Scopri le esperienze straordinarie che hanno formato uno dei più importanti ricercatori spirituali, leggendo l'anteprima della nuova biografia di Dan Millman.
Dan Millman: La vita di un guerriero di pace
Le basi
"Non si ricordano i giorni. Si ricordano gli attimi."
L'esperienza può essere l'insegnante migliore, ma quando iniziano le esperienze formative? Alla nascita, al concepimento o, come sostengono alcuni saggi, nelle vite precedenti? Qualunque sia la risposta, possiamo essere d’accordo sul fatto che il nostro io adulto cresce a partire dai semi della nostra infanzia.
I momenti della mia infanzia hanno fornito la base di tutto ciò che è seguito. Ripercorrere gli eventi della mia giovinezza è stato un esercizio interessante, inaspettato e, in qualche modo, inevitabile. La mia vita e la mia carriera di insegnante e scrittore hanno senso solo con il senno di poi.
In questa prima parte del libro ho messo tutte le mie carte sul tavolo: le mani che mi sono state date e come si è svolto tutto. Spero che i miei lettori si godano lo spettacolo mentre si rivela.
Momenti decisivi
"Ci sono momenti in cui l’unico mezzo di trasporto disponibile è un atto di fede."
Margaret Sheperd
Inizio primavera 1964. Ore 10:15.
Al primo Campionato mondiale di trampolino elastico, mi alzai in volo facendo dei salti mortali nell’aria della Royal Albert Hall di Londra. In quella che era la mia esibizione finale, dopo avere completato due salti con doppio avvitamento per un numero con dieci rimbalzi, brancolai nel buio. Non avevo idea di quale mossa fare dopo.
Non che fosse del tutto assurdo, dato che ero arrivato in aereo dalla California quella stessa mattina presto. Quattro ore di sonno agitato davano a quel momento di sospensione una qualità onirica. Ma era forse un sogno? A casa erano le 2:15 di notte.
Qualche ora prima ero entrato nel luogo dove si sarebbe svolta la gara e vidi al piano inferiore il caos controllato di atleti di quattordici paesi che si scaldavano su quattro trampolini. Vidi Gary Erwin, campione in carica delle competizioni universitarie della National Collegiate Athletic Association (NCAA), con una figura e uno stile da tuffatore che avevo visto in precedenza in televisione.
Poi Wayne Miller attirò la mia attenzione con una mossa che non avevo mai fatto, giustamente chiamata “il Miller”. Io ero il campione nazionale della Federazione di ginnastica degli Stati Uniti (USGF), motivo per cui ero stato invitato.
Gary, Wayne e i loro allenatori (che, venni a sapere, avrebbero fatto parte della giuria) erano arrivati diversi giorni prima per acclimatarsi. Io avevo diciotto anni, avevo il jet lag ed ero solo.
Nessuno avrebbe scommesso su di me dopo avermi visto fare alcune semplici sequenze di riscaldamento. Avrei dovuto fare affidamento sulla fede piuttosto che sulla fiducia in me stesso. Non importa chi vince il riscaldamento, rammentai a me stesso.
Solo quando salii sul tappeto elastico per iniziare il mio numero finale mi resi conto che non ero completamente solo. Scrutando tra il pubblico in silenziosa attesa e la giuria, alzai lo sguardo verso il tavolo del presentatore e vidi non solo George Nissen, l'inventore del trampolino elastico e organizzatore di quei campionati, ma anche, con mio grande stupore e gioia, Xavier Leonard, mio professore e primo istruttore di trampolino, che mi guardava raggiante.
Un brivido mi salì lungo la schiena.
Lì, a mezz'aria, mi giocavo tutto e dovevo andare avanti, dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa. E così feci. Il mio corpo e anni di allenamento decisero per me una mossa dietro l’altra. Rimbalzi zen, assenza di mente (mushin), come dicevano i guerrieri samurai. Altri parlano di quello stato di assorbimento come di concentrazione, flow o esperienza di picco.
Molti sport e giochi come il tennis, il golf, il baseball e il nuoto richiedono capacità atletiche, ma nessuno rischia di morire durante l'allenamento. Negli sport da guerrieri come il trampolino elastico e la ginnastica, l'arrampicata solitaria senza corde, il surf su grandi onde, il base jumping e altre sfide estreme, il corpo è in gioco: un momento di disattenzione, un unico scivolone, può portare a una sciagura.
Anni prima, un amico e io ci sfidavamo a un gioco rischioso in cui io facevo un salto mortale all’indietro dopo l’altro fino a quando il mio amico non invocava una mossa difficile, il doppio salto indietro con doppio avvitamento.
Era un ordine urlato che sembrava aggirare la mia mente cosciente e andare dritto al corpo, che poi eseguiva la mossa da solo. Era spaventoso ed esaltante giocare a stare sul limite del possibile. Non avevo mai immaginato che quel gioco spensierato potesse significare così tanto: fino a quei momenti sospeso nell’aria.
Nessun passato, nessun futuro, nessun io. Solo consapevolezza cinestetica mentre il mio corpo completava una mossa dopo l’altra: un doppio salto mortale con avvitamento completo, un altro avvitamento multiplo...
Incerto su quante mosse avessi completato, dovetti fidarmi degli anni di conteggio subliminale, finendo con un tre quarti di salto mortale all’indietro e un doppio salto mortale all'indietro partendo dalla pancia, per poi atterrare in piedi.
Fine. Era fatta. Mi guardai intorno, raccogliendo gli applausi del pubblico che si levavano.
Tornando alla mia sedia, alzai lo sguardo e vidi il professor Leonard che mi sorrideva. Sentii mani che mi toccavano le spalle e che mi davano colpetti alla schiena. Alla fine la realtà si manifestò: avevo appena vinto il Primo campionato mondiale di trampolino. Ricordo vagamente di avere stretto la mano a Gary e a Wayne mentre salivo sul podio più alto.
Con squilli di tromba, George Nissen mi consegnò una coppa d’argento. I flash lampeggiavano. Le macchine fotografiche scattavano.
Mentre il taxi mi portava a Heathrow per il volo di ritorno, mi colpì il fatto che l’autista non sapesse nulla della competizione, proprio come le folle di londinesi e turisti che si immergevano precipitosi nelle loro vite. Quel giorno fu solo una piccola nota a piè di pagina nella storia dello sport.
Tuttavia, la mia percezione delle possibilità che la vita offre cambiò. No, nella mia mente non ero una leggenda (né lo sarei mai stato), ma nei primi diciotto anni della mia vita avevo realizzato qualcosa di concreto che nessuno avrebbe mai potuto portarmi via.
Sospirai e mi sistemai sul sedile dell’aereo mentre accelerava e mi sollevava, ancora una volta, in cielo. Non riuscivo a dormire e scivolai in un fiume di ricordi su tutto ciò che mi aveva portato fino a quel momento...
Gli inizi
Ho passato l’infanzia a Los Angeles, in un appartamento in affitto su Silver Lake Boulevard, una strada trafficata che, secondo i racconti familiari, fu vicina a essere il luogo della mia fine quando uscii zampettando nel traffico spedito per andare a riprendere una palla. Mio padre, che si era distratto un attimo permettendomi di scappare, mi strappò dal ciglio della strada e mi diede l’unica sculacciata della mia infanzia.
Altro esempio di assunzione precoce di rischi: durante una gita al mare con la famiglia mi misi a correre verso le onde che si infrangevano sulla spiaggia. Sbattuto giù, ruzzolai sott'acqua e, prima che le robuste braccia di mio padre mi facessero uscire dalla schiuma sputacchiando, intravidi un cielo blu increspato e, sul fondo sabbioso, delle conchiglie che scintillavano illuminate dal sole.
Quando avevo sei anni ci trasferimmo in una casa di un quartiere con molte famiglie giapponesi e ispaniche, i cui figli diventarono i miei compagni di scuola. Il tempo libero lo passavo con Steve Yusa, che a nove anni, l’età di mia sorella DeDe, era già scafato e sapeva cavarsela. Tutto ciò che imparavo da Steve lo trasmettevo ai miei amici più giovani Timmy e Tootie, assumendo il doppio ruolo di studente e insegnante.
Un pomeriggio mi unii a Steve e ai suoi amici più grandi, che stavano esplorando una casa in costruzione. Quel giorno scalammo la nostra montagna urbana per goderci dal tetto di compensato la vista dall’alto. Sei metri più in basso c'era un grosso mucchio di sabbia: un'avventura bell’e pronta.
Steve fu il primo a saltare, seguito dai suoi amici. “Tocca a te, Danny”, mi disse.
Mi avvicinai al bordo, poi indietreggiai. Il cuore mi batteva forte.
“Fallo!”, gridò Steve.
“Non posso, è troppo alto!”.
“Avanti, dai!”, replicò. Poi disse una cosa che avrei ricordato per il resto della mia vita: “Smettila di pensarci e salta”.
Quindi saltai. Quel momento di coraggio mi valse alcuni secondi di volo senza peso, seguiti da un atterraggio morbido mentre affondavo fino alle ginocchia nel mucchio di sabbia.
Passammo l’ora successiva a salire e a saltare dal tetto. Da allora acquisii un gusto per le acrobazie ardite giocando sul limite della paura.
Poco dopo tornai con i piedi per terra: all’asilo ero stato iscritto presto e quindi sarei stato per sempre il più giovane in classe: meno maturo socialmente, più piccolo fisicamente, più lento ad afferrare i concetti matematici e ignaro dei segreti che i miei coetanei sembravano comprendere. Sentendomi come Clark Kent, sognavo di diventare un supereroe.
Forse è per questo che durante la mia infanzia Peter Pan e Superman erano quelli che amavo di più. Ripensandoci, Peter incarnava l’eterna fanciullezza e la libertà, mentre Superman rappresentava la forza e il potenziale umano. Ed entrambi potevano volare. Cercavo l’altitudine, quindi mi arrampicavo sugli alberi, mi dondolavo sulle corde e saltavo dai tetti più bassi con paracadute improvvisati, desideroso di elevarmi al di sopra del mondo ordinario di tutti i giorni.
Allora il mio mondo era piccolo e i miei orizzonti limitati.
Mia madre, che influì sui miei primi sguardi, parlava della fatina dei denti, del coniglietto pasquale, di Babbo Natale e di Dio come di storie di fantasia dello stesso genere. L'influenza di mio padre si fece sentire principalmente nel campo della salute e del benessere fisico.
Sentendosi in dovere di tramandarmi il retaggio ebraico, papà mi incoraggiò a entrare alla scuola ebraica, ma non faceva per me. Senza un legame con una tradizione o insegnamenti religiosi, dovevo trovare la mia strada, che si manifestava attraverso una fede crescente e in continua evoluzione nel misterioso funzionamento del mondo naturale.
I boomerang e una pistola ad aria compressa
Negli anni Cinquanta vagavo nel regno della fantasia e dei ricordi: mio cugino Davy e io, ipnotizzati dai maghi-commessi di Hollywood Magic, scambiavamo le nostre paghette per trucchi come le ghigliottine per le dita o i mazzi di carte invisibili. Lanciavamo i boomerang nel parco e io sviluppai una tale abilità con la frusta da riuscire a colpire una cannuccia nella bocca di Davy.
Durante l’infanzia diventai esperto anche di yo-yo, fionda, frisbee, corde facendo Tarzan, lazo prendendo al collo chiunque fosse raggiungibile. Dopo un breve periodo dedicato a costruire e a fare volare un aquilone, presi lezioni di scherma, prima di buttarmi nel ruolo del ventriloquo con il mio pupazzetto.
Utilizzare tutte quelle abilità mi insegnò presto che ogni cosa è difficile fino a quando non diventa facile.
Dopo molte suppliche, mio padre mi comprò una pistola ad aria compressa e mi diede una lezione sul suo uso sicuro.
Ero un buon tiratore e mi esercitavo con la stessa passione ossessiva che avevo dedicato alle mie precedenti occupazioni.
Ma un giorno, per capriccio e senza aspettarmi minimamente di colpirlo, presi di mira la minuscola sagoma di un uccello su un filo a tre case di distanza. Sparai, poi vidi l’uccello cadere. Preoccupato di averlo ferito e che potesse soffrire, scesi in strada, salii le scale di quella casa e mi arrampicai sul tetto.
L’uccello giaceva morto con un buco in testa.
Poche settimane dopo, mentre un passero volava sopra di me, puntai con noncuranza la canna della pistola verso il cielo e, senza nemmeno mirare, sparai. L'istante successivo l’uccello precipitò in alcuni cespugli. Inorridito, corsi a cercarlo. Mentre mi avvicinavo, il passero si alzò e volò via con mio grande sollievo.
Quello stesso giorno regalai la pistola ad aria compressa.
Data di Pubblicazione: 23 febbraio 2022