EDUCAZIONE E FAMIGLIA   |   Tempo di Lettura: 10 min

Il Grande Cambiamento che la Vita ci Impone

Ogni Cambiamento è un Grande Cambiamento - Nicolò Govoni - Speciale

Racconti con protagonisti quei bambini e quelle bambine a cui Nicolò sta dedicando la vita. Scopri le loro storie, leggendo il nuovo libro di Nicolò Govoni.

Il Grande Cambiamento che la Vita ci Impone

La storia di Njoki

Mi chiamo Njoki, sono una kikuyu e a volte parlo da sola. Anche oggi mi alzo all’alba. O, almeno, credo sia l’alba.

Casa nostra non ha finestre, e l’unica luce filtra dallo spiraglio sotto la porta d’ingresso. Non è granché ma è sufficiente per scivolare giù dal letto a castello senza inciampare. Papà ha tentato infinite volte di tappare lo spiraglio con uno straccio, ma non c’è niente da fare: la pioggia lo lava sempre via.

Meglio così, però. Perlomeno evitiamo di brancolare nel buio più totale.

"Novantasei giorni" dico lavandomi i denti sul catino, "sedici ore e cinquantatré minuti dall’ultima volta che Obera mi ha rivolto la parola."

Lo dico così, come se fosse cosa da poco, un’informazione di servizio al telegiornale. Fa meno male, ho imparato, se non gli dai troppo peso.

"Incidente sulla A104» risponde Wangari, scendendo dal letto.

Ridacchio con la bocca piena di dentifricio. "Giraffa salvata a Garissa!"

"Coppia di innamorati scappa di casa!"

Sputo. "Continuano gli scontri dopo le elezioni!"

"E per questa edizione è tutto!" dice lei spalancando la porta d’ingresso. "Grazie dell’attenzione e adesso linea al meteo!"

È davvero l’alba. La luce azzurrina mi fa sbattere le palpebre e il freddo mi punge la pelle, ma non mi lamento, anzi. È l’ora che preferisco.

Wangari si mette davanti allo specchio e inizia a sistemarsi i capelli. Devo infilarmi tra lei e il divano per riporre il mio spazzolino sulla mensola. Non c’è tanto spazio in casa nostra. L'angolo cucina, il letto a castello, il divano, lo specchio e la tv si trovano tutti nella stessa stanza, e le pareti di lamiera si inclinano un po’ di più verso l’esterno ogni volta che Papà se ne torna a casa con un nuovo pezzo di mobilia raccattato chissà dove.

"Di nuovo al fiume oggi?" chiede Wangari.

Faccio spallucce. Lo sa che ci troviamo al fiume ogni giorno. E il nostro posto. E lei è mia sorella maggiore, quindi certo che lo sa. Sa tutto di me.

"Stai attenta per strada, mi raccomando." Mi lancia un’occhiata attraverso lo specchio. "Pare che alcune gang stiano ancora dandosi la caccia. Dovrebbero darsi tutti una calmata, dopo un mese dalle elezioni, ma lo sai come sono queste teste calde. Ogni scusa è buona per fare casino."

Mi siedo accanto a lei, su uno sgabello di plastica, ritagliandomi il mio angolo di specchio, e imito i suoi movimenti: l’olio di cocco massaggiato fino alla radice, il pettine a denti larghi per sciogliere tutti i nodi e infine la cera per proteggere i ricci e la cute.

 

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È un nostro rituale mattutino, quello della cura dei capelli. Fa parte della nostra cultura, e poi mi fa sentire più grande, più bella, più simile a lei. Ma so di avere ancora tanto da imparare.

Quindi, quando Wangari finisce di acconciare i suoi capelli, sposto lo sgabello e lascio che si sieda dietro di me per sistemare i miei. Ecco perché l’alba è il momento che preferisco. Ho l’opportunità di osservarla con attenzione: le dita capaci, le labbra socchiuse, quel cipiglio accennato sulle sopracciglia perfette. E lei non si accorge di niente.

Mi sembra quasi di rubare frammenti di lei e di piantarli dentro di me, dove un giorno, forse, attecchiranno, germoglieranno e daranno frutti. Ci vorrà tempo. Per ora osservo e basta.

"Ci ripenserà, sai?" dice Wangari, una forcina tra le labbra. "Prima o poi vedrai che ci ripenserà. Non è mica un dettaglio, essere migliori amici."

Cerco di rimanere impassibile ma senza successo, lo vedo riflesso allo specchio: due linee mi si disegnano in fronte e il labbro superiore si arriccia come davanti a un piatto di ugali avariato. Stringo i pugni sulle cosce. Perché non riesco a fare finta di niente? Sono passati più di tre mesi da che Obera mi ha tolto la parola, e non riesco ancora a essergli indifferente.

Lui, invece, se la cava benissimo.

"I maschi sono così" continua intrecciandomi i capelli, "prendono decisioni affrettate, ma poi ci pensano su e cambiano idea." Ride tra sé e mi assicura la coda di cavallo su un lato del capo. "Il più delle volte."

Alzo una spalla, impercettibilmente, per non disturbare il suo lavoro.

Wangari mi lancia un’occhiataccia attraverso lo specchio.

"Ah, Njoki! Lo vedrai, con il tempo, quanto è facile perdersi di vista, anche con le persone a cui si è voluto bene. È per questo che quando trovi qualcuno che ti fa sentire a casa devi fare del tuo meglio per tenerlo vicino."

"Sentire a casa?" Alzo un sopracciglio. "Siamo in casa!"

Wangari ride, una risata chiara, sgargiante, di quelle che si possono quasi scorgere librarsi nell’aria. È viola e gialla e arancione, allo specchio.

"Quello che sto cercando di dire è che per le persone a cui vuoi bene vale la pena lottare."

"Sei un po’ strana, a volte" dico, ma prima che possa ribattere aggiungo: "E poi cosa dovrei farci io? È lui che ha deciso di non parlarmi più, così, a caso, un bel giorno. Ho provato a chiedergli come mai, ma lui mi ignora!".

Wangari smette di ridere. "Lo sai che non è colpa sua, vero?"

Distolgo lo sguardo. Mi premo i pugni chiusi sulle gambe.

Lo so che non è tuzta colpa sua. Ma questo giustifica forse il suo comportamento?

"E lo sai, vero, che non è successo per caso?"

Me ne sto in silenzio.

 

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"Njoki?"

Mi affondo le unghie nei palmi delle mani. "Lo so. Sono le elezioni e..."

Le sue dita si fermano tra i miei capelli e, con loro, le mie parole. Il mio cuore salta un battito, e non so nemmeno perché.

"No." Wangari parla lentamente. "No, non è per le elezioni. E perché..."

Alzo lo sguardo per incontrare il suo riflesso allo specchio, e non sono sicura che sia davvero mia sorella quella che trovo davanti a me. Ha il suo aspetto, certo, ma c’è qualcosa nei suoi occhi, qualcosa che... qualcosa che non... Di colpo, voglio cambiare argomento. Voglio che smetta di parlare. 

"E questo che è successo tra te e Otieno?" chiedo, le parole che sgorgano come un fiume in piena. "Migliori amici tutta la vita e poi..."

"Njoki" dice una voce profonda, che mi fa trasalire.

E Papà, sull’uscio, di ritorno dal turno di notte. Mi guarda con le sopracciglia aggrottate e una punta di delusione nello sguardo. Mi sento in imbarazzo.

"Con chi parli?" chiede.

"Nessuno" rispondo, forse un po’ troppo in fretta.

Lui sbuffa e scuote il capo. Entra, socchiude la porta alle sue spalle. Una lama di luce attraversa la stanza. Nessuno dei due dice nient'altro.

Quando torno a guardare lo specchio, l’unico riflesso è il mio.

 

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In attesa della sorella perduta

Gli scontri sono andati scemando nelle ultime settimane.

Nel nostro quartiere, però, il ciglio della strada brucia ancora.

L'odore di Papà invade la stanza. Sa di fumo, un olezzo acre che parla di copertoni bruciati e di urla. Sa di acqua di colonia, una combinazione di coriandolo e laudano, un profumo confortante, che conosco da sempre. È sa di gin, ma solo un accenno. Non si concede mai più di poche dita, e solo nei giorni più neri. Dopotutto ha noi... ha me a cui badare.

Papà mi fa sentire a casa, anche quando tutto va a fuoco.

Gli faccio posto spostando lo sgabello, lui si siede dietro di me e riprende ad acconciarmi i capelli da dove mi sono fermata.

"Hai dormito bene?"

Mi sforzo di sorridere. "Sì."

"Niente incubi?"

"Niente incubi."

Cala il silenzio. È un silenzio semplice, rilassato. Mi appoggio alle sue braccia. Lo sento tendersi. Mi raddrizzo di nuovo. Papà continua a farmi i capelli. Per un po’ il suono delle sue mani, insieme al chiacchiericcio della strada, è l’unico nella stanza. È un silenzio colmo di parole non dette.

"E l’ultima acqua che abbiamo?" chiede a un certo punto, toccando il catino con la punta dello stivale. E poi, senza aspettare la mia risposta, aggiunge: "Devi andare alle cisterne a prenderne altra più tardi".

Non rispondo. Papà sa bene che è l’ultima acqua che abbiamo in casa, l’ha notato lui stesso uscendo per il turno di notte ieri. Sa anche che ho una buona memoria, mi ringrazia spesso per le cose che gli ricordo — il berretto ogni volta che esce senza, la visita dall’erborista per quel brutto raffreddore lo scorso inverno, il giorno esatto in cui avrebbero chiuso le strade per il comizio politico. E allora perché la ripete, questa faccenda dell’acqua?

Gli lancio un’occhiata ma non riesco a guardarlo a lungo. Sono occhi potenti, i suoi, scuri e tristi. E poi temo che sarebbe lui a distogliere lo sguardo.

Quindi mi soffermo su un lembo di pelle che spunta da sotto l’uniforme blu scuro, tra il collo e la clavicola. Sembra quasi che le sue parole abbiano il solo scopo di riempire la distanza tra noi, quasi che ciò che tacciamo pesi più su di lui che su di me.

"Njoki?" dice, e ho l'impressione che non sia la prima volta. "Njoki, mi stai ascoltando?"

"SÌ."

 

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"Cosa ho detto?"

"Di andare a prendere l’acqua."

"E poi?"

Faccio spallucce.

"Di stare attenta per strada" aggiunge in tono perentorio ma mitigato dalla stanchezza. "E di non parlare con nessuno. Hai capito? Neanche quelli con cui parlavi prima."

"Sì, Papà."

"Siamo kikuyu, e loro sono luo." Fa ina pausa. "Non siamo uguali."

"Lo siamo stati per anni..." mormoro.

"Cos'hai detto?"

Esito. "Niente."

Papà sospira di nuovo e, come ogni volta, il mio stomaco si contrae. "Non lo siamo più" dice. Fa un’altra pausa. "Non lo siamo più."

Sento una scarica elettrica sprigionarsi dentro di me, dal centro della pancia al petto, alle spalle e da lì fino agli occhi e giù fino alle dita delle mani. È rabbia, è paura, o è qualcos'altro? Non so come chiamarla.

Ci sono tante cose, nuove cose, dentro di me, da quando mia sorella è scappata, a cui non riesco a dare un nome. Stringo i pugni sulle cosce per calmarmi. Ma è inutile. E allora alzo lo sguardo. Mi impongo di guardarlo dritto negli occhi stavolta. Papà fissa un punto lontano.

Apre la bocca e la richiude, quasi avesse qualcosa da aggiungere ma non sapesse come farlo, Wangari è sempre sta. tala sua preferita. E il suo nome adesso è diventato un tabù.

"Fatto" dice all’improvviso.

Per un secondo non capisco a cosa si riferisca. Poi guardo in su. I miei capelli. Sono perfetti, una coda di cavallo assicurata intorno alla testa, quasi una corona, proprio come faceva Wangari. Sento quell’elettricità disperdersi dentro di me. Papà si alza e io lo seguo con gli occhi.

"Ti va di andare a prendere un po’ di latte?" chiede e, senza aspettare una risposta, mi mette cinquanta scellini in mano. Poi si corica a letto.

È il suo modo di dirmi che ha bisogno di solitudine, e silenzio, e oscurità. Lo capisco. Anch'io a volte ho bisogno delle stesse cose.

Mi alzo, finisco di prepararmi ed esco di casa.

"Torna prima di sera" chiama lui alle mie spalle.

"Va bene!"

"E non andare al fiume!"

"Sawa!" mento.

E Papà finge di credermi.

Data di Pubblicazione: 25 ottobre 2022

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