sarà facile gestire in modo efficiente e produttivo la vostra vita. Dopo decenni di lavoro in campo psicologico e psichiatrico, abbiamo concluso che essere emotivamente e socialmente intelligenti è importante almeno quanto esserlo a livello cognitivo o analitico.
Quali sono le differenze tra QI e QE?
In parole povere, il QI misura le capacità intellettuali, analitiche, logiche e razionali di una persona; prende perciò in considerazione le abilità verbali, spaziali, visive e matematiche. Esso valuta la prontezza con cui apprendiamo nuove cose, ci concentriamo su compiti ed esercizi, assimiliamo e riportiamo alla mente informazioni oggettive, intraprendiamo un ragionamento, lavoriamo con i numeri, pensiamo a livello teorico e analitico e risolviamo problemi applicando conoscenze pregresse. Se avete un QI alto (la media è 100), siete ben equipaggiati per superare brillantemente ogni tipo di esame, e non a caso otterrete un buon punteggio nei test sul QI.
Benissimo. Tutti, però, conosciamo persone in grado di raggiungere punteggi altissimi di QI ma che non se la cavano altrettanto bene nella vita lavorativa o personale: infastidiscono gli altri e sembrano proprio non avere successo. La maggior parte delle volte non riescono a capire il perché.
Il motivo è una forte mancanza di intelligenza emotiva, che è stata definita in vari modi diversi. Reuven Bar-On la descrisse come “una serie di capacità, competenze e abilità non cognitive che influenzano la capacità di affrontare gli ostacoli e le pressioni ambientali”. Peter Salovey e Jack Mayer, che coniarono l’espressione “intelligenza emotiva” utilizzata oggi, la descrivono come “la capacità di percepire emozioni, di accedere a emozioni e di generarle per supportare il pensiero, di capire le emozioni e il loro significato, e di regolare in maniera riflessiva le emozioni in modo tale da promuovere la crescita emotiva e intellettuale”. Sviluppando l’EQ-i 2.0, l’intelligenza emotiva è stata definita come “un insieme di capacità emotive e sociali che influenzano il modo di percepire ed esprimere se stessi, di costruire e mantenere relazioni sociali, di affrontare le sfide e di utilizzare informazioni emotive in modo efficace e significativo”.
In altre parole, è un insieme di capacità che ci rende in grado di farci strada in un mondo complesso; sono gli aspetti personali, sociali e di sopravvivenza dell'intelligenza complessiva, quel generico buonsenso e quella sensibilità che sono essenziali a un buon agire quotidiano. Nel linguaggio comune, l’intelligenza emotiva è ciò che solitamente chiamiamo “saper stare al mondo”, o quella rara capacità che definiamo “buonsenso”. Essa ha a che fare con la nostra capacità di valutare oggettivamente i nostri punti di forza e di essere aperti a riconoscere e sfidare i nostri limiti, i nostri presupposti sbagliati, i preconcetti che non ammettiamo e le convinzioni che ci limitano e ci danneggiano. L’intelligenza emotiva, inoltre, comprende la capacità di leggere l’ambiente politico e sociale e di inquadrarlo, di capire intuitivamente ciò che gli altri vogliono e di cui hanno bisogno, i loro punti deboli e quelli di forza, di non farci toccare dallo stress e di essere persone interessanti che gli altri amano frequentare.
Breve storia dell'intelligenza emotiva
Come si è evoluta l’intelligenza emotiva? Semplicemente con l’umanità stessa: la necessità di affrontare, adattarsi e andare d’accordo con gli altri era fondamentale per la sopravvivenza delle prime società di cacciatori-agricoltori. Il cervello umano riflette questo fatto innegabile: sofisticate tecniche di mappatura hanno recentemente confermato che molti processi di pensiero passano attraverso i centri emotivi del cervello, lungo il percorso fisiologico che converte le informazioni esterne in azioni o risposte individuali.
Da un lato, quindi, l’intelligenza emotiva esiste da sempre. Nel 1872, Charles Darwin pubblicò il primo libro moderno sul ruolo dell’espressione emotiva per la sopravvivenza e l’adattamento.
Noi, tuttavia, per un punto di vista pratico ci concentreremo sullo sviluppo del concetto di QE nel Ventesimo secolo. Negli anni Venti del ‘900, lo psicologo americano Edward Thorndike parlò di ciò che lui chiamava “intelligenza sociale”; successivamente, l’importanza dei “fattori emotivi” venne riconosciuta da David Wechsler, uno dei padri del test del QI che, in un articolo del 1940 raramente citato, affermava che qualunque misurazione “completa” dovesse includere gli “aspetti non intellettivi dell’intelligenza generale”. L’articolo parlava anche di ciò che lui chiamava abilità “affettive” e “conative” (fondamentalmente, l’intelligenza emotiva e sociale), e che riteneva fondamentali per avere un quadro completo. Sfortunatamente, questi fattori non vennero inclusi nei test di Wechsler del QI, e all’epoca vi si prestò poca attenzione.
Nel 1948 un altro ricercatore americano, R.W. Leeper, sostenne l’idea di “pensiero emotivo”, che egli riteneva contribuire al “pensiero logico”. Ma pochi psicologi o educatori seguirono questa linea di ragionamento per i successivi trent’anni e oltre (un’eccezione importante fu Albert Ellis, che nel 1955 iniziò a esplorare ciò che poi divenne nota come “terapia comportamentale razionale-emotiva”, un percorso in cui viene insegnato a esaminare le proprie emozioni in modo logico e ponderato). Poi, nel 1983, Howard Gardner della Harvard University scrisse della possibilità delle “intelligenze multiple”, tra cui ciò che chiamò “capacità intrafisiche” (in sostanza, un’attitudine all’introspezione) e “intelligenza personale”.
In quel periodo, Reuven Bar-On era attivo nel settore e aveva contribuito all’espressione “quoziente emotivo” o QE. L’espressione “intelligenza emotiva” fu coniata e formalmente definita da John (Jack) Mayer, della University of Hampshire, e Peter Salovey, della Yale University, nel 1990. Essi ampliarono il concetto del professor Gardner, scelsero la definizione di intelligenza emotiva citata precedentemente in questo capitolo e da allora, con il collega David Caruso, hanno sviluppato un test alternativo per l’intelligenza emotiva che, a differenza dell’EQ-i (Emotional Quotient Inventory), non è di autovalutazione bensì basato sulle abilità. Questo test, denominato MSCEIT (Mayer-Salovey-Caruso Emotional Intelligence Test), ha prodotto una notevole quantità di ricerche negli scorsi nove anni. Abbiamo lavorato con loro allo sviluppo di questo test, nella speranza che osservare il fenomeno dell’intelligenza emotiva da due punti di vista diversi faccia ancora più luce su questa importante capacità. Alcuni dei risultati vengono illustrati più avanti in questo libro.
Data di Pubblicazione: 30 gennaio 2020