Scopri come addentrarti nella dimensione di conoscenza del testo sacro, senza mai allontanarti da te stesso leggendo l'anteprima del libro di Igor Sibaldi.
L’elemento iniziatico
La Genesi non è una cronaca di fatti realmente avvenuti né di fatti inventati: dà, in forma narrativa, indicazioni per un radicale cambiamento interiore, che è bene chiamare «iniziazione» - cioè riconduzione all’inizio, a ciò che in un individuo vi è di più autentico: così che a partire da lì il cambiamento sia veramente suo. In tal senso, la Genesi va intesa come una cronaca di fatti che possono avvenire a chiunque.
La non-religiosità
La Genesi non è, di per sé, il libro sacro di una religione monoteistica: sia perché le Persone divine che vi compaiono sono due - ’Elohiym e YHWH - e diverse tra loro; sia perché il concetto di divinità che si trova nella Genesi è a sua volta ben diverso da quell’X indefinibile che oggi si chiama «Dio». Al nostro attuale concetto di «religione» è indispensabile quell’X, tanto vago; e viceversa, quell’X ha senso soltanto entro il concetto che solitamente si ha della «religione»: un culto tributato a una misteriosa entità superiore a tutto, della quale si conoscono solo i comandamenti e non la natura. Nella Genesi, sia ’Elohiym sia YHWH sono troppo poco misteriosi per poter apparire come delle X; e non si possono neppure definire soprannaturali, dato che somigliano a ciò che i primi filosofi greci, in seguito, chiamarono il Divenire e l’Essere: YHWH è la forza di tutto ciò che esiste già; ’Elohiym è la potenza di tutto ciò che potrà accadere. In ogni istante sono dunque presenti - l’uno o l’altro - in ogni realtà che l’individuo possa sperimentare. Inoltre, nel testo ebraico né ’Elohiym né YHWH danno comandamenti come siamo abituati a intenderli noi. Svelano, spiegano, indicano vie più o meno urgenti, aprono prospettive, sviluppano facoltà in chi ha imparato ad ascoltarli; ma non presentano all’uomo liste di doveri e di peccati derivanti dal non aver rispettato quei doveri. E non essendoci quelle liste, non ci sono neppure sacerdoti incaricati di farle rispettare - il che impedisce definitivamente di usare, per i racconti della Genesi, il nostro termine «religione».
Il geroglifico e i due piani del racconto
L’ebraico antico è una lingua geroglifica, e come tale può essere letta in due modi: seguendo il senso che le parole assumono quando vengono pronunciate, oppure seguendo il senso che prende forma nei rapporti tra le lettere che compongono le parole (e che sono un po’ come i simboli della Tavola periodica degli elementi chimici). È raro che i due sensi di una parola, quello udito e quello scritto, coincidano perfettamente: la parola ’iYS, per esempio, nell’ebraico parlato attualmente significa «uomo», ma a esaminarne il significato geroglifico, va tradotta con «razionalità», «centro dell’io cosciente». La parola ’iSaH, in ebraico parlato sta per «moglie», ma in geroglifico diventa la «capacità di conoscere l’invisibile». E così via.
Questa caratteristica dell’ebraico antico viene adoperata magistralmente nella Genesi, in modo da costituire due piani narrativi che si integrano l’un l’altro: nel primo, che è quello dell’ebraico parlato, possiamo trovare per esempio un uomo che sposa o perde una donna; nel secondo, geroglifico, vediamo invece l’io cosciente di quell’uomo, che scopre o perde la sua facoltà di conoscere l’invisibile. E la sorpresa è che il piano geroglifico, oltre a essere più profondo, finisce puntualmente per essere anche il più concreto: lì, invece che un profugo fortunato e spesso coraggioso, com’è sul piano più superficiale, Abram diventa una serie di processi evolutivi, di scoperte, di superamenti di errori, in cui i lettori non faticheranno a riconoscere qualcosa che può riguardarli da vicino.
L’autore, Mosè
Infine, la Genesi, di per sé, non è espressione della cultura di un particolare popolo. In realtà, non risulta neppure che l’antico popolo israelita abbia conosciuto quel libro se non per sentito dire: trattandosi di un testo scritto in ebraico, era infatti incomprensibile alla maggior parte degli ebrei, la cui lingua era l’aramaico. Una tradizione disprezzata dagli esperti sostiene che la Genesi sia opera di un pensatore, mistico, terrorista e condottiero egiziano, noto con il soprannome «Mosè» (cioè «il bambino»). A questa tradizione attribuisco grande importanza: ritengo cioè utile alla comprensione del testo l’ipotesi che la Genesi sia la narrazione di ciò che un individuo scoprì della divinità e della psiche umana.
Dei quattro criteri che ho appena elencato, il meno facile da accettare è quest’ultimo. E' infatti indimostrabile, a differenza degli altri tre. E' un mito. Mi conforta pensare che molte scienze adottino, a loro volta, presupposti mitologici: dimodoché l’assunto mitico della mia interpretazione non è poi tanto diverso dal mito egiziano dell’inizio di tutto, su cui poggia la teoria del Big Bang; o dal mito greco degli àtomoi, di cui sono compenetrate la nostra chimica e la nostra fisica. Ma porre oggi, così apertamente, un mito a fondamento di un’interpretazione filosofica e psicologica delle Scritture è un atto che richiede qualche chiarimento, per non venire accusato d’ingenuità.
Poniamola così: non si tratta di credere che, più di tremila anni fa, un uomo intuì ’Elohiym e YHWH (dei quali non si era mai scritto prima) e raccontò di loro, e delle tappe del loro rivelarsi a una serie di personaggi, da lui appositamente plasmati - l’aDaM, Caino, Noè, Abram, Isaac, Yaqob e Yosef (anch’essi inediti prima d’allora). A me piace crederlo, ma questa è cosa mia. In generale, porre Mosè come autore della Genesi significa soltanto riconoscere un’esigenza comune ad alcune correnti del pensiero mediorientale che hanno cambiato il mondo. E qui la questione diventa assai delicata, soprattutto per chi si accontenta di ciò che di solito si dice delle Scritture.
Fu come nel II secolo, quando un piccolo numero di cristiani dissidenti costruirono e descrissero, in una serie di libri chiamati Vangeli, le vicende umane e i discorsi di un Gesù in carne e ossa, mentre fino a quel momento si era parlato di Gesù come di un’entità simbolica. Il loro Gesù fu talmente verosimile da suscitare a lungo l’impressione che quegli evangelisti lo avessero conosciuto di persona. Ma sia la loro abilità di narratori, sia quest’impressione di autenticità, rispondevano proprio a quel fortissimo bisogno ebraico di far risalire a un uomo l’origine d’un movimento spirituale. E lì, appena trovò espressione, questo bisogno fece passare in sottordine il testo che fino ad allora era servito da base al movimento stesso, gli Atti degli Apostoli, in cui il proto-cristianesimo era mostrato (più ragionevolmente) come il prodotto di molti leader e delle larghe e complesse comunità dei loro seguaci.
Proprio allo stesso modo, sul finire del secondo millennio avanti Cristo, alcuni «ebrei» ritennero necessario costruirsi un Mosè, nella cui mente avevano potuto prender forma la dimensione cosmica, la teologia e i sorprendenti racconti simbolici dell’ebraismo. La differenza fu che, nei Vangeli, Gesù venne narrato; Mosè, invece, fu immaginato come il narratore della Genesi, e tutto il suo libro venne scritto così come l’avrebbe scritto un uomo - con un lessico limitato, con il ritornare delle stesse (poche) figure stilistiche, e con una vera e propria «trama» complessiva, che, di racconto in racconto, ripropone una vicenda sempre uguale: sempre una fuga, come già sappiamo, e sempre un andare oltre. All’inizio del libro dell'Esodo, poi, di Mosè si narrò anche com’era incominciata quella sua scoperta profonda di sé, oltre che dei suoi Dei.
Si voleva che così fosse. Ovvero: che nel parlare della Divinità, il punto estremo a cui lo sguardo può giungere non fosse né una collettività né un infinito, ma un individuo che ha trovato un infinito dentro di sé e che può dar forma a una collettività.
E si voleva, al tempo stesso, che quell’individuo fosse a sua volta un racconto - una dimensione, cioè, che prende vita ogni volta che la si legge.
Agli «ebrei» del XII secolo a.C., come agli evangelisti del II secolo d.C., questa volontà sembrava più fruttuosa della voglia ingenua, che poi prevalse, di vedere nella Bibbia un Dio, senza voler vedere che è un libro.
I libri li scrivono gli uomini. Meglio fermarsi a un uomo
Oggi, per tante ragioni (gli imperi, le religioni, i barbari, le persecuzioni di eretici, gli scismi, i roghi, le guerre di religione e tanti altri traumi), di quella volontà antica è rimasto talmente poco che agli esperti l’ipotesi di un unico autore della Genesi appare per lo più stupida. Non vi è manuale di studi biblici, in cui non si ponga da subito la necessità di vedere nella Genesi un collage più o meno grossolano di brani risalenti a epoche diverse e tra loro contraddittori. Ma è increscioso che, per comprovare questa necessità, gli esperti si basino soltanto sulle traduzioni del testo, non sul testo stesso: come già ho mostrato nel Libro delia Creazione, le traduzioni della Genesi sono da sempre perturbate da forzature strane, da omissioni, errori anche clamorosi, miopie, glaucomi che apparirebbero incredibili e inspiegabili, se non pensassimo che il loro scopo è voler vedere, nel libro, soltanto quel collage.
È difficilmente tollerabile, per un occidentale, l’idea che sia stato un «io» a scrivere la Genesi, anche perché un occidentale non può ammettere che un «io» di tremila e più anni fa sia tanto più profondo e geniale di ciò che in Occidente si sa oggi delP«io». Il progresso dell’umanità, per un occidentale, non può a nessun costo trasformarsi in un regresso. Altrimenti tutto perderebbe senso. Di conseguenza quel libro deve essere un raffazzonamento di testi, dal senso insicuro, non riconducibile a un’unica mente: e compito primario degli esperti è fare in modo che così appaia.
Ma è bello ciò che comincia ad accadere, quando ci si figura che sia un libro talmente coerente da poter essere stato opera di un individuo solo.
La Genesi è una serie di racconti: per narrare la sua sapienza, Mosè scelse cioè (a differenza di Gesù, o di Socrate) la particolare frequenza psichica della narrazione scritta per molti. Tale frequenza ha, notoriamente, la caratteristica di annientare d’un tratto alcuni limiti spazio-temporali tra la mente dell’autore e quella del lettore - come non avviene in nessun’altra forma di comunicazione. Il racconto, mentre lo leggi, è sempre adesso, e vive in te, e tu vivi in esso. A questa immediatezza mirava Mosè, sia che lo si intenda come un individuo realmente esistito, sia che lo si intenda come un «Mosè» progettato da alcuni sapienti egizio-ebrei del XII secolo a.C.
Inevitabilmente, ciò fa di Mosè - o «Mosè» che sia - un individuo tanto audace quanto impopolare. Alla gente, infatti, è sempre piaciuto esser tenuta fuori dai sacri recinti, ascoltare il linguaggio dei sacerdoti che dicono a gran voce «voi» e «noi» e «loro», e per i quali i pronomi singolari sembrano non esistere, a meno che siano riferiti da Dio. Nella Genesi, invece, ’Elohiym e YHWH dicono soprattutto «tu» - e questo pronome echeggia nella mente del lettore con forza straordinaria. Racconto dopo racconto, con quel «tu» a fare da leitmotiv, Mosè dà risposte a tutto ciò che nelle teologie dei suoi tempi gli sembrava domanda lasciata a metà - «Dunque un uomo può farlo!» ti viene da pensare, leggendo, e ne esulti. E risposta dopo risposta, Mosè, o «Mosè», desta di continuo quel «tu» nei lettori, ampliando sempre più i loro orizzonti.
Allude a questo ampliamento fin dalle prime pagine: quando scrive che per giungere all’«Albero delle Vite» occorre prima guardare la propria immagine in uno specchio:
"Nella fiamma della spada che gira su se stessa"
Genesi 3,24
Un po’come Aladino vide la propria immagine sull’ottone della lampada, spolverandola. Quella spada-specchio è abbagliante, perché la tua immagine manda luce quando la guardi. Ma alla gente non piace mandare luce, e non vuole che ne mandi tu. Perciò devi scegliere, se guardare o non guardare te stesso - ovvero, se distoglierti o no da tutto ciò che la gente vuole vedere.
Così, nella Genesi, ti addentri in una dimensione della conoscenza, senza mai allontanarti da te. La storia dell’ ’aDaM non è soltanto una storia, ma un metodo per riconoscere in se stessi le capacità, i terribili traumi e la disobbedienza dell’ ’aDaM; e così la storia di come Caino si liberò di Abele; e il Diluvio: anche nel racconto del Diluvio puoi cancellare la distanza, accorgendoti che spiega come superare la propria epoca e aprirsi a nuovi mondi - mentre il mondo vecchio viene sommerso dal potere di distruzione e trasfigurazione che chiunque scopre d’avere, quando cambia vita.
Lì ci eravamo fermati nel Libro della Creazione, e da lì riprendiamo.
Data di Pubblicazione: 31 luglio 2019