Scopri come accrescere la capacità di stare con te stesso nella tua complessità leggendo l'anteprima del libro di Erica Francesca Poli.

Dalle emozioni al sentire 

Ogni volta che mi sono trovata a scrivere un libro, l'ho fatto sospinta da un passaggio interiore, qualcosa che premeva dentro per essere detto.

Se riprendo le parabole concettuali dei miei lavori precedenti, mi rendo conto che ciascuno di essi ha avuto un senso profondo nella mia vita, ha segnato una trasformazione, ha suggellato un'evoluzione, come se ogni testo giungesse al compimento di un tratto di quella autorealizzazione dell'inconscio di cui parla Jung a proposito della propria opera.

Rileggendo alcuni passaggi della sua autobiografia, Ricordi, sogni, riflessioni, non posso che riconoscere in effetti lo stesso movimento che dall'interno di ogni singolo tratto di percorso conduce all'esterno della sua espressione, che già diviene qualcosa d'altro mentre viene scritta e ancora si trasforma in coloro che la leggeranno.

Ogni mio libro è stato il distillato di una stagione, di un'evoluzione di coscienza, e forse per questo è stato in grado di produrre esattamente lo stesso effetto evolutivo e trasformativo in tanti lettori che me ne hanno informata.

Oserei dire che le conoscenze scientifiche sono arrivate proprio allorché io ricercavo strumenti che mi sorreggessero nel passaggio che stavo vivendo. Poi alcune conoscenze hanno aperto altre porte, in un'osmosi di mente e cuore che è impossibile e neppure auspicabile che si scinda.

Così, per fare due esempi, se Anatomia della guarigione ha segnato la rivoluzione emotiva nella mia vita, e Anatomia della coscienza quantica mi ha permesso di aprire la mia mente di medico a scienze di frontiera come la fisica dei quanti e l'epigenetica, questo nuovo lavoro giunge all'apice di una parabola di ulteriore profonda trasformazione. Il sentire, la verità del sentire, ne è al centro.

Quando cominciai a occuparmi di emozioni, il grande panorama di studi che già da decenni si erano sviluppati in quel campo mi apparve come un paese dei balocchi, dove finalmente potevo trovare risposte ai miei interrogativi su che cosa del magico rapporto tra mente e corpo sfuggisse alla medicina, e su quale ruolo avesse l'inconscio di Freud anche nelle vicende della biologia.

Ne rimasi folgorata: le emozioni erano un ponte tra mente e corpo, tra vita psichica e vita somatica. La loro natura per così dire "anfibia", un po' immateriale perché psicologica e un po' materiale in quanto corporea, mi sembrò risolvere tanti dei quesiti che nei primi anni della mia pratica clinica, medica e psicoterapica erano rimasti in sospeso.

Le emozioni spiegavano perfettamente ciò che era successo a Cristina e anche come eravamo riuscite insieme a trasformarlo e a restituirla alla vita.

Come trovai mirabilmente riassunto nel libro dello psichiatra David Servan-Schreiber Guarire, esisteva un cervello emotivo che aveva in sé le chiavi anche dell'autoguarigione a più livelli.

Ecco le risposte che cercavo. Fu allora che cominciò lo studio dei lavori di Joseph LeDoux e Antonio Damasio, di Jaak Panksepp e Paul Ekman.

Una volta compresa la centralità delle emozioni, sarebbe stato sufficiente trovare il modo di raggiungerle e ripararle... et voilà, il cambiamento sarebbe avvenuto. In effetti, in molti casi accadde davvero così.

In quegli anni ho ricevuto moltissime soddisfazioni nel lavorare con le emozioni, aiutando i pazienti ad approcciare quel mondo interiore del sentire che invece molti di loro ritenevano di dover controllare. Tenevo all'epoca anche i primi corsi divulgativi, che avevo provocatoriamente intitolato "Il guerriero emotivo" proprio per sfatare il mito inveterato che sentire le emozioni significasse essere "fragili".

Ma in quegli stessi anni iniziavo a confrontarmi in modo talora persino brutale con le resistenze al cambiamento, con il permanere di condizioni insoddisfacenti, con le tante persone che avevano fatto mille percorsi e non erano cambiate e questo non solo in ambito professionale, naturalmente, ma nel complesso del mio vissuto e anche in qualcuno a me molto vicino.

Cominciai allora a leggere i testi a cavallo tra biologia e fisica quantistica di Robert Lanza e Bob Berman, così come di Jim Al-Khalili e Johnjoe McFadden, che parlando di "fisica della vita" spostavano sempre più il mio focus dalle emozioni in sé, intese quasi come un organo o un oggetto di studio, al processo in atto tra le emozioni e la persona e tra la persona e il terapeuta. Tutto si spostava dalle "cose" allo studio della relazione tra le cose.

Fu a questo punto che gli scritti di alchimia, di filosofia classica, letteratura chassidica, taoismo, uniti alle parole di Ippocrate, cominciarono ad acquisire un senso diverso.

Il problema non erano le emozioni, ma il sentire, cioè la capacità di un incontro cosciente, di una relazione con esse.

Come si poteva trasformare il sentire delle persone a partire dalle loro emozioni?

Il rischio sempre in agguato era quello di usare le emozioni come un farmaco. Mutatis mutandis: il solito, vecchio equivoco del cosa e del come. Non bastava dare un po' di emozioni a qualcuno per farlo stare meglio, figuriamoci per fargli passare un sintomo. Non era sufficiente insegnare un po' di meditazione stile pacchetto promozionale per fare incontrare a una persona la propria coscienza. Molte tecniche catartiche, per esempio quelle con il woweffect, dove piangi tantissimo e ti sembra di avere sentito in profondità magari fanno provare emozioni, ma non è detto che curino. Perché le difese che tu erigi a ciò che non ti va di te e della tua vita non scalfiscono l'assetto della tua personalità, e non ti permettono un confronto autentico con chi sei tu davvero.

Mi accorsi di come noi inganniamo il nostro sentire. E lo sperimentai, clamorosamente, anche in me.

Le bugie che diciamo a noi stessi su ciò che non va e ciò che vogliamo, per esempio, spiegano perché pur avendo seguito terapie varie, ancora non stiamo bene, oppure perché continuiamo a stare con qualcuno che ci rende infelici.

Abbiamo emozioni ancestrali che viviamo nel corpo, aneliti trascendenti che ci portano nell'anima e ci avvicinano alle stelle, siamo dotati di un sistema nervoso centrale che deve tradurre tutto questo e abbiamo immagini di come dobbiamo essere. E spesso c'è molta confusione in tutto questo. A pensarci fa girare la testa.

Durante una seduta, con una paziente affetta da un dolore addominale cronico e diverticolite, mentre lei mi riferiva del sapore amaro che le aveva invaso la bocca dal nostro incontro precedente, la invitai a soffermarsi proprio sulla sensazione fisica che sentiva. Poi, facendo sì che potesse rimanere in contatto con quella sensazione il tempo sufficiente perché dalle strutture sottocorticali la percezione giungesse alla corteccia, per essere elaborato in un significato e collegato alle cognizioni, spontaneamente le salì alla coscienza l'impulso di spingere con le braccia qualcosa via da sé.

La sollecitai a compiere quel gesto, calandosi nel sentire, e così un ricordo che aveva sepolto nella memoria riaffiorò: quando da piccola, per evitare che grattandosi potesse infettare le lesioni di una dermatite che la affliggeva, la tenevano con le braccia legate dietro la schiena.

Le chiesi di calarsi in quella sensazione e nel movimento che avrebbe voluto compiere, quando d'improvviso, in un fiotto di lacrime, mi disse: "Ho vissuto una vita costretta, ho fatto scelte non mie", riferendosi alla triste vicenda matrimoniale conclusasi con la morte del marito pochi mesi prima. I soprusi subiti, ai quali non si era mai ribellata, avevano trovato a questo punto un senso molto più profondo, quale eco di un imprinting ricevuto tanto, tanto tempo prima.

Questo è un esempio emblematico di come i sistemi cosiddetti bottom up, cioè dal basso verso l'alto, e top down, dall'alto verso il basso, cooperino: da sensazioni prettamente fisiche scaturite dal sapore amaro era emersa un'azione mai completata che si era concatenata con il ricordo infantile; mantenendo il contatto con il movimento interrotto e mai compiuto delle braccia, era sorto un insight, un lampo di coscienza sul significato di ciò che era accaduto nella vita della signora.

Il sentire ha dunque dentro le emozioni, ma non solo; il sentire è qualcosa di più, attiene al come di quel qualcosa che le emozioni dicono. Capii quanto, per via delle stesse emozioni che non abbiamo potuto sentire, ci allontanavamo da esso. Quanto ne avevamo paura, quanto ne eravamo anestetizzati.

Infatti, non tutte le esperienze connotate emotivamente curano. Come appresi da Diana Fosha, il cosiddetto "nucleo emozionale centrale" presenta caratteristiche ben precise e per questo è realmente trasformativo: non basta dire "Mi sento triste o arrabbiato" per essere certi di trovarsi di fronte a un'"emozione nucleare". Ci deve essere - come ben mostrato dagli studi di Damasio e verificato anche nel mio lavoro clinico - una componente somatica congruente, un'energia motoria o viscerale che, unita alle parole, rifletta lo stato integrato dell'emozione autentica.

Questi moti affettivi sono infatti l'impasto di più livelli della tua personalità, che, se stai bene, puoi sentire, realizzando così in te quello che cerchiamo di fare con la medicina integrata, non intesa come semplice giustapposizione di tanti approcci, ma come sintesi creativa, una polifonia che nella crescita complessiva dei tanti suoni crea armonia, tanto da divenire assai di più della somma delle singole note.

Si tratta dunque di poter accrescere la capacità di stare con se stessi nella propria complessità, sospesi tra la vita del mondo fuori e la vita dell'organismo dentro che s'incontrano nel tuo sentire.

Se sei lontano dal sentire, sei lontano dall'essere

Iniziai così a sperimentare anche su di me, che sono solita verificare in prima persona ciò che poi consiglio ai miei pazienti, i metodi bottom up, ovvero approcci che partono dal corpo per farne emergere la coscienza. Forse già la bioenergetica, in nuce, li prevedeva, e oggi trovano espressione nella biosistemica, nelle tecniche di trattamento di Peter Levine o di Bessel Van der Kolk, nella tecnica di Psicosoma di Pat Ogden o nella Integral Somatic Psychotherapy di Raja Selvam, per citare alcuni esempi.

Questi approcci potenziavano ulteriormente la tecnica centrale del mio lavoro ISTDP, facendo emergere dal corpo le sue memorie e svelando in quanti modi riusciamo a non sentirlo e ad abituarci alle sopportabili infelicità che ci infliggiamo. C'è da sperare - paradossalmente - che qualcosa le renda insopportabili, altrimenti saremmo disposti a non sentirle pur di non perdere quella zona di comfort che ci garantiscono.

Siamo pronti, infatti, a mettere da parte il sentire e a far tacere il corpo con un rapido farmaco, perché è sempre meno importante quel che proviamo rispetto all'immagine, al ruolo, all'aspettativa nostra e degli altri, al fare andare bene qualcosa, al fare avverare a tutti i costi quel sogno che abbiamo e che non possiamo sopportare di lasciar morire o constatare che non lo si è realizzato. Quando in realtà, come le foglie che si staccano per lasciare il posto a nuove foglie, anche i sogni e i desideri devono cedere il passo a nuovi sogni e nuovi desideri. Ma se sei lontano dal sentire, come puoi riconoscere la stagione dell'inverno da quella dell'estate, il tempo del buio e del ritiro, anche dei sogni, da quello dell'esplosione dei progetti?

Se sei lontano dal sentire, sei lontano dall'essere. Le emozioni possono anche gridare in te, posarsi sulla tua pelle, nella tua dermatite, o agitare le pareti del tuo colon, possono arrivare nei sogni notturni o nei disagi dei tuoi figli, ma se ti chiedi perché con l'intento di farle passare, senza ascoltarle, se sai tutto su di esse ma non permetti che si incarnino, se le pensi e ne parli ma non sei disposto a rischiare nulla, nulla muterà.

È il caso di un mio paziente, il quale, grazie ai tanti anni di psicanalisi, aveva acquisito una notevole preparazione nella psicodinamica del disturbo ossessivo di cui soffriva, eppure non voleva affrontare il senso di colpa per la rabbia che aveva accumulato nei confronti della madre e della ex moglie; non voleva assumerselo, piuttosto sarebbe tornato dalla ex moglie con la quale era infelice, nonostante lui stesso avesse tracciato un terribile collegamento tra il suo diniego interiore e il disturbo neurologico che aveva sviluppato e che appunto ne bloccava la mobilità.

La verità vi renderà liberi, è stato detto: ecco, fuggendo dal sentire, fuggiamo dalla verità, perché l'autenticità dell'incontro con le emozioni non è solo poesia, è incontro con forze naturali, universali, selvagge e per certi versi indomabili.

Talvolta ci pensa la vita a farcele incontrare nostro malgrado, come quando una donna incinta si trasforma in un'orsa o una lupa pronta a difendere in qualsiasi modo la creatura che ha dentro di sé. Fu così che una mia paziente, che aveva giustificato e scusato il marito che la maltrattava da anni, quando si ritrovò ad aspettare un figlio si sentì come risvegliata, non accettò più i piccoli grandi soprusi emotivi che lui le faceva e trovò il coraggio di andarsene.

Del resto, nei sette anni nei quali ho lavorato come psichiatra e criminologa presso l'SVSeD, Soccorso violenza sessuale e domestica della clinica Mangiagalli di Milano, ho spesso verificato come donne abusate e maltrattate giungessero presso il nostro centro a cercare aiuto solo quando la violenza familiare aveva colpito i loro figli. Su se stesse potevano portare allo stremo il peso di quella sopportabile infelicità, ma sui loro figli no. Come se, nonostante l'anestesia del sentire autentico e naturale, a un certo punto, in qualità di madri, "funzionarie della specie" ha detto qualcuno, fossero soggette al riemergere di quelle matrici animali di sopravvivenza che permettono il risveglio da quell'anestesia emotiva che aveva invece permesso di non sentire più quel che gli faceva male e non cercare più quel che gli faceva bene.

In altri casi sfiorare la morte ci è di aiuto. Una mia paziente aveva scoperto un nodulo al seno, che poi si è rivelato benigno, ma per alcuni giorni è rimasta preda degli scenari più terribili di malattia e morte e di colpo si è resa conto di quale fosse il suo vero blocco, il suo vero problema. Non il fatto di non poter lasciare il compagno, che non amava più, perché le dispiaceva e in fondo gli voleva bene, ma la paura di che cosa avrebbero detto gli altri, il timore che la sua immagine di brava persona alla quale va tutto bene sarebbe andata in frantumi, perché sotto l'effetto "doccia fredda" dell'ipotetica malattia si immaginava di andare dai genitori e dire loro: "Sono malata, lasciatemi fare la vita che voglio io".

Altre volte ci accorgiamo che non vogliamo lasciare questa vita, nonostante tutto, e allora di nuovo qualcosa di naturale e potente si risveglia in noi: un altro mio paziente, depresso cronico, ipocondriaco, che era stato seguito per anni da decine di medici, ha sviluppato una malattia autoimmune. A quel punto ha cominciato a guarire dalla depressione, si è reso conto di tutto il tempo sprecato covando rabbia contro la vita e ha deciso di affrontare quello che ha dentro invece che rassegnarsi a conviverci. L'idea di non poter più abbracciare e giocare con il nipote gli ha fatto sentire quanto lo ama e quanto si diverte con lui.

Sentire fa stare bene. Eppure, incredibilmente, è proprio dal sentire che provengono i danni del sentire, per via di quelle vicende dell'attaccamento infantile che hanno plasmato la stessa capacità di stare vicini al nucleo autentico e naturale di noi stessi e di cui parlerò nel prossimo capitolo.

Se lo potessimo sentire, tutto sarebbe vivibile, non ci sarebbe problema. Il problema infatti, come afferma Nicolás Gómez Dávila, non chiede soluzioni, chiede di essere vissuto. Allora paradossalmente ti restituisce a te stesso. Sei tornato tu, sei tornato unico e la tua vita degna di essere vissuta sino in fondo.

Data di Pubblicazione: 16 settembre 2019

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