SELF-HELP E PSICOLOGIA   |   Tempo di Lettura: 9 min

La Febbre del Baseball

Il Bambino che Sapeva Troppo - Anteprima del libro di Cathy Byrd

Tutto può succedere nel baseball

"La nostra nascita non è che un sonno e un oblio; l'anima che ci accompagna, stella della nostra vita, ha avuto inizio altrove e viene da lontano.”
William Wordsworth

Nel baseball tutto può succedere.

Sono fan di questo sport da esattamente tre anni e mezzo, come risultato dell’inspiegabile passione di nostro figlio di sei anni per il passatempo preferito d’America. Una storia condivisa da innumerevoli mamme della lega dilettantistica, fin dalla proverbiale prima base, ne sono certa. Ogni madre vuole credere che il proprio figlio sarà quell’uno su un milione che riuscirà a diventare un giocatore professionista, ma il libro non parla di questo. Racconta invece del nostro ometto che ci ha aperto gli occhi sulla ricca storia del baseball degli anni Venti e Trenta, dimostrandoci che ciò che conta davvero in questa vita è la differenza che facciamo nelle esistenze degli altri.

Quando nostro figlio, Christian Haupt, aveva cinque anni, ricevemmo una telefonata da un manager dei Los Angeles Dodgers che ci chiedeva un incontro a casa nostra per parlare con Christian delle sue avventure nel baseball. Può sembrare strano che una squadra della Major League di baseball [la lega professionistica] fosse interessata a documentare le imprese di un ragazzino che aveva a malapena l’età giusta per impugnare una mazza, ma la cosa di gran lunga più interessante del documentario di cinque minuti che trasmisero in televisione è ciò che nostro figlio ci aveva detto a porte chiuse nei precedenti due anni riguardo all’essere stato un “giocatore di baseball alto” in un’altra vita. Questa è la storia che abbiamo condiviso solo con gli amici più intimi e con i nostri familiari, almeno finora.

YouTube

I filmati su YouTube di nostro figlio mentre gioca a baseball sono stati visti da più di cinque milioni di persone, allo scoccare del suo quinto compleanno. Ma il nostro vero viaggio è cominciato quando il primissimo video che abbiamo caricato ha catturato l’attenzione dell’attore e comico Adam Sandler. Per uno strano caso del destino, pochi giorni dopo aver caricato quel filmato su YouTube che immortalava nostro figlio di due anni mentre batteva e lanciava, ci ritrovammo su un aereo diretto a Boston per girare il carneo di Christian che gioca a baseball nel film “Indovina perché ti odio”. Questo viaggio a Boston - felice e ricco di occasioni - è stato un punto di svolta per noi per comprendere davvero la passione per il baseball del nostro piccolo di due anni.

L’amore di Christian per questo sport è iniziato a bordocampo, mentre assisteva alle partite di baseball per bambini della sorella maggiore Charlotte, quando lui portava ancora il pannolino. La prima volta che vide una vera partita di una squadra giovanile, studiò i giocatori di otto e nove anni al raggio laser e passò poi infinite ore, ogni giorno, a imitarne le mosse. Era alquanto divertente osservare un piccoletto di due anni caricarsi per un lancio con una gamba sollevata in aria, oppure roteare la mazza e poi batterla sulla casa base, il piatto pentagonale sul campo, prima di colpire la palla con tutte le proprie forze. Christian era felice di mettersi in mostra davanti a chiunque fosse disposto a guardarlo e, quando era assorto nel gioco, preferiva che noi lo chiamassimo Baseball Konrad, un alter ego che aveva creato usando il suo secondo nome, Konrad appunto. Per lo più era un hobby piacevole che ci dava grande gioia, ma cerano momenti in cui la nostra pazienza veniva messa a dura prova.

Ancor prima d’imparare a camminare, Christian portava sempre con sé una piccola mazza da baseball di legno. A due anni puntò i piedi per indossare ogni giorno la tenuta da giocatore, con pantaloni, casacca e scarpette d’ordinanza. Anche nella canicola estiva. Tutte le volte che Christian vedeva una linea bianca nel cielo, puntava il dito verso l’alto, tutto eccitato, e diceva: “Guarda mamma! Una linea di fondo!”. Dava un morso a una patatina e diceva: “Sembra una casa base!”. Una volta vide un fazzoletto rettangolare bianco sul pavimento del bagno e proclamò: “Che bello! Un monte di lancio.” Se la vita fosse un test a macchie di Rorschach, Christian ci vedrebbe solo palle da baseball.

Mio marito Michael e io avevamo visto Charlotte attraversare la fase delle principesse Disney quando era piccolina, ma questo era diverso. Nostro figlio Christian era diverso. Non gl’interessavano affatto i giocattoli o la televisione e di rado interagiva con gli altri bambini nelle ore di gioco mamma-bimbo; al parco giochi mi chiedeva di allontanarmi per lanciargli la palla da baseball, mentre i suoi compagni di classe si dedicavano alle consuete attività dei bimbi di due anni, come fare le bolle di sapone e costruire torri di lego con gli amichetti. La cosa più sconvolgente era che i nostri tentativi di distrarlo dal baseball, suo unico interesse, lo rendevano ancora più insistente. Le continue suppliche di lanciargli palle ogni minuto del giorno, sia dentro sia fuori casa, erano estenuanti per entrambi. La maggior parte dei giorni giocavamo con lui a baseball mattina, pomeriggio e sera, ma non era mai abbastanza. Non passava giorno senza che Christian avesse in testa il baseball. Una volta riuscimmo a togliergli la casacca da giocatore per mettergli una camicia elegante per una foto di famiglia con le cuginette, ma pianse così tanto che alla fine gli facemmo la foto con gli occhi rossi e la casacca da baseball. Michael e io eravamo preoccupati che questa sua passione potesse essere la spia di un disturbo ossessivo-compulsivo.

Un incarico temporaneo

Nell’estate del 2011, Michael accettò un incarico temporaneo come consulente per l’azienda d’ingegneria aerospaziale Lockheed Martin che gli richiedeva di recarsi a Dallas tutte le settimane. Il mio lavoro di agente immobiliare mi permetteva la flessibilità di lavorare da casa e anche di portare i bambini con me agli appuntamenti con i clienti, se necessario, ma questo equilibrismo divenne più difficile con Michael lontano da casa cinque giorni la settimana. Prima di trascinare Charlotte e Christian con me mentre mostravo le case ai clienti, trascorrevo dalle due alle tre ore ogni mattina giocando a baseball con loro ai campi delle società locali della Little League, la lega dilettantistica giovanile. A prescindere da quanto tempo passassimo sul campo, le nostre uscite si concludevano sempre allo stesso modo: io che portavo Christian verso l’auto tenendolo sotto il braccio come se fosse un pallone da football, mentre lui scalciava e urlava “Ancora uno!”. Dopo la lotta, si addormentava profondamente non appena lo assicuravo al seggiolino.

“Se sappiamo che piange quando ce ne andiamo, perché continuiamo a farlo?” mi chiedeva spesso Charlotte nel breve tragitto verso casa.

Aveva ragione. Perché darsi tanta pena? Ma era l’innegabile passione di Christian quando giocava nei panni di Baseball Konrad a spingermi a continuare.

Mentre Michael era a Dallas, la mia migliore amica da quindici anni, Cinthia, c’invitò come suoi ospiti a una partita dei Los Angeles Dodgers. Dubito che Michael sarebbe venuto con noi anche se fosse stato in città, perché aveva fatto fatica ad adattarsi all’amore di Christian per il baseball, prima di tutto perché lui era nato e cresciuto in Germania, dove il baseball in pratica non esiste. Del resto, nonostante io fossi originaria della California del Sud, quella era la mia prima volta al Dodger Stadium e a una partita della Major League di baseball, in generale.

Nel corso degli anni Cinthia era diventata una massaggiatrice dei vip a Los Angeles e i suoi clienti le regalavano costantemente biglietti per incontri sportivi, premiazioni di gala ed eventi speciali. Quando avevamo tra i venti e i trentanni, ci potevi trovare a quasi tutti i grandi eventi sportivi, premier cinematografiche e concerti in città. Benché da allora la nostra vita sociale si fosse tranquillizzata considerevolmente, l’unica costante era il divertimento assicurato ogni volta che ci trovavamo insieme.

La “zia Cinthia”

La “zia Cinthia” conosceva il trucco per far sentire Charlotte e Christian speciali. Aveva partecipato a ogni momento importante delle loro vite, comprese nascite e battesimi, perciò cascava a fagiolo che fosse presente all’iniziazione di Christian al Dodger Stadium. All’epoca non sapevamo ancora che quello stadio, vecchio di cinquantanni, nel cuore di Los Angeles, sarebbe diventato la nostra seconda casa negli anni a venire. Quando arrivammo, Cinthia ci portò prima di tutto al negozio di souvenir per comprare qualche regalino ai bambini. Charlotte andò in delirio davanti allo scaffale con i peluche, mentre Christian si mise orgogliosamente in posa per una foto nella sua uniforme dei Dodgers vicino ai manichini dei giocatori a grandezza naturale. Poi Cinthia ci scortò nel Club esclusivo dello stadio, da dove guardammo la partita e pranzammo a un tavolo che si affacciava proprio sul campo. Christian fu completamente rapito dalle azioni di gioco e si mosse appena per tutta la durata dell’incontro, cosa assolutamente inusuale per un bambino che di rado stava seduto fermo. Non lo avevo mai visto così serio e silenzioso, ma era evidente che si stava godendo lo spettacolo.

Dopo la partita Cinthia ci portò in un ristorante privato all’interno dello stadio chiamato Dugout Club. Mentre lei offriva a Charlotte uno Shirley Temple, io trovai un corridoio libero dove Christian poteva sfogarsi un po’ colpendo palline di schiuma con la sua mazza souvenir nuova di zecca, lunga ben 45 cm.

Questo testo è estratto dal libro "Il Bambino che Sapeva Troppo".

Data di Pubblicazione: 16 novembre 2017

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