La pedagogia del cuore
La pedagogia del cuore
In educazione è meglio perdere tempo che cercare di guadagnarne
Rousseau
Da sempre, la pedagogia è la disciplina che si occupa di studiare le teorie, i metodi e i problemi relativi all’educazione dei giovani. Nella mia formazione ho iniziato a confrontarmi con i vari modelli pedagogici per mio interesse personale, spinta dal bisogno di capire come poteva essere che un insegnante, dopo aver affrontato esami su esami di tipo teorico, si trovi poi ad esplicare un lavoro estremamente delicato, cioè formare le future generazioni, senza una reale preparazione di tipo pedagogico. Così l’insegnante è custode, è coltivatore diretto di un terreno tanto fertile quanto arido, a seconda di come verrà trattato, ma senza conoscere in profondità l'ars agricola.
Il materiale umano, i nostri allievi, non sono delle macchine a cui possiamo trasmettere il nostro sapere, dando loro dei comandi e delle istruzioni come si fa nella programmazione di un computer; i nostri alunni sono esattamente come noi: creature meravigliose, dotate di un cervello molto più ricettivo e malleabile del nostro (ormai saturo di informazione e disinformazione), e non solo, parrò ironica o sarcastica, ma i nostri ragazzi sono dotati anche di un corpo, troppo spesso dimenticato dietro il paravento-banco. Eppure il cervello è contenuto nel corpo dal quale riceve segnali esogeni ed endogeni.
Il nostro lavoro di trasmissione dei saperi viene quasi azzerato se il corpo non percepisce stimoli psico-fisici positivi. Molto spesso capita di trovarsi di fronte alla domanda: “come mai lo stesso insegnante nel proporre la stessa lezione in classi diverse sortisce effetti differenti nei risultati dei due gruppi e peggio ancora nei singoli risultati?”. A tal proposito, non posso fare a meno di soffermarmi a riflettere su quanto teorizzato da Stephen D. Krashen nella glotto-didattica affettiva, in cui egli distingue tra l’acquisizione profonda, stabile, che genera comprensione e produzione linguistica con processi automatici, e l'apprendimento razionale e volontario, ma di durata relativamente breve, che funge da monitor per l’esecuzione linguistica.
L’acquisizione è un processo inconscio che sfrutta le strategie globali dell’emisfero destro del cervello insieme a quelle analitiche dell’emisfero sinistro: quanto viene acquisito viene a far parte stabile delle abilità di ogni persona, ed è sulla competenza linguistica che si basa la produzione linguistica di ogni persona. D’altro canto, l’apprendimento è un processo razionale, governato dall’emisfero sinistro e basato sulla memoria a medio termine, non è, perciò, definitivo. Alla base della teoria di Krashen sta, comunque, l’idea che si debba lavorare per provocare acquisizione all’allievo.
Non basta offrire un input comprensibile perché si abbia acquisizione: serve una condizione particolare, l’assenza di un filtro affettivo, cioè di quella forma di difesa psicologica che la mente erge quando si è chiamati ad agire in stato di ansia, quando si ha paura di sbagliare, quando si teme di mettere a rischio la propria immagine e quindi viene minata l’autostima, e così via. In presenza di un filtro affettivo attivato non si può avere acquisizione, ma solo apprendimento, ammesso che questo avvenga. La teoria di Krashen, benché riferita principalmente all’acquisizione delle lingue, per quanto ho potuto sperimentare nella mia esperienza, è fondamentale in ogni processo cognitivo messo in atto in qualsiasi tipo di lezione. I filtri affettivi sono strumenti che noi tutti mettiamo in atto se non ci sentiamo in condizioni favorevoli. Mi torna in mente quanto già ho scritto sulla mia esperienza di alunna nella scuola media.
Il ragazzino che aveva bisogno di recupero
Inserisco un altro pezzo autobiografico per comprendere pienamente il tema che stiamo affrontando. Un’esperienza significativa è quella che ho vissuto l’anno in cui per l’attuazione della riforma Gelmini venivano tagliate due ore settimanali di italiano nella scuola secondaria di primo grado, per cui da essere ad un passo dal tanto desiderato ruolo, mi ritrovai nel mese di novembre a non avere ricevuto neanche una chiamata dai presidi e così dovetti cogliere l’opportunità di accettare un contratto di collaborazione continuativa con la Regione Puglia, contratto che prendeva il nome dal progetto che si andava ad attuare: “Diritti a scuola”, che la Regione mise in atto esplicitamente per recuperare le abilità di base degli alunni della scuola dell’obbligo e implicitamente per reintegrare i docenti precari che dalla riforma avevano subito una delle più basse ingiustizie della storia della scuola.
Un progetto innovativo, una formula nuova tutta sperimentale, ma soprattutto tutta da inventare in quanto ciascuna scuola poteva attuare, sulla base di linee generali comuni, la sua formula didattica vincente. Arrivata nella scuola media assegnatami, mi ritrovai di fronte una vera possibilità per imparare a fare l’insegnante. Gli alunni che mi furono affidati avevano serie difficoltà e nessuno di loro raggiungeva gli obiettivi minimi, direi di sopravvivenza, diciamo gli alunni che un’insegnante di italiano cerca di aiutare in tutti i modi, ma che sono talmente in difficoltà che solo un intervento didattico-divino può salvare. Inizialmente non nascondo di avere avuto una fase di totale scoramento.
Ma dove sono finita? Che scorrettezza affidarci solo 'sti casi disperati! Dovrà passare anche questa disavventura! Ma quest’anno che male ho fatto per meritarmi 'sto lavoro? E tante altre imprecazioni di vario genere, tutte incentrate sulla lamentela.
Ad essere onesta, in quell’avventura non mi trovai mai sola, con me c’erano altre tre colleghe, altrettanto precarie, che come me vivevano il disagio professionale e personale, di un’esperienza che non sapevamo dove ci avrebbe portate. In particolare, i “favolosi alunni” frequentavano la seconda e terza media, noi eravamo una docente di Italiano e una di Matematica per anno scolastico. Io e Rossella (la collega di Matematica con la quale dividevo l’avventura) ancora non lo sapevamo ma avevamo avuto la possibilità di vivere una delle esperienze più dure e allo stesso tempo belle della nostra carriera da precarie della scuola. Le professoresse precarie con gli alunni più “sgarruppati” dell’istituto. Avevamo entrambe già avuto la possibilità di fare le insegnanti di sostegno e avevamo sperimentato la sensazione di essere di livello inferiore rispetto alla docente di Italiano e Matematica della classe, ma tutto sommato eravamo docenti di classe, avevamo registri ufficiali, alunni in difficoltà certificati, incontri con équipe pedagogica, una voce in capitolo nel consiglio di classe. Con i “Diritti a scuola” avevamo uno spazio nei sotterranei della scuola, svolgevamo la percentuale maggiore del nostro servizio di pomeriggio, non avevamo una classe vera, ma dei “fuorusciti disadattati” da addomesticare, non avevamo un posto nel consiglio di classe e - ulteriore “gratificazione” - ricevemmo il primo stipendio solo nel mese di aprile.
Una strategia vincente.
Come vivevamo noi tutto questo? Forse la giovane età ci permetteva di riderci molto su, o forse abbiamo messo in atto una strategia di difesa che poi si rivelò vincente.
I nostri alunni venivano descritti nei documenti di presentazione come degli alunni in difficoltà, ma soprattutto privi di ogni sorta di motivazione. Gran parte del primo periodo fu per me e Rossella un importante tirocinio di insegnamento emotivo, perché lavorammo sulla motivazione, incoraggiandoli, cercando di conoscerli e di farli sentire importanti per noi. Ad essere onesta fu un lavoro che servì anche a noi, per far sì che i nostri alunni iniziassero a rendere anche la nostra presenza importante ai loro occhi e non solo come le “prof. tate” del pomeriggio. Le dinamiche dell’ambiente classe erano tutte sballate, non per questo peggiori della normalità.
Come dicevo, gran parte del lavoro fu certamente cercare di far sentire i nostri alunni importanti per noi nonostante tutte le loro difficoltà. Incredibilmente ci ritrovammo a riscontrare che alcuni di loro iniziarono ad ottenere risultati positivi nelle verifiche ufficiali. In particolare, non dimenticherò Domenico, un ragazzino smilzo, tutto gentile, con l’occhio furbetto, abbastanza diverso dai compagni di sventura. In effetti la sua documentazione non riportava gravissime difficoltà tuttavia un’insufficienza in grammatica bastava ad avergli garantito un posto tra noi. La sua insegnante curricolare aveva voluto provare la carta del recupero intensivo per dargli una possibilità e non aveva sbagliato; lavoravamo in piena sintonia e sinergia e ben presto i risultati iniziarono a farsi vedere.
Dopo la prima fase motivazionale, Domenico iniziò a fare domande in classe durante le lezioni della sua prof., soprattutto iniziò ad ottenere risultati perché più sicuro di sé a tal punto da anticipare i compagni nelle lezioni. Una sorta di miracolo? No, semplicemente un ragazzo che di per sé aveva delle qualità, ma che essendo fondamentalmente insicuro e timido aveva trovato la fiducia dell’insegnante di recupero e aveva percepito che anche la sua prof, aveva tutta la volontà di vedere quale fossero le sue reali capacità. Il massimo della gioia fu vedere il suo sguardo e la sua mimica mentre mi raccontava di aver preso 10 in analisi logica: “Professoressa non ho sbagliato niente! Niente! Niente!”.
Non riuscimmo ad ottenere gli stessi fantastici risultati con tutti, però la maggior parte di loro iniziò a sentirsi accettato e accolto.
La metafora del contadino.
Mi piace molto riprendere la metafora del contadino per comprendere a pieno quanto finora detto: il contadino non deciderebbe mai di andare a seminare su un terreno arido o in una giornata di piogge torrenziali, egli è molto attento alle condizioni in cui il terreno si trova e, prima di seminare, prepara la terra ad accogliere quel seme, perché dia frutto. Questo dovrebbe fare l’insegnante con i suoi alunni, è imprescindibile per la riuscita a lungo termine del suo lavoro, certo è impegnativo e richiede tempo, molto tempo ma come dice Rousseau “in educazione è meglio perdere tempo che guadagnarne”. So già quale potrebbe essere l’osservazione critica che mi si potrebbe fare: “ma questo tipo di esperienza la possono mettere in pratica solo i docenti che hanno più ore”. Bene, a tale proposito è opportuno chiarire un concetto: di solito un insegnante che ha più ore ha più materie e quindi anche quest’ultimo potrebbe avere l’assillo del tempo e dei programmi da terminare.
Io sono convinta che quanto insegniamo passa molto di più se mostriamo la nostra umanità, se entriamo in relazione con i nostri alunni. Certamente non una relazione amicale, ma da educatori e - perché no? - da compagni di viaggio un po’ più esperti.
La pedagogia del cuore non riguarda solo il cuore e le emozioni dei nostri allievi, ma anche la nostra. Non si può negare che ci sono delle volte in cui siamo desiderosi di andare in alcune classi e tal altre volte in cui il solo pensiero di una classe ci fa venire l’orticaria. La differenza? Noi siamo adulti, siamo dei professionisti, superiamo le nostre reticenze, facciamo appello al nostro senso del dovere e andiamo anche dove non abbiamo voglia. Oppure no e cadiamo nel circolo vizioso che ci vede diventare aggressivi, autoritari, indifferenti ai nostri alunni, i quali a loro volta rispondono mettendo in atto le stesse identiche tecniche. Questa è crisi. Capita nella carriera di tutti, è quasi inevitabile e a seconda della nostra capacità di interrompere lo schema negativo attuatosi, talvolta succede che si cade nella ragnatela dell’inadeguatezza, della stanchezza, della paura del giudizio dei colleghi. Un’ombra, questa, che aleggia sull’insegnante in questa situazione che può essere superata, ma può anche cronicizzarsi e diventare patologica, trasformandosi in sindrome da Burn-out. Certamente l’insegnamento è sempre diretto alla mente, al cuore e alla socialità dell’allievo, come afferma Meazzini nel suo interessante saggio intitolato L’insegnante di qualità, ma io direi che l’insegnamento è un processo che coinvolge il docente, esso stesso modello sistemico continuamente in discussione e modificazione per una più proficua riuscita e realizzazione della sua umana professionalità.
Andare oltre il fare verso l’essere.
In fondo “la relazione educativa dovrebbe andare oltre il fare verso l’essere”, dovrebbe essere questo il paradigma fondamentale nel processo educativo di qualità. Solo il professionista che sa “essere” sa anche educare, perché educare non è solo “saper fare e tecnicismo”; l’educazione dell’essere umano passa attraverso la “magia” dell’incontro tra due esseri umani. Parranno strane e superate affermazioni, ma troppe volte mi imbatto in una scuola che agisce tecnicamente, dimenticando la finalità educativa, che nonostante venga trattata in lungo e in largo da sapienti docenti universitari, pedagoghi e psicologi, spesso viene dimenticata o relegata a ruolo di serie B.
Quando lo capiremo che istruire è qualcosa di sterile se non è accompagnato dalla crescita del giovane? Avete mai visto un contadino che spiega con rigore alle sue piante il metodo da utilizzare per crescere e poi se ne frega del loro processo di crescita? Lo avete mai visto voi un contadino che non cura le sue piantagioni lungo tutto il percorso che porterà al raccolto? Io no, ma ho visto tanti miei colleghi dimentichi del ruolo fondamentale che occupano nella vita dei ragazzi, dimentichi della funzione importante che abbiamo nel far appassionare i ragazzi alla cultura, innescando in loro il meccanismo delle curiosità che poi genererà motivazione e desiderio di imparare.
Facce troppo spesso arrabbiate, deluse e depresse viaggiano nei corridoi delle nostre scuole. E vero, ci sono momenti difficili, educare non è una sfida di poco conto e tanti insegnanti lo fanno con grande passione e con ottimi risultati, ma tanti di noi, col passare del tempo, perdono energia ed entusiasmo. Senso del dovere e professionalità troppo spesso vengono associate a facce troppo serie che non devono mai lasciar trasparire la propria umanità, eppure siamo esseri umani anche noi. Mi riesce difficile pensare a un don Milani che non rideva mai. Una certa eredità di stampo gentiliana fa ancora fatica a sparire dalle nostre esperienze.
Le persone non possono imparare riempendo loro il cervello di informazioni. La conoscenza dev'essere assorbita dalla mente, non semplice-mente ammucchiata nel cervello. E prima di tutto bisogna creare uno stato mentale che aspiri alla conoscenza, all'interesse e alla curiosità. Si può insegnare solo creando il bisogno di sapere.
Victor Weisskopf
Questo testo è estratto dal libro "Educare alla Felicità".
Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017