La digitalizzazione ha cambiato il nostro modo di pensare e le nostre abitudini, scopri in che modo leggendo l'anteprima del libro di Fabio Pellerano.
La relazione uomo-macchina
La costruzione e gestione di meccanismi e di macchine è radicata nella storia dell’umanità per culminare, almeno per ora, in questo periodo storico. Celebre la truffa del Turco, automa che giocava a scacchi, creato nel 1769 da Wolfgang von Kempelen per Maria Teresa d’Austria. In quel caso non erano gli ingranaggi a far funzionare la macchina ma un uomo di piccola statura. Alla fine però siamo arrivati a creare una macchina che gioca a scacchi per davvero e vince.
Inizialmente i principali apparecchi servirono per la produzione industriale e per aumentare il numero di oggetti che non sarebbe stato possibile creare a livello artigianale. Grazie al vapore, e poi all’elettricità, si potè avere quell’energia che prima era fornita dagli uomini e dagli animali. In quel momento storico si iniziarono a muovere gli ingranaggi, quelli enormi, così ben raccontati dal celebre film “Tempi moderni” del 1936 scritto, diretto e interpretato da Charlie Chaplin. Per tutti noi sono lontani quei tempi, ma il rischio dei gesti ripetitivi, senza una fine e senza un obiettivo chiaro, possono portare le persone all’alienazione. Da quella prima critica sociale è passato molto tempo ma, a mio avviso, è chiaro come l’uso di un macchinario ci condizioni e, se quel condizionamento dura a lungo, potremmo anche ammalarci. Ricordo che gli esseri umani sono suggestionabili e manipolabili, per cui non mi stupisce che si possa arrivare a questo.
Scrive Umberto Galimberti:
«La Seconda guerra mondiale può essere considerata la fase iniziale dell’età della tecnica. Non perché prima non ci fosse una società tecnologica. La tecnica, infatti, comincia a manifestare la sua potenza nell’Ottocento, con la rivoluzione industriale e poi con le necessità belliche. Tuttavia, durante la Seconda guerra mondiale si assiste a uno sviluppo tecnologico che determina una mutazione antropologica senza precedenti. Il modo di pensare che si forma in quegli anni diventerà il paradigma dominante per tutti noi che oggi viviamo nell’età della tecnica».
Se prima dietro l’invenzione di un macchinario c’era la produzione industriale, ora ci troviamo in una situazione in cui delle macchine costruiscono altre macchine. Questo cambiamento ha liberato molte persone dalla possibile alienazione ma impone una riflessione che è opportuno fare. Se prima le macchine erano presenti solo sul posto di lavoro e dovevano servire a sollevare dalla fatica o rendere più veloci certe operazioni oggi sono presenti ovunque, cosa inimmaginabile cinquant’anni fa. Questa novità non è necessariamente negativa ma introduce degli scenari che occorre prendere in considerazione, nell’ottica di una migliore gestione dei dispositivi.»
Galimberti inoltre afferma:
«Ci sono ancora dei pensieri liberi, ma non sono più che un passatempo, un esercizio domenicale. Non incidono realmente su ciò che accade nel mondo, dove tutto ruota intorno all’utilità, all’ottimizzazione del rapporto mezzo-fine. In questo modo la tecnica modifica radicalmente il nostro modo di pensare, perché le macchine, anche se ideate dagli uomini, ormai contengono un’oggettivazione dell’intelligenza umana decisamente superiore alla competenza dei singoli individui. La memoria di un computer è decisamente superiore alla nostra memoria. E anche se si tratta di una memoria “stupida”, frequentandola essa modifica il nostro modo di pensare, traducendolo da “problematico”, come sempre è stato, in “binario”, secondo lo schema 1/0, che ci rende idonei a dire solo “sì” o “no”, al massimo “non so”».
L’uso di questi apparecchi impone una limitazione sia nell’utilizzo sia nelle modalità. Un coltello, per esempio, potrei usarlo come cacciavite se non ne avessi uno a portata di mano; non sarebbe perfetto ma potrebbe essere d’aiuto. Un dispositivo digitale può fare molte cose, ma ha dei limiti che gli impediscono di diventare qualcos’altro, almeno nel mondo fisico. Questo limita la nostra creatività e ci impone di imparare a relazionarci con questi strumenti in maniera diversa.
La stessa scrittura ha subito enormi cambiamenti e quel lento o veloce fluire della penna sulla carta ha lasciano spazio al battito più o meno veloce sulle tastiere reali e virtuali, trasformando l’esperienza tattile e sensoriale per sempre. Per secoli le persone hanno scritto, prima con penna e calamaio e poi con le biro, ma il gesto è rimasto lo stesso. Comprendete bene come siamo di fronte a un’esperienza sensoriale inedita che ci segna e ci mette in relazione con il mondo esterno in maniera diversa, attraverso una nuova abitudine che in molti hanno accolto senza farsi domande. Questo non significa che sia meglio tornare a carta e penna, ma quanti si sono detti, quando il sistema non funzionava o mancava la corrente, che era meglio prima?
In un futuro forse neanche troppo lontano la tecnologia permetterà di vivere per sempre, se non nel corpo fisico, almeno dentro un computer. È la grande sfida del mind uploading, quella di creare una copia perfetta del cervello e caricarla su un supporto non biologico in modo che sfugga al naturale deperimento del corpo.
Negli ultimi vent'anni
La grande novità rispetto al passato è la possibilità di essere costantemente collegati al mondo esterno grazie ai dispositivi tascabili; la possibilità di avere sempre questi strumenti a portata di mano ha cambiato per sempre le nostre abitudini.
Galimberti scrive:
«La radio, la televisione, il computer, il cellulare ci plasmano qualunque sia lo scopo per cui li impieghiamo, perché una trasmissione televisiva edificante e una degradante, per diversi che siano gli scopi a cui tendono, hanno in comune, come osserva Anders, il fatto che noi non vi prendiamo parte ma ne consumiamo soltanto la sua immagine. Il “mezzo”, indipendentemente dallo “scopo”, ci istituisce come spettatori e non come partecipi di un’esperienza o attori di un evento. Questa condizione, che vale per la televisione, vale in maniera esponenziale per internet, dove il consumo in comune del mezzo non equivale a una reale esperienza comune. Ciò che in internet si scambia, quando non è una somma spropositata di informazioni, è pur sempre una realtà personale che non diventa mai una realtà condivisa. Lo scambio ha un andamento solipsistico dove, come vuole la metafora di Anders, un numero infinito di “eremiti di massa” comunicano le vedute del mondo quale appare dal loro eremo, separati l’uno dall’altro, chiusi nel loro guscio come i monaci di un tempo sui picchi delle alture, non già per rinunciare al mondo, bensì per non perdere, per l’amor del cielo, nemmeno una briciola del mondo in effigie. E così, sotto la falsa rappresentazione di un computer personale (personal computer), ciò che si produce è sempre di più l’uomo di massa, e per generarlo non occorrono maree oceaniche, ma oceaniche solitudini che, sotto l’apparente difesa del diritto all’individualità, producono, come lavoratori a domicilio, beni di massa e, come fruitori a domicilio, consumano gli stessi beni di massa che altre solitudini hanno prodotto. A questo punto le considerazioni di Gustave Le Bon sulle situazioni di massa che alterano l’individuo sono ampiamente superate perché, grazie al personal computer, oggi si procede a domicilio a questa degradazione dell’individualità e al livellamento della razionalità».
La rivoluzione digitale inizia molti decenni fa, negli anni Cinquanta, in grandi stanze in cui erano sistemati i primi enormi computer con una potenza di calcolo che oggi fa sorridere. Negli anni Ottanta cresce l’idea e la disponibilità del personal computer, mentre prima questi dispositivi erano prerogativa del mondo del lavoro e non presenti in ogni casa. L’approccio era piuttosto ostico, con un programma in cui bisognava scrivere dei comandi e non cliccare su un’icona. Negli ultimi vent’anni un po’ tutti abbiamo memoria dell’esplosione di apparecchi digitali a nostra disposizione.
Potenza di calcolo
Nel 1969 l’uomo ha conquistato la Luna, ben 356.000 chilometri tra andata e ritorno nello spazio, con una potenza di calcolo infinitamente inferiore a quella di uno smartphone. L’AGC (Apollo Guidance Computer) era il computer che portò l’uomo sulla Luna ed aveva 152 kilobyte complessivi di memoria a bordo, tra ROM e RAM, con una frequenza di calcolo che andava da 0,043 a 2 MHz nei vari sottosistemi, che erano in grado di coordinare il flusso di dati proveniente dal sistema di navigazione giroscopico, dal telescopio e da due radar e forniva agli astronauti il controllo sui motori e su tutte le operazioni di bordo. Il computer eseguiva diversi programmi dando loro un ordine di priorità, i più urgenti prima, gli altri in coda ed era progettato per non bloccarsi nemmeno in caso di errore.
Se confrontiamo le potenze di memoria scopriamo che:
- l’AGC del 1969 aveva 152 kilobyte,
- l’Atari 2600 del 1977 aveva 8 kilobyte,
- il Commodore 64 del 1982 aveva 64 kilobyte,
- uno smartphone non molto potente da 2 gigabyte, ha 2 milioni di kilobyte
- una canzone media di MP3 ha 3MB, cioè circa 3.000 kilobyte.
Con la potenza di calcolo odierna potremmo andare molto più lontano. Ovviamente i viaggi nello spazio hanno anche bisogno di molto altro per poter funzionare.
Longo scrive:
«Oggi tuttavia il quadro sta cambiando. La tecnologia, in particolare quella legata all’elaborazione e alla trasmissione dell’informazione, si sviluppa in modo così rapido e tumultuoso che la teoria non riesce più a starle dietro. La velocità e la complessità della tecnologia impediscono spesso alla scienza di tracciarne un quadro esplicativo coerente e completo e di fornire risposte certe ai problemi applicativi: che cosa accadrà se userò il tale farmaco, se devierò il corso di questo fiume, se modificherò il corredo genetico di quella specie? Per entrare sul mercato e nelle nostre case la tecnologia non aspetta più la scienza e le sue patenti di legittimità. [...] Non intendo certo sbrogliare l’intricatissimo rapporto tra scienza e tecnologia, ma solo rilevare che oggi, soprattutto grazie all’impiego delle tecnologie informatiche e della simulazione, la nostra capacità di agire ha superato di molto la nostra capacità di prevedere. È interessante anche osservare che, in genere, gli utenti degli strumenti tecnici non si curano affatto di comprenderne il funzionamento. La tecnologia è importante per ciò che ci consente di fare, non di capire».
Trasformazione nella modalità di relazione
Dietro ogni innovazione c’è un pensiero, un disegno ideato per rendere quell’esperienza di uso interessante e proficua. Per far questo, inevitabilmente, i progettisti devono migliorare il prodotto precedente. Soprattutto gli smartphone sono ormai più macchine fotografiche che telefoni. In pratica non aggiungono nulla ma migliorano o integrano delle funzioni per essere più velocemente presenti sui social. Se devo prendere la macchina fotografica, scattare, scaricare, caricare sui social e commentare... È molto più veloce scattare e condividere. I miglioramenti hanno quindi un preciso obiettivo ed emerge come la tecnologia alimenti se stessa, almeno in questo momento. Diverso è quando si lavora per migliorare la batteria o le prestazioni generali. Questa esperienza di tipo binario, cambia la nostra percezione, rimodella il nostro pensiero in rapporto alla relazione che instauriamo con quel dispositivo, pensato e realizzato da altri.
«Non è un caso che il pensiero umano si è evoluto proprio quando ha superato questo tipo di impostazione. Il pensiero primitivo, infatti, era fondato sui binomi: luce e tenebre, giorno e notte, terra e cielo. Due erano i parametri all’inizio della nostra storia. Poi abbiamo cominciato a pensare in modo problematico e complesso. Oggi questo tipo di pensiero implode nuovamente in una logica binaria, che ritroviamo nelle trasmissioni a quiz che fanno da traino ai telegiornali, negli esami di maturità, persino nelle ammissioni all’università. Né vale l’obiezione secondo cui la tecnica è buona o cattiva a seconda dell’uso che se ne fa, perché a modificarci non è il buono o il cattivo uso ma, come ci ricorda Anders, il solo fatto che ne facciamo uso. Il suo utilizzo ci modifica. Parlare con i nostri amici attraverso una chat significa subire una trasformazione nella modalità di relazione, perché discutere via chat è diverso che incontrarsi vis-à-vis. Se i nostri bambini guardano la televisione quattro o più ore al giorno è inevitabile che si trasformi il loro modo di pensare e di sentire. E questo indipendentemente dai buoni o dai cattivi programmi. E sufficiente la prolungata esposizione».
Adam Alter, professore alla New York University ha pubblicato nel 2018 un libro dal titolo: Irresistible: The Rise of Addictive Technology and the Business of Keeping Us Hooked (Irresistibile: l’ascesa della tecnologia che crea dipendenza e il business di tenerci agganciati) e risponde così alla domanda se ci sia una precisa volontà nel progettare i dispositivi digitali:
«Non credo che le aziende tecnologiche stiano esplicitamente cercando di rendere i loro prodotti estremamente additivi - almeno non è questo il termine che userebbero. Penso che lo descriverebbero come “massimizzare l’impegno” o, per prendere in prestito un termine dall’industria del gioco d’azzardo, massimizzare il “tempo a disposizione”. Se siete in competizione per avere risorse di attenzione limitate, dovete assicurarvi che le persone non possano smettere di usare il vostro prodotto una volta che hanno iniziato. Non è sufficiente fare un prodotto che loro acquistano e poi ignorarlo; devono continuare a usarlo in modo da poter attrarre denaro dalle pubblicità e, col tempo, vendergli gli aggiornamenti e incoraggiarli a fare acquisti continui che siano legati all’esperienza. La conseguenza, però, è che questi prodotti sono progettati per essere avvincenti, e spesso si rivelano essere fonte di dipendenza».
Data di Pubblicazione: 20 aprile 2021