Mito: hai quello che ti meriti
Mito: hai quello che ti meriti
Sambo, Sambo, piccolo negretto Sambo!” ripetevano le bambine nel parco giochi della scuola mentre circondandomi, mi deridevano a causa della mia pelle scura e dei miei capelli crespi. “Il piccolo negretto Sambo”, un bambino dell’India meridionale dalla pelle scura, era un personaggio di un libro per ragazzi che stavamo leggendo in classe, e sopportare queste crudeli prese in giro era la punizione per il privilegio di studiare in una scuola britannica privata.
La mia faccia era rossa per l’imbarazzo e la vergogna, e la mia mente di bambina di otto anni era in preda alla confusione, non sapendo come reagire mentre il cerchio si chiudeva attorno a me. ‘Perché fanno così?” mi chiedevo, sentendomi indifesa. “Non è colpa mia se ho questo aspetto! Che cosa dovrei fare? Rispondere agli insulti? Cercare di colpirle? Dirlo alla maestra?”.
Mi sentivo in trappola, incapace di muovermi. Cercai rapidamente con lo sguardo l’insegnante incaricata di sorvegliarci durante la ricreazione. Alla fine la individuai, ma era all’altro capo del parco giochi e stava scherzando con un gruppo di bambini che giocavano a “ce l’hai” e volevano che si unisse a loro. Non cera speranza che mi notasse; non sarebbe comunque riuscita a sentirmi con tutta la confusione creata da centinaia di bambini che saltavano la corda, giocavano a palla e così via. Le mie tormentatrici si erano assicurate di essere abbastanza distanti dall’insegnante prima di iniziare a insultarmi.
Trattenendo le lacrime, cercai di scappare, sperando di rompere il cerchio che si stringeva su di me. Ma, anche se cercavo di passare, le bambine continuavano a circondarmi, rimanendo vicine e tirandomi per lo zaino per impedirmi di scappare, fino a quando non raggiungemmo il muro di pietra della scuola, ai margini del parco giochi.
Sei piccole bulle
Quanto desideravo che il cielo si aprisse con un rombo di tuono e che un supereroe dei programmi Tv che guardavo arrivasse volando e colpisse le mie persecutrici, portandomi in salvo mentre ridevo di tutte loro! Ma a quel punto mi sarei accontentata di qualcosa di molto meno teatrale, per esempio di qualcuno, chiunque, forse anche di una delle altre ragazzine, che improvvisamente si fosse deciso a difendermi e a ribellarsi alle sue compagne. La mia immaginazione considerò tutte le opzioni che desideravo in quel momento ma, purtroppo, nessuna si manifestò.
E così rimasi lì, con le spalle al muro e le sei bulle che mi sovrastavano. Ero invisibile a chiunque altro al mondo tranne a queste sei ragazzine, tutte più alte di me. Per un momento considerai di prenderle a calci nelle gambe nel tentativo di liberarmi, ma tutto ciò che riuscii a fare fu di schiacciarmi sempre più contro il muro, cercando di allontanarmi da loro il più possibile, mentre chiudevo gli occhi e aspettavo che dessero il peggio di sé. All’improvviso, la più alta, una bambina di nome Lynette, afferrò le cinghie del mio zaino e quasi mi sollevò da terra. Rimasi in bilico sulle punte dei piedi quando mi tirò a sé, mi guardò dritta negli occhi e sibilò: “Dacci i soldi del pranzo, Sambo!”.
Ormai stavo piangendo, non riuscendo a controllare le lacrime che mi scendevano sulle guance. Tremavo mentre Lynette allentava la presa, in modo che potessi prendere dallo zaino il denaro che mio padre mi aveva dato quella mattina per comprare un succo di frutta e una merendina durante la ricreazione. Proprio quando stavo per consegnare le monete a Lynette, suonò la campanella. Lynette agguantò il denaro dalla mia mano, e tutte le bambine si girarono e cominciarono a correre verso l’ingresso dell’edificio, dove avrebbero continuato la giornata come se nulla fosse successo. Mentre correvano via, le gambe mi cedettero e crollai a terra. Rimasi lì a singhiozzare senza riuscire a fermarmi.
Golliwog fuor d’acqua
In quanto bambina indiana in una scuola inglese ai tempi in cui Hong Kong era una colonia britannica, ero proprio una rara eccezione. Ricordo ancora il giorno, all’inizio di quello stesso anno scolastico, in cui mia madre mi portò al colloquio di ammissione con la direttrice, una signora dall’aspetto severo con i capelli corti a caschetto. Il suo atteggiamento mi comunicava che ero fortunata ad avere l’opportunità di studiare in quel prestigioso istituto e di conseguenza avrei dovuto essere grata per il privilegio.
Quando cominciai a frequentare le lezioni, non solo le compagne mi schernivano nel parco giochi con l’epiteto “piccolo negretto Sambo”, ma mi chiamavano anche golliwog (o wog, che era ancora più offensivo), dal nome di un personaggio di colore con grandi labbra rosse, capelli crespi e occhi spalancati, molto diffuso nei libri per l’infanzia in quella parte del mondo. Siccome prendevo buoni voti abbastanza facilmente, mi chiamavano anche “perfettina”. Arrivavano persino a forzare il mio armadietto per rubarmi le cose, per esempio le mie nuove matite colorate, solo per dimostrare che potevano farlo. Io ero così timida e introversa che non reagivo mai, continuando a essere un facile bersaglio.
A volte, il bullismo di cui ero vittima mi buttava talmente giù che mi nascondevo in uno stanzino nel bagno delle ragazze e piangevo fino a non avere più lacrime. Mi ricordo anche parecchie notti passate a piangere fino a quando non riuscivo ad addormentarmi. Mi sentivo intrappolata in un angolo buio e profondo da cui non c’era modo di scappare. Nonostante i buoni voti, odiavo la scuola con tutta me stessa.
Le prese in giro mi umiliavano perché mi sembrava che avere la pelle scura fosse qualcosa di cui vergognarsi. Ero inoltre convinta che doveva esserci qualcosa di sbagliato nel mio atteggiamento o nelle cose che dicevo, tanto da provocare un tale comportamento negli altri. Ma non riuscivo a capire cosa facessi o dicessi di sbagliato, in modo da poterlo cambiare e da indurre finalmente le mie compagne ad apprezzarmi. Presto iniziai a credere di essere veramente un disastro e di non essere all’altezza di tutti gli altri.
Siccome ero sicura che in qualche modo fosse tutta colpa mia, non ne parlavo mai a nessuno, né alle insegnanti né ai miei genitori. In particolare non volevo deludere mio padre e mia madre, che pensavano che stessi andando molto bene a scuola. Forse avevo anche il presentimento che denunciare le bulle le avrebbe solo fatte arrabbiare di più e che probabilmente si sarebbero vendicate per aver fatto la spia.
Un altro fattore che mi remava contro era che provenivo da una cultura dove abbondavano le disuguaglianze tra i generi, in cui le donne erano considerate cittadine di serie B. Ero perfettamente consapevole di questa disuguaglianza fin da quando ero piccola. Anche se non ebbe un ruolo diretto nella mia esperienza di bullismo, poiché le mie persecutrici erano tutte femmine, questo fattore contribuì a rinforzare la mia bassa autostima in altre situazioni in cui venivo maltrattata.
Il tradimento di Riyana
A un certo punto, durante quell’anno, feci amicizia con un’altra bambina indiana di nome Riyana, che aveva un anno più di me. Anche lei era vittima di bullismo, e in poco tempo diventammo molto intime. Era così bello avere una migliore amica; per la prima volta, sentivo di poter condividere con qualcuno tutto quello che mi succedeva. Stavamo sempre insieme, credendo che in quel modo avremmo potuto contrastare le nostre persecutrici.
Ci saremmo difese a vicenda, guardandoci le spalle l’un l’altra.
Trovammo nascondigli segreti nell’enorme labirinto di corridoi e cortili della scuola, posti in cui ci sentivamo al sicuro. Portavamo la merenda e il pranzo in questi luoghi segreti, sapendo che non sarebbe arrivato nessuno a rubarceli. Inoltre, dopo la scuola frequentavamo le reciproche case, e a volte, nei fine settimana, dormivamo insieme a casa dell’una o dell altra. Eravamo entrambe dei maschiacci e ci piaceva andare in bicicletta e sui pattini a rotelle, giocare a calcio e a cricket.
Poi un giorno tutto cambiò. A quanto pare, Lynette e il suo gruppo avevano chiuso Riyana in un angolo durante la ricreazione, minacciando di picchiarla. Riyana, in un momento di debolezza, disse che si sarebbe unita a loro contro di me e che le avrebbe portate al mio nascondiglio se l’avessero lasciata andare. Mi offrì come merce di scambio, come agnello sacrificale, per così dire, per togliersi dai guai. Lynette e le sue amiche accettarono l’accordo.
Immagina come rimasi scioccata quando Lynette e la sua banda, al grido familiare di “Sambo, Sambo!”, mi trovarono in uno dei nostri nascondigli preferiti. Ma la mia sorpresa fu niente in confronto al trauma di scoprire che Riyana era una di loro! La mia migliore amica, invece di venire in mio soccorso e prendere le mie difese, le aveva condotte dritte a me! Ero così ferita dal modo in cui si era rivoltata contro di me che il suo tradimento mi sembrò di gran lunga peggiore del bullismo. Questo, più di ogni altra cosa, mi fece sentire davvero indegna come persona.
Questo testo è estratto dal libro "E Se Questo Fosse il Paradiso?".
Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017