Cos'è l'arte del kung fu e come si pratica

Parole chiave del Kung Fu

Per quanto riguarda i termini cinesi (e orientali in genere) che usiamo nella pratica del Kung fu, molti di essi hanno subito una doppia traduzione: dal cinese in angloamericano e da questo in italiano. Ciò ha inevitabilmente generato una certa confusione.

A questo si può aggiungere il fatto che cerchiamo sempre di comprendere i termini stranieri secondo il nostro modo cartesiano di ragionare: ogni cosa va etichettata, ogni concetto va assegnato a una categoria precisa. A questo proposito la mentalità cinese è diversa: ogni parola con il suo ideogramma rappresenta un’immagine, che assume significati diversi a seconda del contesto. Ogni etichettazione è dunque impossibile.

Infine, la pratica marziale cinese è stata tramandata, in prevalenza, oralmente fino a circa la metà del secolo scorso, semplicemente perché i pochi che sapevano scrivere (letterati, ricchi commercianti e religiosi) spesso non ritenevano il Kung fu degno di interesse. Contrariamente al Giappone feudale, in cui la classe militare ha sempre dominato, in Cina il potere è sempre stato detenuto dall’amministrazione e dai suoi letterati. In Giappone la società era divisa in quattro grandi classi: religiosi, guerrieri, commercianti, artigiani-contadini e «senza classe», detti Bunrakumin ovvero «uomini-marionette», la cui esistenza si ignorava; ciascuna classe era chiusa in se stessa ed era quasi impossibile passare dall’una all’altra. In Cina, invece, i concorsi al mandarinato erano aperti a tutti (ovviamente solo ai maschi), qualunque fosse il loro ceto di origine. Anche un semplice contadino con il gusto per lo studio dei testi classici, un po’ di fortuna e molta volontà poteva superare gli esami imperiali e diventare mandarino, per poi eventualmente salire la scala gerarchica fino a giungere al rango di ministro. Per questo motivo, la carriera e la classe militare non hanno mai goduto di molta considerazione nella società cinese, essendo subordinata alla classe amministrativa.

Dicevamo che l’insegnamento della pratica è sempre stato prevalentemente orale. Se si considera che la lingua parlata cinese è composta da qualche centinaio di monosillabi, e che ogni sillaba può avere molti significati, a seconda dell’accento che le si dà (il cinese usa cinque accenti, e fino a nove accenti il cantonese), è facile capire che lo stesso termine può essere inteso in vari modi, secondo il livello di comprensione del praticante e dell’insegnante. Un semplice esempio: la parola yi può significare «uno», «unità» e «inizio», ma anche «intenzione», «pensiero», «volontà», o ancora «mutamento», come in YiJing/IKing. Yi è un termine molto usato, soprattutto nella pratica degli stili interni, per esempio quando si dice: «L’intenzione dirige l’energia». Ora, finché l’insegnamento è orale, si possono capire i vari sensi di una parola o frase. Nel momento in cui l’insegnamento viene scritto, l’autore deve scegliere un ideogramma per rappresentare la parola che vuole esprimere, e questo è già una limitazione, a meno che non si conosca bene la lingua e l’etimologia cinese. Se poi questo ideogramma viene tradotto in una lingua occidentale, rimane ben poco del termine originale.

Significato della parola Kung Fu

Il significato di Kung fu. Wushu e Wudao

Il termine è formato da kung che indica un’abilità raggiunta in un campo particolare, un’azione meritoria, e fu, che rappresenta un uomo adulto, un lavoratore, un servo. Kung fu significa, dunque, «abilità raggiunta da un uomo adulto».

Si dice di chiunque abbia raggiunto una certa abilità in un determinato campo, che possiede il Kung fu di questo campo: un grande musicista ha il Kung fu della musica, un cuoco può possedere il Kung fu della cucina, un bravo praticante ha il suo Kung fu... In questo caso ci si aggiunge il nome della specialità.

Le «virtù» marziali

La prima virtù della moralità marziale è l’umiltà, cioè la capacità di controllare il proprio orgoglio. Confucio stesso diceva che di tre individui che passano vicino, sicuramente uno di loro avrebbe potuto essere suo maestro. Umiltà significa saper mantenere un atteggiamento di disponibilità costante verso gli altri, perché in ogni momento si può imparare, ed è quindi saggio restare sempre in una condizione di apertura al dialogo. Chi sa non ha bisogno di mettere in mostra il proprio sapere o di vantarsene come un pavone, mentre chi sa poco sente il bisogno (per insicurezza) di darsi grandi arie. Nella tradizione cinese a questo alludono due proverbi: «Più la canna di bambù cresce alta, più si piega», e «Una goccia d’acqua in un secchio vuoto provoca un grande rumore, una goccia in un secchio pieno non fa rumore».

La seconda virtù è il rispetto, dal quale si può desumere il rapporto che una persona ha con se stessa. Chi non ha rispetto degli altri non ne ha neppure per se stesso, non riesce a stimare correttamente la propria persona e, quindi, difficilmente riuscirà a stabilire dei rapporti equilibrati con gli altri. Il rispetto si esercita non solo verso le persone alle quali dobbiamo qualcosa (i genitori che ci hanno dato la vita, gli insegnanti che ci hanno dato un certo tipo di conoscenza, gli amici che ci onorano della loro disponibilità), ma, come si è detto, anche verso se stessi, perché chi non rispetta se stesso - anche nelle proprie debolezze - difficilmente rispetterà gli altri quando manifesteranno le loro.

La terza virtù è la rettitudine. Il comportarsi in modo giusto, che potremmo definire anche come coerenza con i propri principi, è uno stile di vita. La rettitudine richiede che una persona abbia le idee chiare su ciò che è giusto e ciò che non lo è, ed è basata comunque anche sull’umiltà e sul rispetto degli altri. Per spiegarci semplicemente, quando una persona «retta» giudica che una cosa deve essere fatta, la fa, e quando vede una cosa che non deve essere fatta, evita di farsi coinvolgere. In questo modo, nella persona che si fa guidare dalla razionalità e dalla chiarezza di mente, piuttosto che dalle emozioni, non c’è posto per il senso di colpa o il rimorso. Inoltre, chi non si fa influenzare dagli avvenimenti esterni e sa evitare le influenze negative degli altri, si guadagnerà la stima e il rispetto di tutti.

La quarta virtù è la fiducia, che bisogna ispirare agli altri - per esempio, mantenendo la parola data, quando si è promesso qualcosa - ma che si deve avere anche in se stessi; ciò che è alla base dell’autostima. Quando i tempi si fanno difficili, se una personalità non è ben consolidata e non ha piena fiducia in sé, nel momento cruciale gli mancherà la terra sotto i piedi. La fiducia in se stessi va acquisita e va dimostrata agli altri, perché solo in questo modo ci si guadagna il loro rispetto e la loro fiducia. L’amicizia nasce dalla fiducia reciproca ed è un rapporto che si costruisce lentamente, ma può finire in un attimo. Per questo sono necessari rispetto e fiducia da entrambe le parti.

La quinta virtù è la lealtà. La fiducia nasce dalla lealtà reciproca, sia con gli amici sia con i parenti. Nelle arti marziali la lealtà (che potremmo chiamare anche onestà) è ancora più importante, perché su questa base nasce il rapporto tra l’insegnante e l’allievo. Secondo i classici, l’obbedienza verso il maestro è il fondamento irrinunciabile per l’apprendimento. Ci si deve spogliare di ogni falsa dignità e accettare sia mentalmente sia spiritualmente di dargli completa fiducia. Questo - sia detto per inciso - non significa abbandonarsi al maestro con atteggiamento remissivo e accettare passivamente qualunque cosa da lui provenga; significa piuttosto essere critici, avere le proprie idee, ma accettare l’insegnante e i suoi principi, seguirli onestamente e lealmente, fino al momento in cui ci saranno ragioni abbastanza valide per andarsene o per restare. Una persona leale non crede a tutti, ma è una persona a cui tutti credono. Lealtà significa non portare maschere e non mentire a sé e agli altri.

Se queste prime cinque virtù riguardano l’agire, esistono altre cinque virtù all’interno del Wude che riguardano il pensare, cioè l’interiorità e la spiritualità del praticante di arti marziali.

La prima fra queste virtù è la volontà. «Se l’uomo è una barca, la volontà è il suo remo», dice il saggio. Ma la volontà dev’essere seguita dalla pazienza, che insegna a ridimensionare i problemi e a trovare la forza in se stessi per fare piccoli passi ogni giorno. Pian piano subentrano la perseveranza e la resistenza, che insegnano ad andare avanti quando ormai si è logori e sfiniti. Se anche questa qualità è stata sviluppata, a un certo punto i risultati saranno visibili e allora la confidenza in noi stessi consentirà la nascita del coraggio, l’ultima delle cinque virtù «interne» del Wude. «Coraggio» significa a questo punto che la volontà non è più «debole», fatta solo per spingere avanti il carro della nostra esistenza, ma è diventata «forte», al punto da trainare il proprio carro e da guidare quelli degli altri.

In sintesi, Wude e Kung fu, ovvero etica e arte marziale, vanno di pari passo. Man mano che una persona cresce nelle arti marziali, allo stesso modo cresce la sua capacità di analizzare, capire e comportarsi in modo nuovo nella vita, sia nelle avversità sia nei momenti sereni.

«Chi conquista gli uomini è forte, chi conquista se stesso è potente. Chi conosce gli altri è intelligente, ma chi conosce se stesso è saggio.»

Storia del kung Fu

Come dicono i nostri amici cinesi, le origini del Kung fu Wushu risalgono alla notte dei tempi. Poiché l’insegnamento è sempre stato prevalentemente orale, le tracce scritte, scolpite o stampate che ci sono pervenute dopo millenni o secoli sono pochissime. Inoltre, i praticanti hanno spesso preferito tenere le loro tecniche «segrete» o per lo meno confidarle a pochi, onde mantenere un certo vantaggio su un eventuale avversario. In questo contesto, bisogna ricordare che fino a pochi anni fa nessun praticante di Wushu avrebbe mai pensato di combattere per divertimento, per sport. Il «combattimento libero», al quale il Karate sportivo ci ha abituato è un’usanza recente, copiata a sua volta dal Kendo (scherma giapponese con corazza e sciabola di bambù) e dal Judo (Randori). Nelle scuole tradizionali cinesi e giapponesi il combattimento era una cosa seria, dove vita e morte erano in gioco. Molte tecniche erano considerate letali, e nessuno si sarebbe neanche azzardato a far finta di combattere, per il pericolo che ciò comportava.

Infine, molte delle numerose rivolte popolari della storia cinese e molte società segrete ebbero origine nel mondo marziale. Siccome gli storici ufficiali erano dei letterati, è comprensibile che abbiano scritto poco del mondo marziale o che lo abbiano giudicato negativamente. Comunque, si sono verificate molte scoperte archeologiche in Cina negli ultimi decenni e sulla base dei reperti possiamo farci un’idea della pratica e della sua evoluzione nel tempo.

Stile e Armi

Ai suoi albori, il Rung fu non veniva diviso in sdii e scuole, semplicemente perché questi non esistevano. Come si vedrà ogni combattente si creava un proprio bagaglio tecnico-tattico nel corso della propria carriera. Solo in seguito, quando questa conoscenza fu ordinata in modo da poter essere tramandata organicamente, e quando le scuole si moltiplicarono, si iniziò a suddividerle secondo il criterio Yin/Yang. I Cinesi cercarono di determinare le caratteristiche di ogni stile o gruppo di stili, considerandone le similitudini e le differenze, ma nella plurimillenaria storia del Celeste Impero questa classificazione è piuttosto recente.

Negli ultimi decenni, data la crescente popolarità del Rung fu in Occidente, i testi specifici hanno accentuato ulteriormente questa tendenza, a noi così congeniale. I primi autori occidentali (Smith, Draeger, eccetera) tentarono una classificazione, ma in seguito la situazione del Rung fu si rivelò così complessa che esiste tuttora una certa confusione. Forse, come insinuava Confucio, è soprattutto una questione di definizione.

Una prima distinzione, la più antica, si fa tra pugilato e lotta, ovvero Quan (letteralmente «pugno) e Shuai. Secondo le convenzioni cinesi, e si potrebbe dire «universali», nel pugilato si combatte per distruggere il nemico, mentre nella lotta si cerca di sottometterlo senza ferirlo o ucciderlo. Nel primo si usano le armi naturali per colpire l’avversario nell’intento di spedirlo nel mondo dell’incoscienza, o armi bianche per ucciderlo, mentre nella seconda si cerca di proiettare l’avversario, di farlo cadere o di immobilizzarlo. E chiaro che nella lotta la disfatta è decisa da una convenzione ben precisa: perde chi tocca terra per primo con una parte precisa del corpo, generalmente la schiena, il braccio o una qualsiasi parte del corpo che non sia il piede, come nello Shuaijiao. Ovviamente, pugilato e lotta si possono mescolare, sia nella tecnica sia nell’intento.

Una seconda distinzione si fa genericamente tra «lungo» e «corto». Tale distinzione vale solo per il pugilato e si dovrebbe fare tra «lungo», «medio» e «corto». La «distanza lunga» esiste quando due avversari possono toccarsi con i piedi, ma non con le mani; nella «distanza media» essi possono colpirsi con i piedi e gli stinchi, con le mani e gli avambracci; nella «distanza corta» si possono usare tutte le armi anatomiche: mani, avambracci, gomiti, spalle, testa, piedi, stinchi, ginocchia e anche, e si applicano leve e immobilizzazioni. La lotta vera e propria, cioè quella che usa le proiezioni, non può che aver luogo nella distanza corta. Normalmente, ogni scuola di Kung fu si specializza in una o due distanze. Per questo motivo, la maggior parte dei praticanti cinesi studia vari sistemi in modo da avere una preparazione globale. Inoltre, possono esistere varie tendenze all’interno di uno stesso stile. Un esempio lampante ci è dato dal Taijiquan: esiste in stili lunghi che prediligono l’aspetto ginnico, in stili corti, più realistici, e in stili medi. Infine, ogni praticante segue un’evoluzione dal lungo al corto. Non a caso ai bambini si insegna un Kung fu semplificato con movimenti lunghi. Solo quando l’allievo ha una certa padronanza dei propri movimenti può studiare tecniche e forme più complesse.

Per quanto riguarda la pratica delle armi, dobbiamo distinguere tra armi corte (coltello, spada, sciabola, ecc.), armi lunghe (lancia, alabarda, ecc.), armi contundenti e non, armi rigide e armi molli o snodate (frusta, spada molle, catena, bastone a due, tre o quattro pezzi, ecc.).

Una terza distinzione si fa tra stili del Sud e stili del Nord, secondo il famoso adagio: «Nan Quan, Bei Tui», «Pugni nel Sud, calci nel Nord». È vero che gli stili di origine meridionale prediligono le tecniche corte di braccia, e che gli stili di origine settentrionale prediligono calci e le tecniche lunghe di braccia, o almeno era vero fino a circa due secoli fa, poiché in seguito gli stili si sono spostati all’interno dell’impero e oggi la maggior parte degli stili viene praticata un po’ in tutto il paese.

Un’ultima importante distinzione viene fatta tra «esterno» e «interno». Essa risale al secolo scorso, quando gli stili cosiddetti «interni» conobbero una grande popolarità e diffusione.

Nel Waijia, o «scuola esterna», il lavoro fisico è generalmente pesante, le tecniche sono numerose e ben definite (a ogni tecnica corrisponde una contro-tecnica e così via), la progressione nel lavoro è la seguente: mantenere le posizioni in modo statico (azione di rafforzamento delle ossa e delle articolazioni), spostarsi da una posizione all’altra (lavoro su muscoli e tendini Jin), spostamenti dinamici (lavoro cardiaco e azione sui liquidi) sostenuti da un uso razionale della respirazione e del soffio Qi, protezione del principio vitale Jing, condensazione dell’intenzione Yi, ricerca della vacuità dello spirito Shen.

Nel Neijia, o «scuola interna», si inizia col controllare la mente e il respiro, le tecniche hanno funzioni molteplici e la progressione nella pratica è invertita: liberare lo spirito Shen, dirigere l’intenzione Yi, mobilitare il principio vitale Jing, dirigere il soffio Qi, far circolare i liquidi Jue, nutrire muscoli e tendini Jin, rigenerare la forma corporea Xing per raggiungere la Lunga Vita Shangshen.

Tutto questo è più semplice di quanto possa sembrare: il praticante inizia quasi sempre da uno stile esterno, che gli dà una solida struttura, e solo dopo anni di pratica egli si avvicina allo stile interno. Anche storicamente l’interno nasce dall’esterno come evoluzione, e forse in parte come reazione. Sta di fatto che una comprensione «marziale» dell’interno non può che basarsi su una minima conoscenza dell’esterno.

Nel Nenijia, come nel Waijia, gli elementi fondamentali sono identici: ossa, muscoli e tendini, circolazione, respirazione, mente/ spirito. Anche lo scopo è il medesimo, ma cambiano la progressione e il modo di lavorare. Questo ci fa capire, o ricordare, che l’Arte è Una. Come diceva Bruce Lee (parafrasando un celebre detto Chan): «Prima di praticare l’Arte pensavo che un pugno fosse soltanto un pugno e un calcio soltanto un calcio. Quando fui più esperto, mi resi conto che un pugno non era soltanto un pugno e un calcio non era soltanto un calcio. Ora ho capito che un pugno non è altro che un pugno e un calcio soltanto un calcio».

Per quanto possa essere utile effettuare distinzioni e classificazioni, bisogna anche saperle superare e rendersi conto che molti stili sono composti dalle medesime tecniche, eseguite in modi e concatenazioni diversi. Chi vuole capire l’essenza dell’Arte deve cercare di individuare le basi, gli elementi costanti e i meccanismi che li uniscono.

Le «forme» nel Kung Fu

Uno degli aspetti più affascinanti della tradizione marziale, che è anche il primo in cui un principiante si imbatte appena varca la soglia di un Guan/Kwon («palestra»), risiede nelle sequenze di movimenti - comunemente dette «forme» o anche «boxe delle ombre» - del corpo e degli arti in combinazione con passi, salti e spostamenti, in cui è insito un contenuto atletico, tecnico e artistico di combattimento contro uno o più avversari.

Il primo impatto del Kung fu con l’Occidente è avvenuto attraverso l’efficacia spettacolare dei primi film, ma la bellezza di queste «danze rituali», che contenevano dimostrazioni di velocità, potenza e determinazione, quasi fossero una forma di «animalità» o di istintiva spontaneità - spesso dimenticata in Occidente -, ha colpito il subconscio di molte persone, alla ricerca di una maggiore fiducia in se stesse e le ha indotte a preferire le discipline orientali a quelle occidentali. Inoltre l’elemento che ha permesso una diffusione capillare del Taijiquan è stato senza alcun dubbio il desiderio di molti di imparare la forma completa dei 108 movimenti - spesso con la segreta convinzione che questo potesse automaticamente e senza troppo sforzo portarli a diventare piccoli killer a mani nude.

Storicamente, chi si dedicava nei secoli passati alle arti della guerra lo faceva per necessità, non certo per soddisfare esigenze estetiche. Nel corso di una vita costellata di combattimenti o di scontri, con armi o a mani nude, ogni combattente affinava un proprio sistema di lotta, che si costruiva sulla base delle proprie capacità istintive, fisiche e psichiche e sulla qualità degli avversari incontrati in battaglia - e qui giova ricordare quanto dice Musashi in apertura del suo Libro dei Cinque anelli.: «Allo scadere dei trent’anni ho riflettuto sulla mia vita passata e ho concluso che le mie vittorie non erano dovute alla piena padronanza dei segreti dell’Arte: forse [...] semplicemente erano dovute al basso livello delle altre scuole di scherma».

Alla formazione del bagaglio tecnico contribuivano in gran parte anche gli insegnamenti tramandati dal padre e dal maestro di arti marziali. Ma a questo punto il combattente per essere sicuro di non dimenticare nulla, si costruiva una specie di «indice» delle proprie tecniche, la «forma» appunto, che era quindi una vera e propria enciclopedia di movimenti. Questi «indici» possono essere paragonati ai moderni data-base dei computer, che mettono logicamente in concatenazione centinaia di diverse possibilità di uso del corpo, al fine di risultare efficaci in combattimento.

Ma se ogni forma racchiude un patrimonio di tecniche, perché allora anche gli stili più essenziali sono composti da almeno due o tre sequenze diverse? Perché ogni forma sviluppa diverse qualità o abilità specifiche. Ci possono essere:

  • forme di base, intermedie, avanzate;
  • forme per sviluppare braccia e torso, un’altra forma per i calci, e un’altra ancora per la lotta a terra;
  • forme per dare il principio di linea centrale, un’altra per ruotare sull’asse mantenendo il controllo, e un’altra ancora per muovere il corpo in condizioni sfavorevoli;
  • forme per sviluppare la resistenza, un’altra forma per la coordinazione del movimento e un’altra per le applicazioni;
  • forme per il potenziamento del respiro, per lo stiramento dei tendini e dei muscoli, un’altra forma per la resistenza delle ossa ai colpi e così via.

Una forma è composta di singole tecniche. La forma ne racchiude l’essenza, i contenuti, ma non le esaurisce, vale a dire che la forma è solo una specie di codice mnemonico per ricordarle tutte, in ordine e velocemente, ma non ci dice molto del contenuto. Anzi, i contenuti restano assolutamente illeggibili, se dietro a chi pratica non c’è una trasmissione orale e diretta da parte del creatore della forma (o almeno di un suo valido rappresentante), e comunque i pericoli legati alla trasmissione di un elemento attraverso culture diverse restano molto alti. Un esempio emblematico: quando un famoso matematico chiese alla platea che lo ascoltava «un mezzo minuto di raccoglimento», tutti mantennero un assoluto silenzio, mentre il matematico, ridacchiando, spiegò che in realtà voleva soltanto un cucchiaino, cioè un «mezzo», uno strumento, «minuto», vale a dire «piccolo», per raccogliere. E se ci sono queste ambiguità nella stessa lingua e nella stessa cultura, è facile immaginare quanto si possa equivocare passando da Oriente a Occidente.

Le forme con le armi hanno la stessa funzionalità di quelle con le tecniche a mani nude, ma hanno il vantaggio di sviluppare un’abilità particolare, migliorando la continuità dei movimenti. In molti casi, le forme più raffinate utilizzano l’arma come mezzo per rinforzare gli arti nelle tecniche a mani nude. Ogni arma ha un suo «spirito», legato alla struttura, al peso, alle caratteristiche fisiche e anche «etiche» dell’arma, come abbiamo visto con i cinque elementi, ed è interessante osservare che le sequenze di movimenti delle armi possono essere molto diverse tra loro, ma l’utilizzo pratico dell’arma è in realtà molto simile, anche negli stili profondamente diversi tra loro.

La forma è quindi un elemento di base per apprendere un’arte marziale. Il secondo passo è quello di «negare» (quasi buddhisticamente) le forme, di spezzare cioè la sequenza continua in una infinita serie di singole tecniche, che vanno analizzate e verificate applicandole con un partner. In questa maniera, provando e riprovando col partner una tecnica a due, molte volte nascono gli automatismi istintivi, quelle reazioni velocissime che funzionano senza che ce ne rendiamo quasi conto. Per crearle occorre ripetere i movimenti in sequenze, dalle più semplici alle più complesse. Poi, dopo molti «concatenamenti» cioè sequenze in coppia più lunghe e più varie, avviene che gli automatismi entrino nella memoria facendo Tuishou, Chisau, Rushou, Kunshou, tutti termini diversi per indicare un lavoro tra due persone in cui si mantiene costante il contatto tra le braccia dei praticanti.

Alla fine, come nella costruzione di un gigantesco puzzle, si arriva al Sanshou, la dispersione delle mani, il cosiddetto «combattimento libero», in cui senza più limiti di contatto o di distacco, di boxe lunga o boxe corta, di lotta in piedi o a terra, si passa a verificare il livello «reale» raggiunto nell’arte del combattere. Ma non va mai dimenticato che per sapere come funziona realmente un’arte marziale - gli ultimi grandi combattenti cinesi lo ricordano senza mezzi termini - bisogna provarla dal vivo. «L’unica maniera in cui una persona può imparare come diventare un buon combattente è di combattere sulla strada, in maniera brutale, senza regole, senza protezioni, a pieno contatto e a tutta velocità. È il primo secondo che decide chi vince e chi perde. Un vero combattimento non dura mai più di cinque secondi. Le forme sono per dimostrazione e per fare spettacolo. Se vuoi imparare a combattere, pratica un movimento migliaia di volte, continuamente, ogni giorno» (LiuWanfu).

L’ultima parola spetta sicuramente, sia per l’autorità del personaggio sia per la chiarezza, a Shek Kin, noto al grande pubblico per essere stato il grande avversario di Bruce Lee nelle scene più importanti di Enter the Dragon: «Ogni forma è come un libro pieno di conoscenza. A scuola un insegnante vi spiega la conoscenza attraverso più libri, che a loro volta contengono un gran numero di informazioni diverse l’una dall’altra, e formano la conoscenza ogni volta in una maniera nuova. Non si impara a memoria l’intero libro? Lo stesso vale nel Kung fu, una forma vi fornisce un diverso insieme di tecniche o di conoscenza.

Nel tempo troverete tecniche che vi si adattano bene, altre meno, e voi prenderete quelle preferite, le verificherete e lavorerete solo su quelle, e si arriverà involontariamente a creare una nuova «forma». In ogni caso le arti marziali in origine non usavano forme per l’allenamento. Praticavano Sanshou, o tecniche separate con il partner».

Nel tempo, dopo la scoperta della polvere da sparo, l’originario valore delle arti marziali si è progressivamente smarrito, riducendo queste arti a mera competizione sportiva, tecniche di difesa personale, metodi per migliorare la salute (come il Qigong, che originariamente era parte integrante dell’educazione del combattente). In questo contesto le forme hanno acquisito un’importanza ancora maggiore, perché hanno permesso di dare una migliore sistematicità all’insegnamento e alle competizioni, insieme con i gradi e le cinture. Oggi l’arte marziale è arrivata a essere per molti sinonimo di «conoscere i movimenti della forma».

I famosi Kata in giapponese, Dao o Quan o ancora Kuen in cinese (Taijiquan, per esempio) nel corso del tempo sono diventati l’unico punto di riferimento per chi pratica le arti marziali nei tempi moderni. Si comincia imparando le «forme» di base, poi si passa a «forme avanzate», più complesse, si arriva a quelle con le armi, infine quelle «segrete», che creano un alone di mistero e di importanza insieme. Alla stilizzazione estetica massima si giunge invece nella pratica del Wushu moderno o delle varie sequenze moderne codificate di Taijiquan. A contro prova dell’evoluzione «estetica» che le arti marziali stanno vivendo, basta pensare ai cosiddetti «codificati», in cui non solo le intere routine, ma persino i singoli movimenti sono stati definiti con assoluta precisione, stabilendo così un metro di giudizio comune, come per esempio nella ginnastica a corpo libero, per semplificare l’attività di carattere agonistico e creare uno standard internazionale. La Cina giustamente si sta avvicinando a grandi passi verso i Giochi Olimpici, ed è quello il metro di riferimento attuale.

Nell’epoca di Internet, in cui neanche un ragazzino può più permettersi di perdere un solo minuto, imparare le forme è diventato così il miglior compromesso possibile per fare del movimento marziale e attendere che nel tempo qualcosa cresca.

Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017

Ti è piaciuto questo articolo? Rimani in contatto con noi!

Procedendo con l'invio dei dati:

Lascia un commento su questo articolo

Caricamento in Corso...