L'empatia è un dono prezioso, ma a volte si rivela un duro fardello. Scopri come vivere al meglio la tua empatia, leggendo il nuovo libro di Anita Moorjani.
Empatico: Benedizione o condanna?
"La mia sensibilità è il mio superpotere!"
Essere empatici significa possedere doni potenti, ma può anche essere un'esperienza estremamente dolorosa. Se sei un empatico inconsapevole — come lo sono stata io per buona parte della mia vita — la tua condizione può essere davvero debilitante: senti di avere qualcosa di sbagliato, ti senti in difetto quando non riesci ad accontentare tutti, e non ti attribuisci il valore sufficiente per essere pagato per il lavoro che ami.
E pur avendo riconosciuto di essere un empatico, fino a quando non imparerai a controllare le tue abilità intuitive ti sarà difficile realizzarti completamente, perché "l’altro" ti sembrerà sempre più importante di te.
Ciò che ci crea problemi è, naturalmente, la nostra incapacità di distinguere i bisogni e le emozioni degli altri dai nostri, e il bisogno che tutti stiano bene prima di poter stare bene a nostra volta. Questo è ciò che ci esclude dalla nostra santità interiore, catapultandoci nei drammi delle altre persone; questa è anche la ragione per cui sentiamo di portare un pesante carico sulle nostre spalle.
Come abbiamo già visto, le nostre difficoltà derivano anche dal voler cercare di integrarci in un mondo che non ci corrisponde: siamo esseri a sei sensi in un mondo a cinque sensi.
Tra i nostri punti di forza, o doni, c’è proprio quella sensibilità che è per noi fonte di tanti problemi. Tale sensibilità ci connette all’aldilà, ma ci regala anche un intuito spiccato, la capacità di guarire naturalmente, e una facilità ad amare e fare sentire gli altri a loro agio. Gli empatici sono spesso anche profondi, coscienziosi, attenti, creativi, nonché grandi ascoltatori.
In questo capitolo vedremo alcuni lati negativi dei tratti caratteriali degli empatici, per poi guardare alla bellezza di questa particolare sensibilità per capire in che modo può aiutarci ad accettare e abbracciare ciò che siamo davvero.
Avversione per le critiche / Dipendenza dall’approvazione
Per noi empatici la frase "Bastoni e pietre possono rompermi le ossa, ma le parole non mi faranno mai del male" — espressione che usavamo da bambini — non è vera. Dentro di noi le critiche si ingigantiscono. Per esempio, immaginiamo che una bambina, pienamente soddisfatta di sé e innamorata della vita, si senta dire: "Gli altri ti amerebbero di più se non facessi tanto baccano".
La bambina potrebbe lasciar cadere quel commento, attribuendolo al nervosismo di un genitore che ha bisogno di un po’ di silenzio; ma se il suo livello di sensibilità è alto potrebbe chiudersi a riccio, pensando che essere se stessa abbia come conseguenza non piacere agli altri.
I pensieri negativi — sono cattivo, non valgo abbastanza, non sono bravo — ci risuonano continuamente nella mente. Quando gli altri mi criticano, o quando sono io a giudicarmi, sento una reazione fisica, nel petto, nello stomaco, e nella testa. A volte il cuore comincia a battere più veloce, sento calore, e divento rossa in viso.
Molti dei miei lettori e studenti hanno esperienze simili. Diverse persone mi hanno raccontato che, di fronte a quella che leggono come una critica, accusano un aumento di pressione sanguigna, tremori alle gambe, confusione mentale o svenimenti.
Non c’è da stupirsi se facciamo tutto il possibile per evitare commenti negativi o correzioni. E tuttavia, così facendo, rischiamo di diventare compiacenti. È importante che tu capisca che, quando fai di tutto per cercare di compiacere gli altri, consegni loro tutto il tuo potere. Inizi a fare ciò che loro vogliono, rinunciando così a seguire ciò che ti suggerisce il tuo sistema di navigazione interno, la tua voce interiore.
Perdiamo potere e connessione con il nostro sistema di navigazione interiore anche quando — e questo è l’altro lato del cercare di evitare le critiche — diventiamo dipendenti dall’approvazione.
Vediamo se e quanto ti risuona l’esempio seguente. Qualcuno ti dice che hai fatto un ottimo lavoro, che hai un talento o un intuito speciale, e allora pensi "Oh mio Dio, ora finalmente valgo. Finalmente sto facendo qualcosa di giusto".
Poi, quando i complimenti cessano, la tua sensibilità ti porta a sentire la tua perdita sotto forma di sintomi fisici — come le reazioni attacca-o-fuggi, che ti fanno accelerare il battito cardiaco — e a questo punto ti chiedi: che cosa ho fatto per smettere di meritare i complimenti? Forse non sono chi pensavo di essere? Come ho fatto a pensare così bene di me? Che imbarazzo l’aver pensato di essere così bravo!
Questi pensieri ti sono familiari? Possiamo diventare schiavi dell’approvazione, schiavi della persona che ha smesso di lodarci. Ne parleremo ancora più avanti, ma per ora sappi che questo libro ti aiuterà a gestire le critiche con molta più efficacia, e a concentrarti sul tuo sistema di navigazione interiore.
Corsia preferenziale per lo zerbinaggio
A causa della nostra tendenza a compiacere gli altri, siamo spesso inclini a diventare i deboli e gli zerbini della società. Se ti sei mai scusato anche quando non avevi colpe, se hai mai finto di essere d’accordo con tutti perché non ti piace discutere, se hai paura di dire di no o ti senti responsabile per come si sentono gli altri... sai esattamente cosa intendo.
Essere uno zerbino significa impegnarsi a fondo per evitare i conflitti, assumersi impegni solo per fare contenti gli altri, e mantenere rapporti con persone con cui non si va veramente d’accordo. Queste tendenze possono portarci lontano dal sentiero della nostra anima, e indurci a inseguire ciò che gli altri desiderano per noi.
Una volta, durante uno dei miei ritiri, una partecipante di nome Wendy si alzò in piedi per parlare del rapporto con suo marito, con cui era sposata da 30 anni. Incrociò le braccia, si guardò intorno con cautela, e poi disse: "Ho sposato un narcisista. Oh, all’epoca non lo sapevo, era molto affascinante, ma sulla base di tutto quello che ho letto, e di ciò che la nostra consulente di coppia ha detto quando lui si è rifiutato di tornare da lei perché “lei non aveva idea di cosa stesse parlando”, lo è. Faccio tutto il possibile per compiacerlo, per mantenere la pace. È come camminare sulle uova. Per lui è tutto un affronto. Quando entra dalla porta sento il cuore sprofondare".
La sua postura si raddrizzò ancora di più, poi proseguì: "Per tutto il tempo in cui siamo stati sposati, non ha fatto nulla per contribuire alla relazione. È sempre stato così. Quando è stato malato e pensavamo che avrebbe potuto non farcela, io ci sono stata: gli ho fatto da infermiera per tutto il tempo. Ma diversi anni dopo, quando sono stata io a dover combattere con la malattia, mi ha fatto sentire “una rottura di scatole” per il fatto che ero malata... Mi ha colpita", disse guardando verso il pavimento.
"Wendy", dissi, "perché non l’hai lasciato?".
"Non voglio farlo arrabbiare! Provo ancora dei sentimenti per lui".
Era così occupata a compiacerlo che si era persa completamente, fino al punto che i suoi bisogni non avevano più importanza per lei.
Io mi identificai ed empatizzai con le difficoltà di Wendy, probabilmente per la mia educazione e per l’essermi dovuta confrontare (sono nata a Singapore ma sono cresciuta a Hong Kong, all’epoca ancora colonia britannica) con la disparità di genere.
Entrambi i miei genitori sono nati e cresciuti in India, quindi io sono indiana per etnia, e sono stata educata secondo i dettami di quella particolare cultura. Una delle norme culturali dell’India è quella dei matrimoni combinati: bisogna sposare una persona scelta dai propri genitori. Fin dalla primissima adolescenza e fino ai primi anni Ottanta, mi educarono affinché diventassi l’immagine della buona moglie.
Allora ero una grande fan di Cyndi Lauper. La imitavo e mi vestivo come lei: mi tingevo i capelli di rosa e viola con lo spray, indossavo vestiti sgargianti, e ballavo instancabilmente sulle note di "Girls Just Want to Have Fun". Quella diventò la mia canzone della libertà, perché racchiudeva forza, potere, ed espressione di sé, insomma tutto ciò per cui lottavo nella mia vita. Esprimendo la Cyndi Lauper che era dentro di me mi sentivo libera e ribelle!
Il fatto è che Cyndi Lauper — la sua libertà, il suo esprimersi in modo impudente — era l’antitesi del tipo di donna che "dovevo" diventare. I miei genitori, in particolare mio papà, mi supplicavano di vestirmi in modo più "indiano", o per lo meno più tradizionale.
E poiché ero un’empatica, sentivo un crescente conflitto interiore. Non volevo ferire o deludere i miei genitori, che soffrivano all’idea che sarei potuta diventare una vecchia ed emarginata zitella, e si preoccupavano costantemente di ciò che gli altri pensavano di me. Cominciai a interiorizzare le loro preoccupazioni, fino a quando, alla fine, l’idea di deluderli mi diventò insopportabile quasi tanto quanto quella di seguire la strada che loro avevano tracciato per me.
Per essere chiari: i miei genitori erano molto affettuosi, e il loro desiderio di vedermi sposata secondo i costumi della loro società era tutt'altro che crudele. Credevano davvero che quello fosse il miglior modo di amarmi. Non capivano che per adattarmi a quelle norme avrei dovuto affievolire la mia luce, farmi piccola, e ignorare la mia vocazione. Io, dal canto mio, non avevo capito che la mia natura di empatica mi rendeva più difficile dire loro di no senza sentirmi in colpa.
Il mio cercare di compiacere i miei genitori mi rese sempre più incapace di distinguere tra ciò che volevo per la mia vita e ciò che loro si aspettavano da me. Con il passare del tempo iniziai a piegarmi non solo alle aspettative dei miei genitori, ma a quelle di tutte le persone intorno a me: i miei compagni di scuola, i miei colleghi, perfino gli estranei. Alla fine non riuscivo più a sopportare di non compiacere gli altri. I professori, gli amici, il commesso del negozio all’angolo... facevo tutto il possibile per ottenere la loro approvazione.
Da bambina ero timida e introversa. Frequentavo una scuola in cui i miei compagni erano per lo più espatriati britannici; avevano tutti la pelle bianca, tranne me. La mia era scura. Prima di iniziare a frequentare quella scuola la mamma mi portò, per il colloquio di ammissione, dalla direttrice, una donna austera con le labbra serrate e la fronte aggrottata.
Il suo comportamento durante il colloquio mi fece capire ciò che pensava: dovevo considerarmi fortunata per l’opportunità di studiare in quella scuola prestigiosa, e avrei dovuto dedicare il mio tempo a dimostrare di meritare quel privilegio.
Da bambina sensibile quale ero intuii ciò che la direttrice provava nei miei confronti, e questo influenzò enormemente i miei primi di anni di scuola. Forse non c’è da sorprendersi che io sia stata poi vittima di bullismo, visto che mi ero sentita immeritevole e indegna, come il proverbiale agnello che viene condotto al macello.
La sensazione di non valere un gran che mi accompagnò durante tutta l’adolescenza e i primi anni della mia maturità; continuai a credere di dover lavorare molto duramente per meritarmi l’approvazione degli altri. Quando venivo trattata male, o ingiustamente, invece di farmi valere cercavo di essere ancora più gentile, e facevo tutto il possibile per guadagnarmi l’approvazione di chi mi aveva mancato di rispetto.
La Cyndi Lauper che era dentro di me fu messa a tacere, e cominciò un lungo periodo di profondo conflitto interiore. Ogni volta che cercavo di spiegare a mio papà che desideravo inseguire i miei sogni, finivamo per litigare. E così cominciai a nascondere anche quelli.
So che sono tanti i miei lettori che si riconoscono in queste storie. Ho una buona notizia per te: non sei più obbligato a fare lo zerbino. Mentre trovi questa tua nuova condizione di forza, fai attenzione!
Data di Pubblicazione: 25 gennaio 2022