I retroscena del kambo
I retroscena del kambo
Da giornalista, e in modo particolare da giornalista investigativo, mi aspetto di andare incontro a controversie e critiche. Nel mio lavoro, dopotutto, ricevo soffiate su attività illegali, immorali, o tutte e due insieme, dopodiché inizio a indagare per scoprire se le segnalazioni corrispondono a verità e, in tal caso, ne considero le possibili implicazioni. E se si tratta di scoperte che faranno perdere la faccia, i soldi o il potere a un burocrate locale o una compagnia petrolifera, be’ molti faranno di tutto per impedire che la storia venga alla luce. Potrebbero minacciarti con azioni legali, violenza fisica o lettere al tuo editore in cui discreditano il lavoro che hai fatto. Alla fine impari a convivere con queste cose. Dopotutto è un lavoro di investigazione.
Ciononostante, mai avrei pensato che l’incontro casuale con il kambo Matsés avrebbe scatenato un piccolo putiferio su vari fronti.
Il primo episodio si verificò al Museo Americano di Storia Naturale, anche se da allora le cose si sono appianate. Dopo il mio incontro iniziale con i Matsés portai a casa diversi manufatti, tra cui un arco lungo, un paio di frecce, una collana di denti di gattopardo e altre cose. Nel tentativo di scoprire se Moises, il mio istruttore di sopravvivenza nella giungla, mi aveva davvero portato in un posto non turistico, pensai di offrire al museo alcuni di quei manufatti.
Ci vollero alcune telefonate, ma alla fine Laila Williamson, una collaboratrice della sezione di antropologia del museo che lavorava nel dipartimento di etnologia del Sudamerica, mi disse che potevo portarli. Quel giorno mi sentivo irrequieto: ero certo che mi avrebbero riso in faccia perché magari erano solo cianfrusaglie per turisti, e non pezzi di valore.
Con mio stupore, invece, sia la Williamson che Robert Car-neiro, l’allora curatore della sezione di antropologia, mi chiesero come ero venuto in possesso di quegli oggetti. Glielo raccontai. Dissero di volerne alcuni per la Sala dei Popoli Sudamericani, che stavano allestendo in quel periodo. Li avrebbero inseriti nell’esposizione permanente, dove i manufatti dei Matsés erano pochi. Ero in estasi.
Però non toccarono la collana di denti di gattopardo, poiché proveniva da una specie in via di estinzione.
Per ogni oggetto la Williamson mi fece anche preparare una relazione dettagliata che ne spiegasse la provenienza, quando era stato acquisito e come ne ero entrato in possesso. Annotai tutto con grande precisione e lei in cambio fece scrivere a Carneiro una lettera in cui veniva riconosciuto il mio contributo al museo.
Prima di ripartire per l’Amazzonia - accompagnato da Steve Flores — chiesi alla Williamson se cera qualcosa in particolare di cui avevano bisogno, perché in tal caso mi sarei messo a cercarlo.
Disse che cerano un paio di cose e poi mi diede un’altra lettera, questa volta per la dogana statunitense, nel caso mi avessero fermato a causa degli oggetti che introducevo nel paese. In sostanza la lettera diceva che raccoglievo manufatti per conto del museo e chiedeva cortesemente di lasciarmi passare. Se la cosa non era possibile, si pregava l’ufficio doganale di trattenere i manufatti sequestrati finché il museo non si fosse messo in contatto.
In quel viaggio Moises ci portò al Rio Galvez, in una zona del Brasile quasi al confine con il Perù dove c’erano molti accampamenti Matsés. Come ho già raccontato, in uno di questi accampamenti, a Siete de Junio, Pablo mi diede il kambo e quello stesso giorno lo somministrò anche a Steve.
Di ritorno a New York, portai alla Williamson diversi manufatti e nelle note parlai anche dell'esperienza che avevo fatto con il kambo e con l’altra sostanza medicinale dei Matsés, il rapè.
Leggendo la documentazione, la studiosa trovò le informazioni sul kambo interessanti, ma non molto credibili. Non ne aveva mai sentito parlare. Carneiro, invece, ricordò che in un suo opuscolo pubblicato nel 1970 e intitolato Hunting and Hunting Magic Among the Amahuaca of the Peruvian Montana — la comunità indigena presso cui aveva svolto ricerche per il suo dottorato - aveva dedicato un paragrafo a una rana che gli Amahuaca usavano molto. Nel paragrafo si diceva:
Ma la tecnica di caccia più magica in assoluto per un uomo consiste nell’inoculazione della secrezione tossica di una piccola rana nota agli Amahuaca col nome di kambo. La secrezione viene raschiata via dal dorso della rana con un bastoncino. Con un marchio a fuoco il soggetto si provoca diverse ustioni sulle braccia o sul torace e poi strofina la secrezione nelle aree ustionate. Dopo breve tempo il soggetto presenta violenti sintomi fisici, come irrefrenabile vomito o diarrea. Nei tre giorni successivi, ancora sotto l’effetto della tossina, si manifestano vivide allucinazioni che vengono considerate esperienze soprannaturali. Quando alla fine si riprende, è convinto che la sua caccia avrà un esito positivo.
Carneiro mi disse che, non avendo mai visto la rana o le secrezioni utilizzate, non si era soffermato sulla questione. Ma ora si chiedeva se non fosse la stessa rana che avevo trovato presso i Matsés; non era impossibile, visto che i due gruppi condividevano una parte di territorio e parlavano dialetti appartenenti alla stessa famiglia, le lingue Panoan.
Sistemai i miei appunti in forma di racconto e li mandai alla rivista Penthouse. Incredibilmente mi chiamarono, dicendo che apprezzavano la storia, ma dubitavano che fosse vera. Ero per caso disposto a ritornare subito in Amazzonia con un loro fotografo che avrebbe documentato il viaggio?
Ovviamente lo ero. Steve aveva fatto foto meravigliose, ma Penthouse voleva insistentemente che tornassi con uno dei loro fotografi, qualcuno che si sarebbe accorto se mi fossi inventato le cose o avessi trattato con una tribù per turisti, anziché con veri indigeni. Mi mandarono Jeff Rotman, il brillante fotografo subacqueo, che ritrasse Pablo, la trappola per tapiri, il rapè, il kambo e la vita familiare all’accampamento con scatti straordinari. Fotografò anche i due villaggi bruciati di Remoyacu e Buen Perù, come anche i nuovi villaggi gemelli edificati più a valle rispetto all’accampamento di Pablo e Alberto. In alcune foto c’erano loro due che pulivano il terreno, in altre le minuscole capanne alte poco più di un metro che usavano come alloggi provvisori, in altre ancora un enorme anaconda.
Anche stavolta portai a casa qualche rudimentale manufatto per il museo e buttai giù delle note. La Williamson mi suggerì di raccontare la storia del kambo a Charles Myers, curatore del Dipartimento di Erpetologia del museo. Disse che ci avrebbe fissato un appuntamento.
In quegli anni internet ancora non c’era - era la fine del 1986 - quindi cercai informazioni su Myers alla sede centrale della biblioteca pubblica di New York a Manhattan. Trovai che, insieme al suo socio John Daly, aveva scoperto una nuova specie di rana dal dardo velenoso. Erano probabilmente i primi due studiosi a essersi interessati di quelle piccole rane colorate, così come dell’intera specie delle Dendrobatidae e delle loro secrezioni, che diversi gruppi di indigeni usavano come veleno sulla punta delle frecce per cerbottane.
Proprio come mi era successo all’inizio con la Williamson, l’idea di incontrare il dottor Myers mi creò una certa apprensione. Quasi sicuramente mi avrebbe detto che non c’era niente di nuovo nella mia storia, e che tutti gli erpetologi già conoscevano il kambo. Forse perché mi sentivo nervoso, mi fermai all’edicola con le riviste internazionali che si trova sull’altro lato di Central Park, a ovest del museo, ed esaminai i titoli. Uno mi saltò subito all’occhio: era la rivista New Look, una specie di economica versione francese di Penthouse. In copertina c’era una splendida modella. A sinistra della foto cerano tre inserti che presentavano le storie contenute all’interno. Uno raffigurava una donna Matsés: Ma Shù. Era una delle foto scattate daJefFRotman nel nostro ultimo viaggio.
Comprai la rivista e, con grande stupore, constatai che in quel numero avevano messo addirittura due paginoni centrali: in uno c’era una donna nuda, nell’altro una foto di Jeff dove io, Moises e due Matsés tenevamo un anaconda lungo più di sei metri, ucciso poco prima dai Matsés con il fucile che mi avevano chiesto in prestito. Un esemplare incredibile, un vero peccato vederlo in quello stato. Ma non avevano avuto scelta: mentre raccoglievano corteccia di balsa per le pareti delle capanne nuove, il serpente si era mangiato due dei loro cani. Gli alberi di balsa erano quasi completamente sommersi nel lago stagionale formatosi nella pianura alluvionale: la corteccia di balsa, infatti, si raccoglie solo quando è ben impregnata. Ebbene, in quel lago ci viveva l’anaconda e i Matsés non vollero rischiare di perdere qualcuno dei loro. La foto di Jeff occupava due pagine ed era un vero spettacolo: in quattro riuscivamo a malapena a tenere quel rettile gigante.
Infilai la rivista nella mia ventiquattrore e, carico d’energia, andai a incontrare Myers. Lo studioso era seduto dietro un’imponente scrivania. Vicino a una parete c’erano due piedistalli, su ognuno dei quali vera un acquario contenente decine di rane dal dardo velenoso.
Mi chiese degli effetti del kambo. Gli raccontai della mia esperienza con la sostanza e dei suoi incredibili postumi. Quando ebbi finito, lui mi guardò e disse qualcosa come: «Peter, ho lavorato a poco più di cento chilometri da questo posto e non ho mai sentito parlare di cose del genere. Davvero crede che non avrei saputo niente o non avrei indagato su questi fenomeni se quello che mi sta dicendo fosse vero? Nessuno avrebbe detto niente all’uomo delle rane?»
Non sapevo cosa dire. Era come se mi avessero dato del bugiardo o dell’idiota. E se pensava che ero un bugiardo e diceva alla Williamson e a Carneiro che secondo lui mi ero inventato tutto, la mia collaborazione con il museo - preziosissima, non per motivi economici ma come convalida del mio lavoro — sarebbe stata compromessa. Quel genere di istituzioni non ama le controversie. Mi guardai intorno in cerca di ispirazione. Non volevo andarmene dall’ufficio di Myers come un cane con la coda tra le gambe.
L’ispirazione che cercavo era appesa alla parete. Un’enorme foto incorniciata, grande circa un metro per un metro e mezzo, ritraeva un uomo con un cappello da esploratore vicino a un grosso anaconda: il grande cacciatore bianco.
«Uhm, è lei con il serpente?» domandai.
«Eh sì» rispose. «È un anaconda, forse il più grande che esista».
Stimai che fosse lungo circa quattro metri e mezzo. Tirai fuori la mia rivista New Look e la aprii alla pagina della foto che mi ritraeva con un anaconda più grande di quello. «Più lungo di questo, pensa? Perché questo anaconda qui veniva dall’accampamento vicino a quello in cui ho preso il kambo» gli dissi.
«Be’» balbettò, «lei il kambo non ce l’ha. E non ha neanche le foto. Tutto quello che vedo sono due piccole bruciature sul braccio».
La tensione comunque calò subito. Mi offrii di produrre del materiale, se fossi riuscito a trovarne in un successivo viaggio. Lo studioso approvò e ci salutammo in modo cordiale.
Questo testo è estratto dal libro "Kambo".
Data di Pubblicazione: 30 settembre 2017