Ayurveda - Vita, Salute e Longevità - Anteprima del libro di Robert Svoboda

La scienza della vita

In quanto scienza della vita, l’Ayurveda riguarda tutte le creature viventi. Laddove la scienza moderna riduce il concetto di essere vivente alle creature incarnate, le scienze vediche riconoscono la vita in molti più esseri dell’universo di quanti noi possiamo immaginare, compresa l’Àyurveda stessa. E mentre soltanto oggi gli studiosi cominciano a rendersi conto che la Terra si comporta come un organismo vivente, gli antichi veggenti vedici si spingevano già oltre, affermando che, come la Terra, tutti i pianeti e le stelle sono esseri vivi e coscienti e che tutte le forze della natura, il vento, il fuoco, la morte e così via, sono creature vive e dotate di coscienza.

Il principio fondamentale su cui si basa il pensiero vedico è la convinzione che l’intero cosmo, rivelato e non, sia parte di un unico Assoluto. La Realtà assoluta non può essere descritta dal linguaggio umano, perché contiene tutto e possiede ogni possibile qualità; perciò, qualsiasi rappresentazione di questa singolarità non può che costituire una parte della sua totalità. «La Verità è singolare: il saggio parla di essa in vari modi» recita un proverbio vedico, e le discipline non sono che sentieri diversi che alla fine conducono a quel punto di origine comune che è l’unità di tutta l’esistenza.

Una delle forme in cui i veggenti vedici tentarono di descrivere la propria esperienza dell’indescrivibile trova espressione nella seguente definizione: satyam, rtam, brhat: “il vero, l’armonioso, l’immenso”. La realtà esiste (è vera); ha un ordine o ritmo naturale che si autoperpetua e si autocorregge (è armoniosa); pervade ogni cosa e si estende oltre i limiti dell’immaginazione umana (è immensa). Anche gli dèi devono agire in sintonia con quest’ordine cosmico e quando non lo fanno, anche loro soffrono: l’universo non fa preferenze.

Secondo la Legge del microcosmo e del macrocosmo, tutto ciò che esiste nel grande universo esterno, il macrocosmo, è presente anche nel cosmo interno del corpo umano, l’universo microcosmico dei 37.200 miliardi di cellule che, quando sono sane, sono armoniose, si autoperpetuano e si autocorreggono. Afferma Charaka: «L’uomo è la personificazione dell’universo. Nell’uomo c’è tanta varietà quanta ce n’è nel mondo esterno e nel mondo c’è tanta varietà quanta ce n’è nell’uomo». Quando l’individuo si adegua all’universo, il microcosmo vive in armoniosa sintonia con il macrocosmo.

Per gli abitanti dell’Asia meridionale non si tratta di un concetto astratto: al contrario, rappresenta un dato fondamentale della loro realtà personale. Per lo più, essi non tracciano una netta distinzione filosofica fra sé come individui e l’ambiente in cui vivono, perché nella società asiatica gli individui non sono concepiti come parti isolate dal tutto. E questo vale tanto per quella grandiosa società di stelle e di pianeti che è l’universo quanto per la società umana: entrambe sono costituite e costantemente ridefinite dalle parti che le compongono. Un sistema sano è composto di parti sane che interagiscono in un rapporto sano: analogamente, il benessere di un individuo non può essere separato da quello della comunità, della terra, del mondo soprannaturale o del cosmo. Non esiste individuo così individuale da non interagire con l’ambiente che lo circonda.

Poiché ciascuno di noi, con le proprie azioni, influenza, in qualche misura, l’intero cosmo, positivamente o negativamente, il mantenimento della salute diventa da obiettivo facoltativo del singolo, un imperativo religioso e sociale. L’ambizione di un giovane medico di curare re e mercanti è un proposito nobile nella misura in cui è motivato dal desiderio di promuovere la salute della società preservando la salute di chi la governa. Il re è l’incarnazione del regno: di conseguenza, curare il re significa, in un certo senso, curare l’intera società, perché se il re è sano, governa bene, a tutto beneficio della collettività.

Così come l’uomo è un microcosmo vivente dell’universo, l’universo è un macrocosmo vivente dell’essere umano. La Singolarità assoluta è un essere supremo, che potremmo chiamare Dio. Ogni parte del corpo di Dio (l’universo) è viva così come ogni cellula del nostro corpo è viva; e così come le parti non possono vivere senza il tutto, il tutto non può vivere senza le parti. L’Assoluto esiste permanentemente, anche quando l’universo si risolve in esso: ma può vivere, e godere della vita, soltanto quando assume un corpo.

L’obiettivo della religione vedica

L’obiettivo della religione vedica è quello di definire, creare e mantenere un rapporto armonioso fra il macrocosmo e il microcosmo: la meta finale del cammino vedico, l’unione con l’Assoluto, può essere raggiunta soltanto dopo aver stabilito un giusto rapporto con il Relativo. L’Uno esiste nel Tutto, e il Tutto definisce l’Uno: unità e dualità esistono contemporaneamente perché, come il recto e il verso di una moneta, Luna non può esistere senza l’altra. Nel mondo della dualità non esistono caratteristiche assolute; a eccezione dei veggenti e dei santi, noi tutti sperimentiamo soltanto uno dei possibili stati della verità relativa.

La maggior parte di noi concepisce il mondo in termini polarizzati: la verità dev’essere chiara e inequivocabile affinché noi la riconosciamo come tale. Le religioni semitiche e i filosofi greci hanno trasmesso a noi Occidentali una versione assoluta della dualità. Perfino le divinità greche della medicina erano due: Igiea, dea della salute fisica e spirituale, e Asclepio, il dio medico che si occupava della cura dei malati. Quest’abito mentale ci impedisce di concepire la vita come Uno-nel-Tutto e Tutto-nell’Uno contemporaneamente. Secondo la filosofia meccanicistica, la mente non ha alcuna influenza sul corpo e ancor oggi i fautori di questa tesi non riescono a concepire alcun tipo di identità fra corpo e mente.

La cultura indiana non ha una visione della realtà come “bianca o nera”, ma come “bianca e nera”, comprese tutte le sfumature intermedie di grigio, e questo permette di comprendere e accettare alcuni dei misteri che apparentemente contrastano con la moderna concezione scientifica della vita. Per esempio, il concetto dell’individualità di ciascun essere senziente non spiega come un insetto sociale come l’ape o la formica possa possedere un corpo singolo e comportarsi al tempo stesso come un prolungamento di quella coscienza unitaria che è l’arnia. Esistono batteri che cacciano in gruppo: i membri della colonia circondano la preda, la intrappolano e la digeriscono secernendo alcuni enzimi. Può ciascun batterio venire considerato un individuo o non è che una cellula di un organismo più grande, cioè una colonia? Dilemmi di questo genere, fra cui il grande mistero della luce (che non è né una particella né un’onda, ma si comporta come Luna o l’altra a seconda di come la si consideri), rappresentano dei paradossi per il nostro tipo di logica.

Spesso le persone che meglio si sono sapute adattare alla realtà del nostro mondo mostrano quelli che vengono definiti come tratti “bifasici”: si tratta di persone al tempo stesso severe e gentili, serie e scherzose, riflessive ed estroverse, e così via. Hanno intuito l’assurdità di restare tenacemente aggrappati a un’unica visione della vita, e così cambiano approccio, manifestando atteggiamenti diversi a seconda delle circostanze, anche se un simile comportamento potrebbe apparire contraddittorio alla luce di una logica rigorosamente dualistica. La genialità del pensiero indiano sta proprio nella sua flessibilità e nella sua capacità di adattarsi al paradosso: e può farlo perché il suo linguaggio è quello bifasico del paradosso e non quello lineare della scienza moderna, che costringe ogni parola a corrispondere a un significato specifico e limitato.

L’universo, esterno e interno

Il linguaggio bifasico a cui abbiamo appena accennato rende impossibile separare il mito dalla storia dell’Ayurveda. Gli antichi Greci, padri della logica occidentale, si sforzarono di delineare chiaramente due realtà distinte, quella umana e quella divina, separando la storia dal mito. Altre culture scelsero di rinunciare alla definizione di una datazione storica netta e lineare per evidenziare i legami che uniscono umano e divino. «Per i Maya» scrive Dennis Tedlock, il traduttore del Popu'l Vuh, il testo maya della storia della creazione, «la presenza della dimensione divina nei racconti delle vicende umane non è un’imperfezione, ma una necessità, bilanciata dalla necessità della presenza umana nei racconti delle vicende divine». Isolare gli aspetti mondani e ultramondani della realtà significa ignorare il rapporto importantissimo che intercorre fra di essi. Il mito della creazione con il quale iniziano i testi classici dell Ayurveda non può essere liquidato come una prefazione sacerdotale, perché la storia della creazione dell’universo è anche la storia della creazione dell’Ayurveda e di tutti gli esseri viventi.

Uno dei vocaboli usati in sanscrito per indicare il mondo è jagat, la cosa che si muove”. Nella filosofia ayurvedica l’universo è eterno e senza inizio, in continuo movimento, periodicamente si manifesta da una singolarità e periodicamente si risolve nella non manifestazione, apparendo e scomparendo come la luna. Analogamente, l’essere umano ha origine da uno zigote, un’unica cellula che racchiude tutte le potenzialità dell’individuo per proiettarle, come in un’esplosione, in una forma fisica che, alla stregua dell’universo e di tutte le sue stelle, cresce e si sviluppa, raggiunge un livello stabile e poi degenera e muore.

La singolarità che crea il cosmo è, come lo zigote o il seme di una pianta, la causa dell’essere dualistico che genera, che è l’effetto. Citando il mio maestro, Vimalananda, «la causa è l’effetto nascosto, e l’effetto è la causa rivelata»: l’efifetto è celato all’interno della causa fino a quando si mette in moto il processo che ne rivela visivamente l’interezza; causa ed effetto fluiscono Luna nell’altro perché sono due stati in tempi diversi della stessa cosa. La principale distinzione che va sottolineata in quest’esempio è che sia lo zigote che il suo prodotto sono transitori, mentre la causa dell’universo è eterna e soltanto il suo effetto è transitorio.

Come afferma Charaka, I’Ayurveda fece la sua comparsa nel mondo quando alcuni grandi saggi, mossi da compassione per gli esseri umani, la cui vita era afflitta dalle malattie, in particolare gli abitanti delle città (a implicita dimostrazione che già allora apparivano chiari i pericoli dell’urbanizzazione), si riunirono e dissero: «La salute è il supremo fondamento della virtù, della prosperità, del piacere e della salvezza, mentre le malattie rovinano la salute, il bello della vita e la vita stessa. In che modo si può ovviare a un così grave impedimento per il progresso dell’umanità?». Riflettendo su questo problema, i saggi ottennero dagli dèi l’Ayurveda e tradussero la sapienza divina in linguaggio umano: da allora alcuni particolari esseri umani hanno avuto il compito di preservare e trasmettere questa saggezza.

Gli straordinari veggenti dell’Ayurveda avevano raggiunto un tale livello di coscienza di sé da entrare in comunione con le forze che governano l’universo; ma rendendosi conto che soltanto poche persone erano in grado di attenersi alla rigorosa disciplina che tale comunione richiede, decisero di dare espressione fisica all’Ayurveda. Il sapere eterno e divino che è l’Ayurveda è ancor oggi a disposizione di chiunque sia capace di individuarlo e di farlo proprio; per tutti gli altri esiste la versione dei veggenti, che tratta in modo dettagliato i problemi della vita incarnata sulla Terra. Afferma Charaka:

«La scienza della vita è definita eterna perché non ha inizio, perché riguarda tendenze che originano spontaneamente dalla Natura e perché la natura della materia è eterna. Perché in nessun tempo vi è mai stata soluzione nella continuità della vita o nella continuità dell’intelligenza. L’esperienza della vita è perenne [...]. Né si può dire che vi sia stato un tempo in cui l'esistenza abbia preso vita, in quanto prima non esistente, a meno che la disseminazione della conoscenza mediante il ricevere o l’impartire istruzione non venga considerata come creazione della conoscenza stessa».

La conoscenza dell’Ayurveda è parte integrante della realtà dell’universo e si manifesta ad ogni manifestazione dell’universo. In questo senso e eterna; ma cosi come ogni cosa che si manifesta è transitoria, anche la manifestazione dell’Ayurveda è transitoria, cosicché l’Ayurveda è al tempo stesso eterna e non eterna.

I rishi, i profeti dei Veda, trascorsero tutta la loro vita in contemplazione della bellezza della simultanea assolutezza e relatività dell’esistenza; in momenti di esaltazione incontrollata, la loro beatitudine si incarnò nelle parole e quelle limitate espressioni di realtà illimitata divennero gli inni vedici. I profeti dell’Ayurveda si comportarono allo stesso modo, incanalando la propria personale esperienza della natura duale/non duale della realta nel flusso delle loro opere. Ciascun testo ayurvedico è un espressione unica della realtà della vita in quanto espressa da un particolare essere vivente, il che spiega perché non sempre i testi coincidano fra di loro in tutti i particolari. I fatti rappresentano soltanto il materiale grezzo da cui si crea la vita. Il saggio raccoglie i “fatti” morti e secchi dell’esistenza e infonde loro la sua forza-vita per creare un testo vivo, così come il tocco del Creatore mette in moto le sfere cosmiche. Ogni saggio crea e vivifica il cosmo della sapienza viva che è il suo testo.

Questo testo è estratto dal libro "Ayurveda - Vita, Salute e Longevità".

Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017

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