Costanza e continuità sul lavoro: ecco le chiavi fondamentali del successo! Scopri come realizzarti nel lavoro, leggendo l'anteprima del libro di Darren Hardy.
L'effetto cumulativo in azione
Conosci l'espressione «Chi va piano va sano e va lontano»? Hai mai sentito la favola della lepre e della tartaruga? Signore e signori, io sono la tartaruga. Datemi abbastanza tempo e sconfiggerò chiunque, sempre, in qualsiasi competizione. Perché? Non tanto perché sono il migliore o il più intelligente o il più veloce. Vincerò grazie alle abitudini positive che ho sviluppato e alla costanza che applico nel metterle in pratica.
Sono il più grande sostenitore al mondo della costanza. Sono la prova vivente che questa è la chiave fondamentale per il successo e, allo stesso tempo, uno degli scogli più insormontabili per coloro che faticano a realizzarsi. La maggior parte delle persone non sa come essere costante. Io sì. E per questo devo ringraziare mio padre: in pratica, lui è stato il primo a insegnarmi come innescare il potere dell'effetto cumulativo.
I miei genitori hanno divorziato quando avevo soltanto diciotto mesi, e mio padre mi ha cresciuto da solo. Non era esattamente un tipo tutto abbracci e coccole. Era un ex allenatore di football universitario e mi ha inculcato sin dall'inizio una mentalità orientata ai risultati.
Grazie a papà, mi svegliavo tutti i giorni alle sei del mattino. Non con un dolce colpetto sulla spalla e nemmeno con la radiosveglia. No, ogni mattina venivo svegliato dal rumore martellante e ripetitivo del ferro che sbatteva sul pavimento di cemento del nostro garage, attiguo alla mia camera. Era come svegliarsi a pochi metri da un cantiere edile.
Sul muro del garage aveva dipinto l'enorme scritta «Senza fatica non si ottiene nulla», che lui guardava mentre faceva una serie infinita di stacchi, affondi, girate al petto e squat da culturista vecchia scuola. Con la pioggia, la neve o il sole cocente, papà era sempre lì con i suoi pantaloncini e la felpa stracciata. Non saltava un giorno: avresti potuto regolare l'orologio in base alla sua routine.
Avevo più faccende da sbrigare di un domestico e di un giardiniere messi assieme. Dopo la scuola c'era sempre una lista di compiti a darmi il bentornato: strappa le erbacce, rastrella le foglie, spazza il garage, spolvera, passa l'aspirapolvere, lava i piatti e così via. E rimanere indietro a scuola non era contemplato. Ecco come stavano le cose.
Papà era il classico tipo «niente scuse». Non avevamo mai il permesso di stare a casa da scuola, a meno che non stessimo veramente vomitando o sanguinando, o non ci si «vedessero le ossa»: l'espressione veniva dal suo passato di allenatore, perché i giocatori sapevano che non potevano lasciare il campo a meno che non fossero seriamente infortunati. Un giorno, quando il quarterback gli chiese di abbandonare la partita, papà rispose: «No, a meno che non ti si vedano le ossa». Il quarterback si tirò giù il paraspalle e, in effetti, gli si vedeva la clavicola. Soltanto allora gli fu concesso di allontanarsi dal campo.
Compensare con il lavoro
Una delle filosofie essenziali di papà era: «Non importa quanto intelligente tu sia o non sia, devi compensare con il duro lavoro quello che ti manca in esperienza, abilità, intelligenza o talento innato. Se il tuo avversario è più intelligente, più talentuoso, o con più esperienza, allora devi semplicemente lavorare tre o quattro volte tanto. Puoi ancora batterlo!». Qualunque fosse la sfida, mi ha insegnato a compensare con il duro lavoro tutti quegli ambiti in cui ero svantaggiato.
Sbagliavo i tiri liberi durante la partita? Dovevo fare mille tiri liberi ogni giorno per un mese. Non ero bravo a palleggiare con la mano sinistra? Dovevo legarmi la mano destra dietro la schiena e palleggiare tre ore al giorno. Ero indietro in matematica? Dovevo mettermi sotto, prendere ripetizioni e lavorare come un dannato per tutta l'estate fino a che non l'avessi capita. Niente scuse.
Se non sei bravo in qualcosa, lavoraci più duramente e in modo più intelligente. Anche per lui, i fatti contavano più delle parole. Papà è passato dall'attività di allenatore di football a quella di rappresentante commerciale, dimostrandosi uno tra i migliori. Da lì è diventato capo, e infine è arrivato a possedere una sua impresa.
A me non sono state date tante direttive. Sin dal principio, papà ha fatto in modo che capissimo le cose da soli. Per lui era tutta una questione di responsabilità. Non ci martellava ogni sera con i compiti; dovevamo semplicemente mostrargli i risultati e, quando lo facevamo, venivamo premiati. Se prendevamo buoni voti, papà ci portava da Prings, una gelateria dove servivano porzioni enormi di banana split: sei palline di gelato con tutte le guarnizioni!
Spesso i miei fratelli non se la cavavano altrettanto bene a scuola, e così non potevano andarci. Era un evento importante, quindi lavoravi duro per essere premiato con quell'uscita.
La disciplina di papà mi è servita d'esempio. Era il mio idolo e volevo che fosse orgoglioso di me. Vivevo anche nella paura di deluderlo. Una delle sue massime è: «Sii quel ragazzo che dice: "No". Non è un gran risultato seguire la massa. Sii diverso dagli altri, "Sii l'eccezione" [idea che ha ispirato la tagline della mia azienda oggi]». Ecco perché non ho mai fatto uso di droghe: lui non ha mai insistito, ma io non volevo essere il genere di ragazzo che fa una cosa solo perché tutti gli altri la fanno. E non volevo deludere papà.
Grazie a lui, a dodici anni avevo imparato a gestire un'agenda di impegni degna del più efficiente direttore d'azienda. Qualche volta brontolavo e mi lamentavo (ero un ragazzino!), ma anche in quelle occasioni, segretamente, mi piaceva sapere di avere una marcia in più rispetto ai miei compagni di classe. Papà mi ha permesso di partire avvantaggiato, con la mentalità e la disciplina necessarie per essere scrupoloso e responsabile, e per raggiungere qualsiasi obiettivo io mi prefigga.
Una marcia in più
Papà e io scherzavamo su che razza di uomo ossessivamente brillante avesse tirato su. A diciotto anni la mia impresa aveva introiti a sei cifre, a venti possedevo una casa in un quartiere elegante, a ventiquattro i miei guadagni superavano il milione di dollari, e a ventisette ero ufficialmente un milionario fatto da sé con un'attività che mi garantiva un fatturato di oltre cinquanta milioni l'anno. Oggi ho soldi e beni sufficienti per mantenere la mia famiglia per il resto della vita.
«Ci sono un sacco di modi per rovinare un bambino» diceva papà. «Perlomeno il mio modo era valido! Mi sembra che tu te la sia cavata bene.»
Quindi, nonostante debba ammettere che ho dovuto esercitarmi a starmene con le mani in mano, vivere il momento presente e di tanto in tanto rilassarmi su una sedia a sdraio (senza portarmi dietro una pila di libri di economia o audio di automiglioramento), sono grato delle competenze che mi hanno trasmesso mio padre e gli altri mentori lungo la strada.
Effetto cumulativo rivela il «segreto» che si cela dietro al mio successo. Credo profondamente nell'effetto cumulativo perché papà si è assicurato che lo vivessi in prima linea, ogni giorno, fino a non poterne più fare a meno.
Ma, se sei come la maggior parte delle persone, tu non ci credi fino in fondo. E per molte ragioni perfettamente comprensibili. Non hai avuto la stessa formazione e lo stesso esempio che ti mostrasse come fare. Non hai sperimentato i vantaggi dell'effetto cumulativo.
A livello sociale, siamo stati tutti ingannati: siamo stati ipnotizzati dal marketing commerciale, che ci convince di avere problemi che non abbiamo e ci vende l'idea di rimedi immediati che possano «curarli». Siamo stati addestrati a credere al lieto fine che leggiamo nei romanzi e vediamo nei film. Abbiamo perso di vista il buon vecchio valore del lavoro duro e costante.
Data di Pubblicazione: 28 giugno 2021