Scopri perché lo zen suscita interesse nella cultura occidentale leggendo l'anteprima del libro di Alan Watts.
Il Koan dello Zen
Le conferenze sullo zen sono una specie di controsenso: lo zen s’interessa di una sfera dell’esperienza di cui non è possibile parlare. Del resto, non esiste nulla in assoluto di cui si possa parlare adeguatamente. Tutta l’arte poetica è incentrata sul dire l’indicibile: ogni poeta sente inevitabilmente che sta trascurando di dire qualcosa di assolutamente essenziale.
Perciò lo zen si rappresenta sempre come il dito che indica la luna. Nel detto sanscrito tat tvam asi («Tu sei quello») lo zen si concentra su «quello». Quest’ultimo è il termine usato per riferirsi a Brahman, la realtà assoluta della filosofia induista, e voi la impersonate talmente bene, seppure in incognito, da averlo scordato voi stessi. Lo zen utilizza alcuni concetti astratti, quali Brahman, la realtà assoluta, il fondamento ultimo della vita, il Sé superiore, il vuoto eccetera, e sviluppa un metodo molto più diretto per arrivare alla comprensione di quello. Seguono quattro frasi chiave per descrivere lo zen: trasmissione diretta (Una speciale tradizione esterna alle scritture); oltre il linguaggio (Non dipendente dalle parole e dalle lettere); puntare direttamente alla mente (Che punta direttamente alla mente-cuore dell’uomo), e realizzare la propria natura diventando il Buddha (Che vede dentro la propria natura e raggiunge la buddità), risvegliandosi dal normale stato di ipnosi in base al quale quasi tutti brancoliamo come sonnambuli.
Perché c’è tutto questo interesse verso lo zen? Me lo sono chiesto ripetutamente, specialmente da quando questa curiosità è aumentata progressivamente negli Stati Uniti dopo la guerra col Giappone. Primo, credo che il richiamo esercitato dallo zen risieda nel suo inconsueto genere di umorismo. Le religioni, di regola, non sono affatto dotate di senso dell’umorismo. Sono molto serie. Ma se si osserva l’arte zen o si leggono storie zen è ovvio che ritraggono qualcosa di non “serio” nel normale senso del termine, sebbene possa trattarsi di qualcosa di totalmente veritiero. Secondo, penso che un altro richiamo per gli occidentali sia rappresentato dal fatto che lo zen non consta di dottrine, cioè non impone nulla in cui credere e non ama moralizzare. Lo zen non è particolarmente interessato ai principi morali. E' un campo di studio come la fisica, e non ci si aspetterebbe da un fisico che fosse un esperto di morale. Si va dall’oftalmologo per farsi correggere la vista: diciamo allora che lo zen è una forma di oftalmologia spirituale.
Un’altra ragione per cui lo zen piace ai suoi studenti occidentali è che questi ultimi hanno desunto molte delle loro conoscenze sullo zen da Daisetsu Teitaro Suzuki, da Reginald Horace Blyth e da me, e noi presentiamo lo zen nella tradizione Chàn, che fiorì in Cina fra il 700 e il 1000 d.C. E molto diverso dal tipo di zen attualmente diffuso in Giappone, molto feticista riguardo allo studio mediante la meditazione seduta. Blyth chiese a un maestro zen cosa avrebbe fatto se gli fosse rimasta solo un’ora di vita. Avrebbe ascoltato musica? Si sarebbe ubriacato? Avrebbe fatto una passeggiata? Avrebbe goduto della compagnia di una bella donna? E il maestro si limitò a rispondere: «Zazen» (cioè avrebbe scelto di praticare lo zen seduto). Ebbene, quella risposta turbò non poco Blyth poiché, come me del resto, sentiva che meditare da seduti era solo uno dei vari modi per fare zen. Il buddhismo fa riferimento a quattro dignità dell’essere umano: camminare, stare in piedi, stare seduti e stare sdraiati; quindi devono esistere anche uno zen camminato, uno zen in piedi e uno zen sdraiato. Per esempio, si dovrebbe praticare anche il sonno alla maniera zen, nel senso di dormire profondamente. Questo potrebbe sembrare simile al vecchio precetto occidentale «Tutto ciò che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze», ma non è la stessa cosa dello zen.
Una rivelazione improvvisa
Paul Reps, autore di un delizioso libro dal titolo Zen Telegrams, una volta chiese a un maestro zen di riassumere il buddhismo in una singola frase. Il maestro rispose: «Non agire, ma agisci». E questo rese felice Reps, perché somiglia molto al principio taoista del wu-wei, l’agire nello spirito di non essere separati dal mondo comprendendo che il proprio agire non è interferenza, bensì espressione dell’universo. Però il maestro parlava un pessimo inglese e Reps l’aveva frainteso. In realtà, il maestro aveva detto: «Non compiere cattive azioni». Ebbene, questo è il genere di atteggiamento che tutto il clero ha sviluppato nel corso dei secoli. Si va in chiesa e l’intero sermone si riduce a questo: sii buono. Tutti sanno che dovrebbero essere buoni, ma è raro che qualcuno sappia come si fa; o perfino cosa significhi «essere buoni».
Perciò una parte del fascino che lo zen riveste per l’Occidente consiste nel suo regalare una rivelazione improvvisa, riferita a qualcosa che si è sempre presunto richiedesse anni e anni di sforzi di comprensione. Gli psicanalisti vi diranno che potete arrivare a un recupero di voi stessi, ma solo dopo infinite sedute, magari due volte alla settimana per vari anni. I cristiani vi diranno che se imboccate il sentiero della disciplina spirituale e vi sottomettete al volere di Dio, potreste conseguire i più alti livelli della preghiera contemplativa, ma solo dopo molti anni. E i buddhisti vi diranno che dopo lunghi anni di meditazione e di rigida disciplina potreste fare progressi sufficienti in questa vita per realizzare un’esistenza migliore nella prossima, magari come monaci, e che questo vi condurrà ai primi stadi della buddità, ma con ogni probabilità ci vorranno varie incarnazioni per arrivare a quel punto. Ma nel caso dello zen questo non avviene.
La letteratura zen abbonda di dialoghi (detti mondò, in giapponese) tra i maestri di zen e i loro studenti. Ho dato una copia di uno di questi libri, intitolato Mumonkhan (che sta a significare «la barriera senza cancello» o «il cancello senza sbarre») a un mio amico. Lui mi ha detto: «Non ne ho capita una sola parola, ma mi ha rallegrato enormemente!». Il fascino di questi dialoghi fra maestri e studenti risiede proprio nella loro incomprensibilità, e in genere si concludono con la comprensione della morale della storia da parte degli studenti. Uso il termine di «studenti», anziché «monaci», perché nello zen non si usa prendere i voti monastici a vita in fatto di povertà, castità, obbedienza eccetera. Si somiglia di più allo studente di un seminario teologico che frequenta per un certo periodo di tempo e che poi di solito se ne va, talvolta dedicandosi alla vita laica oppure diventando un prete incaricato della conduzione di un tempio. A prescindere da questo, ci si può ancora sposare e farsi una famiglia e tutto il resto. Solo pochissimi laureati di un monastero zen diventano róshi, ovvero «anziani Maestri venerabili». Il róshi è responsabile dello sviluppo spirituale degli studenti. Uno di questi, citato nel Mumonkhan, si lamenta col róshi di non aver ricevuto istruzione, nonostante risieda presso il monastero già da qualche tempo. Il maestro gli chiede: «Hai già fatto colazione?». Lo studente risponde: «Sì». Il maestro dice: «Allora vai a sciacquare la tua ciotola». E lo studente viene risvegliato.
Ora potreste pensare che la morale della storia sia di svolgere il compito che c’è da fare al momento, o che la ciotola simboleggi il vuoto. Oppure, poiché i monaci zen, immediatamente dopo aver mangiato, sciacquano la loro ciotola con del tè senza che nessuno glielo ordini, che il maestro stesse dicendo qualcosa come «Non abbellire un giglio» o, per usare una frase zen, «Non mettere le zampe a un serpente». Ma la morale della storia è molto più chiara, e proprio in questo risiede la sua difficoltà. Queste storie somigliano a delle battute di spirito, nel senso che una battuta di spirito viene pronunciata per far ridere e, se la si capisce, si scoppia in una risata spontanea. Se però si deve spiegare qual è il punto, l’effetto cambia, perché non si ride altrettanto di gusto, o al massimo si fa una risatina forzata. Queste storie illustrano la comprensione fulminea della natura dell’essere, un processo che non ammette finzioni.
Non confondere i pensieri con la realtà stessa
In un’altra storiella un maestro di nome Baijang doveva scegliere un nuovo maestro fra i suoi studenti per affidargli un certo monastero, perciò inventò una prova da superare. Pose un’immagine davanti a sé e disse: «Senza pronunciare né un’asserzione né una negazione, dimmi che cosa è questo». Il monaco anziano disse: «Non si può dire che sia un pezzo di legno», ma Baijang non accettò la risposta. Poi si fece avanti il cuoco, che diede un calcio all'immagine e se ne andò. Baijang gli conferì l’incarico. E il commento nel libro dice: «Forse il cuoco non era tanto furbo dopotutto, poiché rinunciò a un lavoro facile per accettarne uno difficile».
In un altro aneddoto famoso, un maestro dice: «Quando ero giovane e non sapevo nulla di buddhismo, i monti erano monti e i fiumi erano fiumi. Dopo una prima occhiata alla verità dello zen, i monti non furono più monti e i fiumi non furono più fiumi. E infine dopo l’illuminazione i monti tornarono a essere monti e i fiumi a essere fiumi». In altre parole, una volta iniziato a spiegare le cose (per esempio, scientificamente o filosoficamente) le vediamo separate, ma analizzandole più a fondo scopriamo che nulla è separato. La separazione è un’illusione, e questa storia lo dice esplicitamente. Lo zen parla di una virtù chiamata mushin (‘senza mente’) o mumen (‘senza pensiero’), ma questo non significa che essere al di là di qualunque pensiero sia virtuoso. Significa piuttosto non farsi ingannare dai pensieri, non restare ipnotizzati dalle forme di parola o dalle immagini che proiettiamo sulla realtà, non confondere i pensieri con la realtà stessa.
Data di Pubblicazione: 20 marzo 2019