SELF-HELP E PSICOLOGIA   |   Tempo di Lettura: 10 min

L'incontro con il Dreamer

La Scuola degli Dei - Elio D'Anna - Speciale

Concretizza ciò che desideri davvero ed entra a far parte della Scuola degli Dei per diventare un Dreamer, leggendo l'anteprima del libro di Elio D'Anna.

L'incontro con il Dreamer

A quel tempo vivevo a New York in un appartamento di Roosevelt Island, la piccola isola nel mezzo dell’East River, tra Manhattan e Queens. L’isolotto, come una nave all’ancora, sembrava sul punto di sciogliere gli ormeggi per scivolare con la corrente verso la libertà dell’oceano; ma giorno dopo giorno restava immobile nell’oscurità ondosa del fiume.

Entrai in camera per dare la buonanotte ai bambini, ma già dormivano. In punta di piedi ritornai nel soggiorno. Il silenzio della notte mi fasciava e mi nascondeva. Un senso di estraneità vicino alla repulsione mi faceva sentire un ladro penetrato nella vita di uno sconosciuto. Restai ad osservare il profilo punteggiato di luci del Queensborough Bridge. Il ponte sembrava sospeso sul vuoto immenso dei suoi atomi di metallo.

Era freddo, incombente come una minaccia.

Jennifer si era da poco ritirata in camera, nello stile americano che conclude un litigio. Ero tornato tardi quella sera.

Ero stato al J. F. Kennedy Airport a prendere un amico che non vedevo da tempo. Dall’incontro ricavai l'impressione che la sua vita fosse più agiata, più felice della mia. Sentimenti di invidia, di gelosia e una rivalità cieca, rigurgiti di un passato non risolto, scattarono insieme ad una loquacità meccanica, ad un impulso a parlare senza freno.

In macchina, una bugia dietro l’altra, venne fuori una storia romanzata dei miei anni a New York. Gli raccontai dell’impossibilità di partecipare a tutti i party cui ero invitato, dei vernissage, delle prime teatrali, dei miei successi professionali, dei miei hobbies, e soprattutto di quanto ero felice con Jennifer.

Le parole mi arrivavano in gola morte e un pianto mi montava dentro. La nausea per quel fiume di insincerità che scorreva denso, inarrestabile, il senso di impotenza a governare quella sequela di menzogne, divenne insopportabile. Avrei ‘voluto’ interrompere quell’assurda esibizione; ma più tentavo di arrestare quel disastro e più sentivo l’impossibilità di porvi rimedio.

Eravamo in due nello stesso corpo. Il pensiero di essere intrappolato in una entità bifronte, siamese, centauro, androgino, prigioniero per sempre di una simbiosi grottesca e feroce, mi atterrì.

L’aria si oscurò. Mi accorsi di aver sbagliato strada. Ci stavamo addentrando in un labirinto desolato di vie male illuminate e sempre più sporche. Le parole si smorzarono e a poco a poco un silenzio freddo si impossessò dell’auto. Procedevo ormai a passo d’uomo sotto scrosci di pioggia torrenziale, quando notai i fari di una macchina tallonarci ed intravidi alcune ombre fare capolino dai pilastri di una soprelevata. Mi voltai a guardare il mio amico e raggelai.

Tremava senza controllo, la sua faccia era una maschera di paura.

Accelerai. I battiti del cuore si erano fatti così forti da squassarmi il petto. Svoltai d’istinto nella prima strada che trovai. Con una brusca sterzata evitai un gruppo di vagabondi stretti intorno ad un bidone in fiamme. Le ombre dei palazzi erano fauci mostruose, la gorgia di un inferno che ci stava fagocitando.

Un suono di sirene spiegate lacerò l’aria e urtò quell’atmosfera angosciosa spezzandola. Nel retrovisore, da cui lanciavo di continuo occhiate disperate sulla macchina che ci inseguiva, vidi i fari allontanarsi fino a sparire, ingoiati dal buio. Riconobbi i segni di un quartiere più umano ed alcuni cartelli indicatori che finalmente ci riportarono a casa.

Non rividi mai più quel vecchio amico.

 

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Il momento della rivoluzione

Feci il breve tratto in ascensore in compagnia di un gigante nero, un idiota che con il suo farfugliare mi accompagnò fino al sedicesimo piano. Roosevelt Island era a quel tempo un esperimento di integrazione e non era raro l’incontro con portatori di handicap che risiedevano sull’isola con i loro accompagnatori.

L’accoglienza che mi riservò Jennifer, i suoi capelli arricciati nei bigodini ondeggianti come serpi di medusa, la sigaretta tra le dita mentre sbraitava e misurava a passi nervosi il soggiorno, furono gli ultimi suoi riflessi nello specchio della mia vita. Sentii la vacuità della nostra relazione e tutta la dolorosità della mia esistenza, come se il lento anestetico che mi aveva intorpidito per anni stesse d’improvviso cessando il suo effetto.

Quell’appartamento, il rapporto con quella donna e qualunque oggetto su cui ora poggiavo lo sguardo mostravano una mediocrità insanabile. Quelle scelte che credevo espressioni della mia personalità si stavano rivelando trappole senza vie d’uscita.

Non era così che avevo sognato la mia vita! Avvertii la mia impotenza con ripugnanza. Una disperazione muta mi travolse. Un fiume gelido e denso abbatté ogni argine, ogni bugia, ogni compromesso e mi gettò come un naufrago su una sponda desolata dell’Essere. Reclinai la fronte sulle braccia. Poi la tristezza si fece sonno.

L’interno della villa era immerso in un buio profondo appena stemperato da un presagio d’alba. Un’antica tela occupava la parete di fondo della grande sala. Alla fioca luce disponibile vi indovinai uno scenario silvestre con al centro una figura sognante.

Come il dipinto, ogni dettaglio di quell’ambiente, dall’architettura agli arredi, trasmetteva un intenso messaggio di bellezza. Trovarmi in quella villa, a quell’ora incerta tra la notte e l’alba, era molto strano, eppure non sembravo sorpreso. Tutto mi appariva familiare, anche se ero certo di non esserci mai stato prima.

La villa restava silenziosa, come assorta in un pensiero. Salii le antiche scale di pietra fino alla massiccia porta di una camera.

Osservai che ero accuratamente vestito, come se dovessi incontrare un’autorità sconosciuta. Non ricordo cosa agitasse il mio animo, ma ero ansioso e di cattivo umore. Una ridda di sentimenti alimentava il mio monologo interno come sterpi in una fornace.

Mi slacciai le scarpe e le deposi sulla soglia. Anche questa operazione mi sembrò naturale. Per certo, quei movimenti, noti e necessari, erano parte di un rituale eseguito già altre volte. Mi sembrava perfino di sapere che cosa mi attendesse oltre quella porta, senza però averne la minima idea.

 

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Nel bussare avvertii un’improvvisa inquietudine che sostituì d’un colpo il flusso dei miei pensieri; una specie di timore riverenziale. Qualcosa dentro di me sapeva. Senza attendere risposta ai miei leggeri colpi, poggiai il mio peso sulla maniglia di ferro battuto e spinsi abbastanza da creare un varco.

Diedi un’occhiata al camino. Il bagliore della fiamma mi fece male agli occhi, tanto che dovetti distogliere lo sguardo e chiudere le palpebre per non lacrimare. ‘Lui’ era accanto al fuoco. Mi volgeva le spalle. Vidi proiettata sulla parete l’ombra della Sua sagoma.

La stanza, che il fuoco remoto lasciava in penombra, era per due lati percorsa da archi imponenti che incorniciavano finestre antiche, occhiaie di pietra aperte sul buio. Attraverso quelle a est vedevo una porzione di cielo intenerirsi dei colori dell’alba.

Stavo avanzando cautamente di qualche passo sul bianco lago del pavimento, quando la Sua voce risuonò alta e terribile raggelando ogni mio movimento e pensiero.

"Sei in condizioni disastrose! — disse, senza voltarsi — Lo sento da come entri, dai tuoi passi e soprattutto dal tanfo delle tue emozioni. Sei una moltitudine, una folla di pensieri. Dove vai in questo stato? Ridotto in mille pezzi come sei, a stento riesci a vivere la tua esistenza da impiegato."

"Io non sono un impiegato" rintuzzai con forza, come a difendermi da un attacco fisico, improvviso. Chiunque egli fosse, era opportuno stabilire subito le giuste distanze tra noi. Ma l’impeto delle mie parole si spense contro pareti di ovatta.

Assalito da un timore sconosciuto, trovai a stento la voce per ribattere: "Io sono un manager!"

Il silenzio che seguì si allargò nell’Essere a dismisura; una risata beffarda mi echeggiò dentro per un tempo infinito. Poi da quell’eternità la voce emerse di nuovo.

"Come ti permetti di dire ‘io’? — disse con un tono sprezzante che mi colpì come uno schiaffo in piena faccia — Nel mio mondo pronunciare ‘io’ è una bestemmia. ‘Io’ è la divisione che ti porti dentro... ‘io’ è la tua folla di bugie... Ogni volta che affermi uno dei tuoi ‘piccoli io’ stai mentendo. ‘Io’ può dirlo solo chi conosce sé stesso, chi è padrone della propria vita... chi possiede una volontà."

Ci fu una pausa. Quando riprese a parlare le Sue parole suonarono ancora più minacciose.

 

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"Non pronunciare mai più ‘io’ o qui non potrai più tornare! Osservati... Scopri chi sei... To be a multitude means to be trapped in an unreal, inescapable, self-created system of false beliefs and lies. That you yourself created. Lack of unity leaves man in the prison of ignorance, fear and self- destructiveness, and causes illness, degradation, violence, cruelty and wars in the outer world.

Il mondo è come tu lo sogni... è uno specchio. Fuori trovi il tuo mondo, il mondo che hai costruito, che hai sognato. Fuori trovi te! Vai a vedere chi sei. Scoprirai che gli altri sono l’immagine riflessa della bugia che ti porti dentro, del compromesso, della tua ignoranza... Cambia! ... e il mondo cambierà.

Crei un mondo malato e poi hai paura della tua stessa creatura, della violenza che tu stesso hai generato. Credi che il mondo sia oggettivo... ma il mondo è come tu lo sogni. Vai nel mondo e accettali... Incontra i poveri, i violenti, i lebbrosi che ti porti dentro. Accettali... Non evitarli, non accusarli... Arrenditi al tuo mondo. Vai e accetta consapevolmente quello che hai creato: un mondo rigido, ignorante... senza vita. Il potere di un uomo è nel possedere sé stesso e nello stesso tempo, arrendersi a sé stesso."

Bruscamente, la voce assunse il tono ruvido di un ordine:

"In Mia presenza... carta e penna! — comandò — Non lo dimenticare mai."

Il tono perentorio, quell’improvviso cambiamento di soggetto, mi sconcertarono. Poi lo sconcerto si trasformò rapidamente in paura e questa in panico.

Mi sentii sovrastato da una minaccia mortale. Ogni senso era teso allo spasimo quando sentii la Sua voce diventare un sibilo potente:

"Questa volta dovrai scrivere. Carta e penna saranno la tua sola salvezza — disse — Scrivere le Mie parole è il solo modo che hai per non dimenticare... Scrivi! Solo così potrai racimolare i brandelli sparsi della tua esistenza."

Poi, come se non si fosse mai interrotto, si riallacciò alla mia ultima affermazione e rimbeccò:

"Un manager è un impiegato che si sforza di credere in quello che fa; si impone una fede... è il sacerdote di un culto che, per quanto mediocre, gli dà un’appartenenza, l'illusione di avere una direzione. Ma tu non hai neppure questo! Pensieri, sensazioni e desideri in assenza della volontà sono schegge impazzite nell’Essere e tu, un frammento in balia nell'universo..."

Quelle parole mi si rovesciarono addosso come una doccia fredda ed improvvisa che mi lasciò boccheggiante. La temperatura sembrò abbassarsi di parecchi gradi e mi sentii gelare. Uno sconfinato imbarazzo, come non lo avevo ancora provato in tutta la vita, mi pervase con crudele lentezza. Il tono era un sussurro rauco, senza dolcezza.

"Nelle tribù indiane d'America c’era una casta degli ultimi: uomini che non erano né sciamani né guerrieri; non cacciavano, non competevano né per il rango né per le donne... Erano adibiti ai lavori più umili e gravosi. Erano quelli che indietreggiavano davanti alle prove di coraggio, di incorruttibilità."

Data di Pubblicazione: 12 maggio 2022

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