Come ritrovare l'armonia nella nostra vita attraverso l'azione e l'equilibrio interiore. Scopri i segreti del Karma, la legge della causa e dell'effetto che regola la vita nell'universo.
Cosa significa Karma?
Il Karma, conosciuto anche come karman, è un termine sanscrito. La parola è traducibile grossolanamente come agire, azione, e indica presso le filosofie orientali la legge di causa-effetto, simile alla legge di attrazione introdotta dalla fisica quantistica.
Originatosi nell'Induismo, per poi confluire nel Buddhismo, il Karma regola la vita di tutto ciò che è manifesto nell'universo, vincolando le anime al Samsara, il ciclo di morti e rinascite, ovvero la reincarnazione.
Che cos'è il Karma?
La legge del karma, principio ben noto e tenuto in alta considerazione nella civiltà orientale, ma spesso frainteso da quella occidentale, è una legge naturale in grado di spiegare le infinite differenze fra la personalità e il destino degli esseri umani.
Partiamo da una considerazione di carattere fisico. Secondo la terza legge di Newton, ogni evento fenomenico ha una sua causa e produce degli effetti. Le dottrine spirituali ed esoteriche, e in modo particolare i Veda, allargano questa concezione anche alla vita morale e spirituale dell'uomo.
La parola sanscrita karman deriva dalla radice verbale kri, il “fare”, e indica perciò le “azioni” e i loro effetti in questa o in altre vite. Nell’induismo e poi nel buddismo, dunque, il karma è la legge di causa-effetto che regola la vita di tutto ciò che è manifesto nell’universo, vincolando le anime al Samsara (dal sanscrito “pellegrinaggio”, “percorso”), ovvero il ciclo di morte e rinascita viene spesso raffigurato visivamente come una ruota.
Samsara è il viaggio che ogni anima (atman) deve affrontare per poter giungere alla liberazione definitiva (moksha o muktt) e ricongiungersi al principio assoluto, il Sé superiore, origine e fine di tutte le forme di vita.
Molte religioni possiedono ed elaborano in maniera differente i concetti di reincarnazione, di liberazione dal samsara e le modalità con cui queste si realizzano, ma possiamo osservare come i principi fondanti siano sostanzialmente i medesimi. In sintesi il concetto fondamentale è che esista una forza vitale (detta anche “essenza” o eidolon) in grado di sopravvivere alla morte del corpo fisico per reincarnarsi nuovamente.
Per purificarsi deve passare di corpo in corpo in modo ciclico fino a quando non raggiunge la perfezione, vale a dire la relazione di puro amore per Dio, che rende coscienti della propria vera natura divina. Fino a che non saremo abbastanza puri e desiderosi di ricongiungerci a Dio, torneremo quindi più e più volte a prendere nuovi corpi materiali al fine di eliminare dalla nostra coscienza tutti i desideri di natura materiale. Ogni accadimento della nostra vita umana, anche quando saremmo tentati di attribuirlo al caso, in realtà è l’effetto di un’azione compiuta in precedenza, o si convertirà a sua volta in causa che produrrà effetti in futuro, a seconda di come è stato affrontato nel presente.
La prima fonte nella quale troviamo formulata la legge del karma sono i Veda, la cui collocazione storica risale al 1500 a.C. Nelle Upanishad - ovvero la parte conclusiva dei Veda - sarà poi così enunciata: “L’anima individuale si determina secondo particolari condizioni, nelle forme che sono conseguenza del suo precedente agire, secondo il proprio grado”.
Nei Veda il termine karman indicava l’azione per eccellenza, il sacrificio rituale, l’azione sacra intesa come facoltà di conoscenza, quindi l’azione più nobile che si potesse compiere. Successivamente, induismo e buddismo, dal momento che la ritualità si era lentamente svuotata del suo contenuto sacro, intesero col termine karman l’azione morale, l’azione buona o cattiva che, in quanto attende una retribuzione, rientra nella legge di causa ed effetto, che è appunto la legge del karma.
Il karma inteso come “debito” compare quindi nelle Upanishad e solo qui assume una connotazione etica. Dal VI secolo a.C. la riflessione degli asceti indiani si indirizzò sempre più verso questa dottrina fino a farne uno dei dogmi più importanti dell’induismo. L’uomo indiano dunque reinterpretò la teoria del karma per un bisogno di liberazione che era inattingibile dalle liturgie, dai riti e dalle norme sacrificali della religione ufficiale di origine vedica. Reincarnazione e Sé superiore, karman e atman, da allora divennero i pilastri della nuova corrente spirituale del pensiero indiano post - Upanishad.
Esistono quattro pilastri, su cui poggia il pensiero della civiltà indiana, che sono:
- L’immensa ruota del karma;
- Maya, il mondo delle illusioni, dominato dalla sofferenza;
- Lo yoga, disciplina volta a superare maya;
- Il moksha, o samadhi, che è la liberazione dell'atman (il Sé) dalla ruota delle incarnazioni, quindi l’emancipazione dalla legge del karma.
Il primo passo per riuscire a orientare la nostra esistenza in una direzione positiva e costruttiva è tentare d’interpretare correttamente la legge del karma e di comprendere come essa sia fondamentalmente una legge di compensazione e mai di vendetta cieca e gratuita.
La legge di causa ed effetto, infatti, conosciuta nella letteratura vedica come “legge del karma” e simboleggiata nella Bibbia dalla frase “ciò che semini raccoglierai”, viene spesso confusa con una specie di punizione. Al contrario, essa possiede una valenza estremamente positiva: il karma propriamente compreso ci consente d’imparare dai nostri errori e di riparare colpe commesse nelle esistenze precedenti. Spesso l’apprendimento procede in maniera sottile: anche se non ricordiamo gli errori commessi nelle vite precedenti, siamo guidati naturalmente verso il progresso, o il regresso, a seconda dei desideri e delle attività del passato.
Il fatto che non si possano ricordare le azioni di un tempo non dimostra affatto che non esistano. Gli scettici sostengono che la reincarnazione è la speranza di chi non riesce ad accettare e a rassegnarsi alla morte. In realtà il vero obiettivo di chi crede nella dottrina della reincarnazione non è semplicemente il gusto di prolungare la permanenza su questa terra, bensì il tentativo di perfezionare la propria vita in vista di un traguardo molto più elevato del mondo materiale: l’unione con lo Spirito universale.
Il karma e la reincarnazione
L’idea di karma e quella di reincarnazione sono inscindibili: secondo la concezione orientale dell’evoluzione, l’uomo continua a reincarnarsi sulla terra fino a quando non si è purificato, ovvero ha estinto il debito karmico accumulato nel corso delle vite precedenti.
Oltre all'induismo, il buddismo, l’esoterismo cristiano e molte altre scuole di pensiero c’insegnano che tutte le azioni di questa vita determinano il destino delle vite future, come quelle delle vite passate hanno determinato il presente. Una catena che unisce tutte le esistenze terrene e che ci offre un concetto di vita non più limitato alla singola esistenza fisica, bensì esteso alla vita dell’anima (atman). Nella Bbagavad Gita, il “canto del Beato”, comunemente ritenuta il “Vangelo dell’induismo”, leggiamo:
“Come un uomo getta gli abiti logori per indossarne di nuovi, così l’anima incarnata abbandona i vecchi corpi e ne riveste di nuovi” (II, 22). La legge del karma è ciò che comunemente chiamiamo “destino”, da non confondersi con il “caso”, per cui la singola vita nella totalità delle sue azioni diventa la causa determinante degli avvenimenti della prossima incarnazione e così via. Steiner definisce appunto il karma: “l’attività divenuta destino”.
Storicamente l’idea della reincarnazione è davvero antichissima: si può fare risalire alla protostoria. Il primo documento scritto che attesta il concetto di reincarnazione lo si trova infatti in una pagina della Brhad-ara~nyaka-upanishad (III, 2, 13), una delle più antiche Upanisbad (IX-VI secolo a.C.). Si trattava di una dottrina segreta, custodita dalla casta sacerdotale brahmanica, secondo cui “La personalità futura dell’essere umano viene determinata dal tipo di vita morale che si è vissuta nella vita precedente, da come ci si è attenuti al dharma, ovvero al codice d’onore della casta d’appartenenza”.
Una tappa successiva nella riflessione indiana riguardante il karma è rappresentata dal Codice di Manu, la cui redazione risale all’epoca post-cristiana (I-II secolo d.C.), ma i cui contenuti sono molto più antichi. Il Codice di Manu, in effetti, è un trattato giuridico leggendariamente attribuito a Manu, il capostipite della razza umana. Il XII libro di questo codice esemplifica il funzionamento della legge del karma attraverso una dettagliata casistica dei “frutti karmici”.
Per esempio, afferma che, chi si sia reso colpevole dell’uccisione di un brahmano, è condannato a numerose trasmigrazioni animali. Successivamente al Codice di Manu, altri testi e altre scuole studiarono la teoria del karma: tra queste la grande scuola idealistica del Vedanta (X secolo d.C.). In essa Shankara, grande filosofo indù, e la scuola scivaita tantrica dello Shaiva-siddhanta (XIII secolo d.C.) stabiliscono, tra l’altro, una ricca casistica delle retribuzioni karmiche e delle rinascite. Dal momento che ogni azione porta il suo frutto, l’unico modo di superare il samsara, il ciclo continuo di vita-morte-rinascita, secondo il Vedanta, è rinunciare a creare un nuovo karma, e quindi arrestare pensieri, passioni, appetiti e impulsi terreni che c’inducono a desiderare.
Questa capacità di dominare la sfera istintuale e passionale conduce nel cuore dello yoga, una filosofia di vita secondo la quale il “liberato” è colui che si è svincolato non solo dal karma accumulato in passato, ma anche dal karma latente, quello cioè che non ha ancora dato i suoi frutti nel presente. Il liberato in vita (jivanmukta) è dunque colui che ha superato il karma e che si comporta alla stregua della ruota del vasaio, che continua a girare senza che nessuno la giri, per semplice inerzia, e che vivrà il resto della sua esistenza terrena senza produrre nuovo karma. Le anime più giovani (jiva), secondo la dottrina dei Veda, alle loro prime incarnazioni dovranno partire da stati di coscienza inferiori, completamente dominati dagli istinti. Le jiva accumulano nuove esperienze nel corso di ogni vita terrena, approdando gradualmente a stati di coscienza superiori, fino a raggiungere la completa purificazione (moksha).
Termina così la vita individuale di un’anima che si è evoluta, reincarnandosi in centinaia di corpi, fino a realizzare la sua essenza, la sua vera natura divina (jivatman). E' pronta ormai a ricongiungersi con lo Spirito superiore di cui è parte e dalla quale ha avuto origine. Secondo i Veda, il tipo di relazione che lega la forza vitale al corpo è la stessa che lega il corpo, per esempio, ai vestiti che indossa, o alla casa che abita: quando iniziano a “starci stretti”, è giunta l’ora di cambiarli. Per quanto riguarda il rapporto tra buddismo e reincarnazione, ricordiamo che il buddismo è una religione filosofica, quindi usa delle categorie filosofiche, evoca il pensiero umano perché l’uomo si liberi, crede nel karma, ma gli conferisce una particolare coloritura.
Il buddismo antico o Hinayana, l’originale messaggio di Budda, concepiva il karma come un fardello di cui liberarsi, come un oneroso legame da troncare: ideale questo raggiunto dagli arhat (i santi secondo la dottrina Hinayana) con il conseguimento della totale purezza del pensare e dai Budda solitari con l’illuminazione raggiunta grazie alle pratiche ascetiche.
Sappiamo invece che il buddismo del Grande Veicolo o Mahayana ha affrontato con un diverso approccio il carico karmico dell’esistenza umana: ai pensatori mahayanici l’arhat pareva intento esclusivamente alla personale santificazione mentre il Bodhisattva è colui che ha come essenza (sattva) l’Illuminazione (bodhi) e che decide volontariamente di reincarnarsi, di caricarsi del peso karmico altrui e di aiutare in tal modo gli altri individui nel loro processo di riavvicinamento allo Spirito, riservando per sé il fardello di reincarnarsi e di affrontare i più difficili e dolorosi destini.
Tutte le tradizioni religiose antiche hanno accettato, in maniera e tempi diversi, la dottrina della reincarnazione. Gli antichi Egizi, i Greci, i druidi e gli Indiani d’America l'accettavano come un fatto naturale del ciclo vitale. L’idea, accolta anche da Ebrei ed Esseni, era diffusa ai tempi di Gesù Cristo e ha continuato ad essere popolare tra gli Ebrei europei fino alla fine dell’epoca medievale. Tra gli Ebrei Cassidici e mistici, presso i quali è conosciuta come gilgul, e il suo concetto viene approfondito nella Qabbalah.
Il concetto di reincarnazione era presente anche nel cristianesimo delle origini, come si evince dallo studio delle opere dei padri della Chiesa. Nel III secolo d.C., Origene, considerato secondo solo a sant’Agostino per l’influenza dottrinale esercitata agli esordi della Chiesa, scriveva così: “A causa di una certa inclinazione verso il male di alcune anime, esse perdono le ali e prendono corpo, prima sotto forma di uomini; quindi a causa dell’associazione con la passione irrazionale, dopo il periodo assegnato con la forma umana, esse si trasformano in bestie, forma dalla quale passano poi alla forma di piante. Restano in queste diverse forme di corpi fino a quando non saranno degne di essere riportate alla loro posizione spirituale”.
Con il passare del tempo, la teologia cristiana modificò la sua posizione sul concetto di reincarnazione che divenne presto (il Concilio di Costantinopoli, 553 d.C.) sinonimo di eresia. Non sono state solo le religioni, la filosofia e la psicologia a occuparsi di questo tema affascinante e complesso: oggi esistono diversi studi condotti in maniera scientifica che suggeriscono come la reincarnazione sia qualcosa di più che una semplice speranza.
La legge del Karma
Per una migliore comprensione della legge del karma, proponiamo la seguente classificazione:
Karma-duro: è il karma non negoziabile, accumulato nelle vite precedenti a causa delle cattive azioni commesse. Andrà pagato con dolori e sofferenze fisiche e spirituali (per esempio: malattie gravi come tumori, epilessia, ecc.). Corrisponde a quello che gli indù chiamano Samchita karma.
Karma familiare: a ogni essere umano corrispondono un padre, una madre, dei fratelli e, in alcuni casi, un coniuge e dei figli. La legge del karma collega tutte queste persone in misura più o meno positiva a seconda del debito karmico accumulatosi nella vita precedente.
Karma collettivo: diverse persone che hanno condiviso una stessa esperienza (per esempio: una calamità, un'inondazione, delle epidemie, ecc.) hanno Karma individuali simili e risentono degli effetti delle azioni altrui.
Karma nazionale: una nazione intera può condividere un karma (per esempio: un terremoto, una guerra civile, ecc.).
Karma mondiale: quando l'umanità intera, a causa delle sue azioni malvagie, riceve un effetto negativo karmico (per esempio, le guerre mondiali).
Karmasaya: si forma ogni qual volta un uomo e una donna hanno una relazione sessuale. Piuttosto facile notare come a molte persone cambia la vita appena si sposano.
I quattro principi fondamentali del karma:
- L'energia sopravvive alla morte del corpo.
- Ogni azione, pensiero e omissione è sia causa sia effetto.
- Tutte le azioni, i mancati adempimenti e i pensieri prodotti da un individuo nel corso della vita attuale, producono karma futuro e compensano, attenuano o incrementano gli effetti del karma passato.
- Ogni reincarnazione costituisce una nuova possibilità d'evoluzione. Essa reca in sé i germi d'impressioni (va-sarta) e inclinazioni derivanti dalle vicende di questa vita e delle esistenze passate. L'insieme di questi germi costituisce il samskara (da non confondere con samsara), la mappa delle predisposizioni karmiche. I samskara sono vere e proprie cicatrici inferte sul karma da buoni o cattivi comportamenti. Sono i ricordi indelebili (impressi nel subconscio) che inducono la mente conscia all'azione. Sono questi attivatori subliminali a determinare la nascita, le esperienze e la morte degli individui. Ogni persona dispone sia di samskara positivi sia negativi. Quelli negativi spingono la mente cosciente a ricercare l'esperienza al di fuori di se stessa, mentre i samskara positivi bloccano questa ricerca e impediscono alla mente cosciente di legarsi agli stimoli esterni e ai sensi. La conseguente sospensione dei samskara conduce alla vera liberazione.
Tipi di karma
In India si distinguono tre tipi fondamentali di karma:
SAMCHITA KARMA
Detto anche “karma dormiente, ammucchiato, raccolto, duro, denso”. Sanchita indica il deposito dove sono immagazzinate le cause poste nelle vite precedenti. Il sito astrale di tale deposito è sushumna, il canale che attraversa i chakra e scorre lungo la colonna vertebrale. Queste cause dormienti, queste azioni accumulate diverranno attive, ovvero daranno luogo ai loro effetti, solo quando le condizioni saranno mature.
Questo tipo di karma è costituito da “semi karmici” che rappresentano quel karma che è stato immagazzinato in una parte del proprio subconscio (samskara) o nella memoria cellulare e che avrà la sua fruizione quando i “semi” saranno “nutriti” dalle emozioni. Samchita karma, una volta attivato, germoglia, cresce rapidamente e determina le esperienze più dolorose e tristi della vita: quella che sino a quel momento è stata un’esistenza sana, piacevole e produttiva è turbata da una serie di eventi infausti. Il samchita karma colpisce come un lampo, alle volte anche in modo ripetuto, fino a distruggere tutto quello che avevamo costruito.
Questo specifico tipo di karma è stimolato da una mente incontrollata, da un’attività intellettuale tumultuosa: per questo motivo lo yoga insegna a contenere samchita karma attraverso il controllo dei pensieri e delle emozioni, che sono la causa di ciò che succede. Se s’impara a controllare la mente, si impara a controllare il samchita karma. Nello yoga e nel tantra vi sono molti esercizi utili a tenere sotto controllo e ad eliminare questo karma distruttivo, prima che sconvolga irrimediabilmente mente, corpo e vita.
PRARABDHA KARMA
Detto anche “karma di rientro”, è ciò che ha già cominciato a dare frutti, è il karma vissuto nel presente, la somma degli effetti delle azioni passate che divengono il nostro destino attuale. A questo punto l’evoluzione dell’individuo dipende da come lo si affronta. Si tratta di quella specie di karma che matura alla stregua di un piccolo seme germogliato da un serbatoio ricolmo di quei semi che sono tutte le nostre impressioni delle vite passate.
Questo determina le caratteristiche dell’individuo nella sua attuale incarnazione: aspetto fisico, tratti caratteriali, virtù e difetti. Il prarabdha karma è quello che ci fa agire in un certo modo: quando le tendenze si manifestano, abbiamo la facoltà di determinazione, quindi di “scegliere” all’interno di esse.
KRYAMANA KARMA
Detto anche “karma dell’azione potenziale”, è il karma che sto generando in questo momento stesso, le nuove cause che produrranno effetti futuri. Sono queste le azioni dettate dal libero arbitrio, è il karma che prende in mano il destino. Innanzitutto l’uomo deve accettare il suo prarabdha karma.
Abbiamo visto che l’accettazione, in sanscrito aparigraha, è una delle regole fondamentali del cammino yogico. Esistono due modi di accettare il proprio karma: in maniera positiva e attiva, consentendo l’evoluzione dell’individuo, o passiva, che si limita a una rassegnazione statica dinnanzi agli eventi. Le vie indicate dall’India che consentono tale estinzione/purificazione sono le diverse discipline yogiche: tali discipline consentono non solo di affrontare attivamente il prarabdha karma, ossia il destino attuale, ma anche di impedire la maturazione dei semi karmici del san-chita karma, ossia il “destino dormiente”.
Quando si sviluppa la consapevolezza, il distacco, si diventa coscienti delle proprie possibilità (è la condizione realizzata dal perfetto yogi), non si alimentano più le azioni con i propri desideri egoistici, e il karma si trasforma in niska-makarma: il karma, quindi, non produce conseguenze. Mentre il vartamana-karma consiste nel karma positivo di chi agisce probamente nel mondo e raccoglie i frutti del suo retto agire, il niskama-karma è il karma della risoluzione, della liberazione dai vincoli e dai limiti generati dalle azioni.
Il karma yoga
Per collaborare con il processo karmico e trascenderlo, ottenendo la liberazione dal samsara, gli asceti praticano varie strade, di cui la più semplice è forse il karma yoga o niskamakarma, ossia il processo di liberazione dai vincoli e dai limiti generati dalle attività. Esso è strettamente legato al distacco dal frutto delle azioni, piuttosto che alla rinuncia dell’azione stessa.
Il concetto di karma yoga è spesso male interpretato: molti, infatti, lo confondono con il volontariato o con le attività svolte nell’interesse della comunità d’appartenenza, di un ideale o
Il karma yoga si realizza sempre attraverso lo spirito di squadra, mai con la competitività sfrenata.
del proprio maestro spirituale, un servizio questo assai nobile, ma di natura differente, che viene indicato col termine seva.
Ogni persona nella vita quotidiana può realizzare una forma semplificata di karma yoga, cercando di coltivare la consapevolezza interiore e I dimostrando distacco verso il proprio lavoro e i suoi vantaggi, imperturbabilità nei confronti dei traguardi da raggiungere e dei risultati effettivamente conseguiti, siano essi positivi o negativi.
Si tratta, in ogni caso, di un percorso impegnativo che richiede continua consapevolezza e armonia tra pensieri, emozioni, sensazioni e azioni quotidiane, unito ad un approccio quasi religioso al proprio lavoro. Le persone lavorano molto spesso per soddisfare la propria ambizione, per ottenere gratificazioni personali e profitti, per la ricerca del prestigio sociale e per tante altre ragioni.
Con il trascorrere del tempo così il rischio è quello di diventare schiavi del proprio lavoro e degli utili che ne derivano, finendo per viverlo esclusivamente come fonte di benessere o di malessere, a seconda che si abbia successo o meno nel perseguimento di questi obiettivi materiali. Frequentemente capita che alcuni finiscano per annullarsi nel lavoro, facendo scelte sempre più venali, pur di mantenere o accrescere lo standard di vita raggiunto a prezzo di grandi sacrifici.
L’idea del profitto e del benessere economico prende in tal modo il sopravvento su tutto il resto. Alcuni invece si alienano nella corsa verso le proprie ambizioni, il successo e il riconoscimento sociale, fino all’annientamento della propria natura profonda e all’indifferenza verso le esigenze altrui, compresi collaboratori e familiari.
Il rischio è, quindi, di rallentare o di arrestare completamente la propria evoluzione, anche al punto di capovolgere la situazione di (apparente) benessere acquisito e produrre senso d’inadeguatezza e cocenti fallimenti, non solo dal punto di vista etico-spirituale, ma anche da quello professionale e sociale. Il karma yoga è un ottimo strumento di prevenzione per questo approccio sbagliato al lavoro. Non bisognerebbe lavorare per il proprio tornaconto egoistico, bensì per amore di Dio, considerando la propria attività come strumento di adorazione del Signore: in tal modo la mente si riempie di purezza (sattva).
Patanjali, autore del più importante trattato tradizionale sullo yoga (Yoga Sutra), esplicita chiaramente la sua idea di kriya-yoga (o karma-yoga). Si tratta di uno yoga pratico: svolgendo un certo tipo di attività si può raggiungere la purificazione. Le azioni consigliate sono l’austerità, la lettura delle scritture e gli atti compiuti come offerta per il Dio supremo, Ishvara.
Patanjali avverte che l’aspirante saggio deve imparare a trascendere le influenze dei tre guna (sattva, rajas e tamas) e, come nel Bhagavad Gita, Patanjali associa questi guna a specifiche tipologie umane e a diverse modalità di essere e agire. Quando in un individuo predomina l’elemento sattva, il principio della purezza e della bontà, l’agire è equilibrato e disinteressato perché identificato col senso del dovere. Quando è rajas a prevalere, l’azione invece è dettata da passionalità ed emotività: gli individui rajasici si buttano nell’azione, alla ricerca di risultati immediati e rimangono delusi se questi non arrivano.
Quando, infine, è tamas a prevalere, l’individuo è propenso all’apatia e all’avvilimento. Palancali crede che la sofferenza derivi dall’attaccamento degli esseri umani alle conseguenze delle loro azioni, o dal fatto che i loro desideri li allontanino dal raggiungimento di una maggiore consapevolezza.
Patanjali ritiene che il conflitto per il predominio fra i tre guna sia causa della sofferenza umana. Solo il lavoro (karma yoga) e la meditazione (jnana yoga) possono liberare l’uomo dalla sofferenza e condurlo alla liberazione. Lo yogi deve sempre tenere a mente che lo scopo autentico della vita è la liberazione dell’anima è il suo ricongiungimento a Dio.
Questo fine è raggiunto dal saggio, ma resta un miraggio per chi è reso cieco dalle illusioni e dalle falsità di maya.
Il laico che pratica karma yoga, pur vivendo ogni attività lavorativa come un atto sacro, come mezzo d’evoluzione e come rito, non rinuncia al suo guadagno, semplicemente chiede e riceve solo la giusta remunerazione, nulla di più. Non subordina il proprio lavoro alla legge del profitto o alla gratificazione del suo ego: nel programmare le attività lavorative e nell’espletare i suoi compiti, egli è orientato alle persone con le quali collabora o alle quali presta il suo servizio.
D’altro canto, senza dover arrivare all’esempio estremo del monaco o dell’adepto che santificano il proprio lavoro, quest’approccio dovrebbe far parte integrante della deontologia professionale di ognuno, ma soprattutto di chi esercita professioni basate sulla relazione d’aiuto (medici, psicologi, assistenti sociali, insegnanti, ecc.).
Nella Baghavad Gita vediamo Krishna che invita il suo discepolo ad agire in base al dharma, ovvero il suo giusto dovere, non per soddisfare i desideri dell’ego, e senza creare attaccamento all’azione, ma come offerta sacrificale. L’agire secondo il dharma espresso nella Gita, è la connotazione positiva dell’azione che si è persa per molti secoli.
Il karma yoga è lo yoga dell’azione altruistica, devota, scaturita da quella forza dell’Io che il Cristo chiamerà “carità”. È lo yoga della carità. La dottrina del distacco, dell’agire disinteressato, è la soluzione che la Baghavad Gita suggerisce al discepolo dello yoga e che Krishna ripropone in molti versetti nel tema fondamentale della ricerca del retto agire, quello cioè dettato dall’Io.
Il karma yogi agisce senza attaccamento né avversione per l’azione che sta compiendo, senza alcun desiderio per i frutti dell’azione. Tuttavia, questo non significa accettare e subire passivamente qualsiasi evento o costrizione la vita stia imponendo; il karma yogi è colui che possiede la saggezza e le capacità per liberarsi in modo armonico da ogni situazione che, se fosse vissuta in qualsiasi altro modo, rischierebbe di alterare il proprio equilibrio.
Così, egli non si oppone ai doveri che la vita quotidianamente gli impone, ma li riconosce e accetta con gioia; in questo modo non soltanto scioglie i legami karmici e reincarnativi che lo legano al mondo fenomenico illusorio, ma rinsalda la propria unione mistica (yoga, appunto) con Dio e la vera essenza del Cosmo; un po’ come la tessera di un immenso mosaico che, accettando il proprio ruolo, trova la sua giusta collocazione, perdendo l’identità di semplice tessera e trasformandosi così nel mosaico stesso.
Così il karma yogi, aderendo con gioia e distacco sia al dharma universale, sia al suo dharma specifico, sebbene sia ancora in parte legato al mondo fenomenico, già sperimenta la liberazione da tutto ciò che è mutevole, effimero, relativo e transitorio. Ogni istante, ogni situazione della sua vita, si trasforma per lui in un atto di meditazione profonda, in un momento di comunione con Dio.
Data di Pubblicazione: 27 settembre 2021