La storia di un medico che ha abbandonato i vincoli della medicina tradizionale per aprirsi alla spiritualità del cuore, leggendo il libro di Silvia Di Luzio.
L'evoluzione spirituale attraverso il cuore
Come nasce un medico: La certezza che deriva dalla conoscenza
"Tutta la filosofia naturale si riassume in un principio: conoscere la legge dei fenomeni. Tutto il problema sperimentale si riduce a questo: prevedere e dirigere i fenomeni."
Claude Bernard
A undici anni avevo già deciso che avrei fatto il medico.
Mi ricordo il momento esatto in cui compresi che questo sarebbe stato il mio compito sulla Terra in questa vita.
L'idea di poter far stare bene le persone sofferenti, di essere in grado di aiutare gli altri, mi riempiva il cuore di un’energia e di una forza incredibili e mi procurava una gioia incommensurabile.
Non avevo casi di malati gravi in famiglia, né pensavo all’eventuale guadagno che ne avrei potuto ricavare, tantomeno alla “fama” legata alla figura del medico... Ricordo solo le ondate di pura gioia all’idea di poter vedere sorridere una persona in difficoltà.
Tuttavia, arrivata al momento dell’iscrizione all’università attraversai la fase del dubbio. I tre mesi dopo l’esame di maturità furono caratterizzati da tormento e indecisione: avevo cominciato a prendere coscienza di cosa volesse veramente dire fare il medico, dedicare interamente l’esistenza al servizio degli altri, spesso sacrificando la propria; ma soprattutto ero spaventata dalla responsabilità.
Un medico, ritenevo, ha in mano la vita dei suoi pazienti: non può fallire, altrimenti può compromettere la vita di un altro essere umano.
Ero attanagliata da questa tremenda verità: ero consapevole del fatto che, in quanto essere umano, avrei potuto sbagliare, e non mi sentivo pronta ad affrontare un mio eventuale errore che potesse nuocere alla vita altrui.
Insomma, i giorni passavano, ed era rimasto poco tempo prima che scadessero i termini per l’iscrizione ad una qualunque facoltà.
Un giorno incontrai un professore che mi aveva aiutata nella preparazione dell’esame di maturità. Mi chiese quale facoltà avessi scelto e io gli rivelai i dubbi e le paure che mi impedivano di prendere una decisione.
Lui mi disse: "Se tutti i medici mostrassero questa sensibilità saremmo a cavallo! Questa tua paura è un dono: iscriviti, studia al meglio e ricordati sempre di queste sensazioni, dell'importanza del tuo lavoro: cerca di essere sempre la più preparata, e vedrai che sarai di aiuto a molte persone!"
Queste parole sono state per me un faro in tutti gli anni di studio che ne sono scaturiti. Mi sono laureata con 110 e lode finendo tutti gli esami con una sessione d’anticipo... ma non perché questo mi procurasse un piacere fine a se stesso o perché fossi orgogliosa del mio curriculum: semplicemente perché ho sempre ritenuto assurdo non conoscere alla perfezione ogni argomento.
Cosa avrei fatto un domani davanti al paziente se non avessi saputo interpretare i suoi sintomi o, peggio, se non avessi saputo di cosa stava parlando perché avevo saltato le pagine sul suo disturbo?
Ho avuto, alla fin fine, la fortuna di scegliere la facoltà che più amavo. Lo studio intenso di quei sei anni è stato per me molto arricchente: ero nel luogo in cui volevo essere, a fare quello che volevo fare. Tutti i sacrifici che gli altri ritenevano che io facessi, in realtà erano scelte dettate dalla gioia e che producevano grande felicità; finito un esame non vedevo l’ora di passare al successivo per scoprire qualcosa di più del grande mistero della vita!
Già quando al terzo anno ne studiai la fisiologia, provai un interesse enorme nei confronti del cuore e dell’apparato cardiovascolare: mi impressionava il suo servizio continuo, generoso e silenzioso, la sua capacità di essere flessibile, di sapere cosa fare per il bene dell’intero organismo, sempre e comunque; soprattutto, sin da subito ebbi la percezione che attraverso il cuore si potesse “andare oltre”... come quando si ammira il mare e ci si chiede cosa possa esservi al di là, oltre il visibile.
Ecco: il cuore mi ispirava questa sensazione di infinito, mentre il cervello, così chiuso nella sua teca cranica, mi dava un senso di "limitatezza", di oppressione, agli antipodi di quella potenza e libertà che vedevo invece nell’organo cardiaco, caldo e vibrante, in perenne movimento.
Così focalizzata sul cuore e le sue meraviglie riuscii a soli venticinque anni a vincere il concorso d’ammissione in una scuola di specializzazione in cardiologia tra le più prestigiose in Italia.
Ero allora un medico appena laureato, con la faccia da bambina: ora capisco perché spesso i pazienti reagissero con timore e smarrimento nell’apprendere che sarei stata io a seguirli! All’epoca mi arrabbiavo tantissimo... ora posso comprendere!
Ero felice perché potevo avere un contatto umano con i pazienti, avevo le giuste conoscenze di base, potevo prendere a modello i migliori cardiologi italiani del momento e imparare dai casi più complessi e difficili che, da ogni parte d’Italia, giungevano nel nostro centro, considerato all’avanguardia nazionale.
Insomma, ho passato quattro anni della mia vita lavorando fino a settanta ore a settimana senza mai stancarmi: sentivo di fare esperienze preziose ed ero grata di questa opportunità.
Mi nutrivo, all’epoca, della gratitudine dei pazienti, un cibo molto saporito da cui si rischia di diventare dipendenti.
Inoltre, ero felice di poter applicare le nozioni studiate in sei anni e di poter seguire gli insegnamenti dei miei maestri, che in quell’epoca ero convinta fossero i custodi della verità assoluta.
Così trattavo i pazienti sempre con molta sensibilità ed umanità, ma le mie prescrizioni e le mie conclusioni erano sempre rigidamente basate sull’applicazione delle linee guida e delle nozioni risultanti da ricerche internazionali, accettate dalla comunità scientifica mondiale.
Questo mi dava sicurezza: la sicurezza di proporre la cosa giusta per il singolo paziente, la sicurezza di non arrecare danno... Sicurezza che in seguito capii essere solo mera illusione in un ambito che lascia ben poco spazio alle certezze.
Non so se grazie alla mia sensibilità, o per sincronicità, o per casi fortuiti, a seconda di come si voglia interpretare la realtà, mi sono capitati degli episodi che hanno cominciato a minare le mie sicurezze, a farmi aprire gli occhi sul principio assoluto secondo il quale la medicina non è e non potrà mai essere una scienza esatta.
Ho cominciato così ad intravedere delle crepe nell’approccio della medicina convenzionale, delle incongruenze... e più sono cresciuta come medico, più questa realtà mi è diventata chiara.
Come cambia un medico
"Il vero saggio è colui che sa di non sapere."
Platone, "Apologia di Socrate"
I miracoli che accadono quotidianamente in un ospedale possono essere riconosciuti solo se si usano gli occhi giusti per vedere.
Durante quasi vent’anni di attività in cardiologia, diversi casi clinici eccezionali mi hanno mostrato i limiti dell’approccio della medicina convenzionale. Un episodio in particolare mi ha segnato e ha definitivamente impiantato in me un seme che non ha più terminato di germogliare.
Quando ero ormai all’ultimo anno di specializzazione, uno dei dirigenti dell’istituto trasferì dalla terapia intensiva nella camera di degenza di cui mi facevo carico un paziente molto grave, che a suo parere non aveva più di venti giorni di vita, dicendomi: "Cerca di liberarlo dai farmaci endovenosi in modo da mandarlo a morire a casa".
A sentire queste fredde parole, fui in qualche modo disturbata all’idea di affrontare una situazione così dolorosa e senza speranza.
Chiesi al mio superiore se il paziente e la famiglia fossero al corrente della situazione. Mi confermò che aveva parlato lui stesso a tutti e che ne erano perfettamente consci.
Mi armai di coraggio ed entrai nella stanza del paziente.
Non so se vi siate mai chiesti cosa prova un medico nell’andare incontro a un paziente che sta per morire e ne è consapevole. Ci vuole una fermezza d’animo enorme per non finire travolti da tutto il dolore e la paura che il paziente trasmette.
Appena entrata nella camera, fui colpita da due occhi disperati che invocavano aiuto.
Questi occhi sono tuttora indelebilmente presenti nel mio cuore: non erano semplicemente occhi, ma lo specchio di un’anima distrutta e invocante sostegno. Non dimenticherò mai i brividi che la loro vista mi causò in tutto il corpo.
Cercai di fare l’indifferente e mi presentai al paziente dicendo che sarei stata il medico che l’avrebbe seguito. Lui mi guardò, chiuso nel proprio dolore, e con molta gentilezza mi ringraziò con la rassegnazione di chi conosce il proprio destino. Uscii dalla camera piuttosto imbarazzata, sapendo di non poter far niente per dargli conforto, e tornai al mio lavoro.
Nelle ore successive non riuscii a smettere di pensare a quegli occhi disperati, così alle otto di sera, prima di andare a casa, decisi di passare a dare un saluto a quello che poi seppi essere un professore di una delle più prestigiose università italiane.
Entrai e semplicemente gli chiesi se potevo fare qualche cosa per lui. Avevo deciso di non “fare il medico” ma di pormi come essere umano: anche se non c’era più nulla da fare dal punto di vista terapeutico, perlomeno avrei potuto tentare di sollevarlo da quella terribile sofferenza interiore ed essergli vicina senza che si sentisse disperatamente solo di fronte alla morte.
A quella semplice domanda i suoi occhi risposero con un barlume di speranza. Mi disse che aveva delle necessità e dei desideri, ma non era sicuro di poterli esprimere. Gli feci coraggio e gli dissi di non preoccuparsi e di parlarmene apertamente.
Con mia grande meraviglia, gli sentii dire che il suo più grande desiderio era quello di sentirsi ancora un essere umano!
Mi resi conto, in quel preciso istante, dell’assurdità della posizione di noi medici convenzionali, intenti a salvare il corpo e gli organi ma senza renderci conto dell’importanza del rispetto della dignità umana. Davanti ad un uomo che ormai sta morendo siamo addirittura capaci di negargli la soddisfazione degli ultimi desideri... Perché, poi? Perché gli può far male?
Decisi di essere diversa, di liberarmi dagli schemi precostituiti, e gli dissi di fare una lista delle cose di cui sentiva maggiormente la necessità.
Data di Pubblicazione: 14 marzo 2022