SAGGI E RACCONTI

L'Azienda Quantica - Anteprima del libro di Giovanni Vota

Come creare e gestire olisticamente un’impresa di successo

Modelli organizzativi

"Da quando abbiamo deciso di abolire l’esercito, siamo diventati il paese più sicuro in Centro America. È difficile da comprendere, ma ci siamo liberati dai colpi di Stato e dalle guerre civili perché non avendo esercito risolviamo tutte le questioni per via politica. Abolire l’esercito ci permette di investire i soldi previsti per la difesa, per la salute e per l’educazione."
Laura Chinchilla Miranda Presidentessa della Costarica

Organizzazioni gerarchiche

Il sistema di organizzazione aziendale universalmente noto e operativo è quello gerarchico, di derivazione militare, nel quale vige una linea denominata di comando e controllo: in tale sistema, apparentemente infallibile, chi è posto in cima dà un comando, il quale viene trasmesso a chi sta sotto, e a confermare che quest’ultimo sia stato eseguito c’è una linea di risalita delle informazioni. Tale organizzazione presuppone che, eccetto i soggetti che si trovano al vertice della piramide, gli altri non siano altro che passivi esecutori, che non possono esercitare alcun potere decisionale.

A pensarci bene, un sistema di questo tipo è estremamente costoso, in quanto ammette al suo interno unità non produttive, il cui compito è limitato a impartire ordini e a garantire che questi vengano eseguiti. Nelle aziende questi ruoli sono svolti nella maggior parte dei casi dai manager, anch’essi suddivisi in base a un sistema gerarchico, che va dal top management a chi opera davvero sul campo. In un’organizzazione come questa, c’è azione solo a fronte di una forza esterna.

Il sistema di comando e controllo ha comunque una falla che lo rende estremamente fragile: chi esercita il potere al suo interno può comandare a qualcuno di fare qualcosa, ma non può di certo indicargli come farla. Potrà quindi ordinare l’avvitamento di cento bulloni, magari con standard di qualità misurabili, ma non potrà mai comandare di farlo con gioia e passione, perché tale variabile - il come, appunto - è così intima e personale da essere, fortunatamente, intoccabile.

Organizzazioni a rete: the Practices Model

"Serve il potere solo quando si vuole fare qualcosa di dannoso, altrimenti l’amore è sufficiente per fare il resto. Charlie Chaplin

Good company, good wine, good welcome can make good people."
Shakespeare, Henry vm, Act i Scene IV

La prima domanda che apre questa trattazione è la seguente: «Come è possibile sfidare organizzazioni che dispongono di risorse da dieci a cento volte maggiori della nostra, e con quali strategie è possibile pensare di poterne uscire da vincitori?».

Prima di rispondere a tale quesito, è necessario aprire una breve parentesi su come sia strutturato oggi il mondo del lavoro. In estrema sintesi, potremmo dividerlo in due sistemi, diametralmente opposti:

  1. il sistema di comando e controllo, nel quale qualcuno comanda e qualcuno esegue;
  2. il sistema di servizio, nel quale qualcuno richiede un servizio e qualcuno si attiva al meglio per prestarlo.

A differenza del sistema di comando e controllo, a cui abbiamo accennato in precedenza, nel sistema di servizio l’azione prende forma dalla forza interiore del singolo, dalla gioia con la quale agisce. E per quale ragione - verrebbe da chiedersi a questo punto - qualcuno dovrebbe provare gioia nell’offrire un servizio? E, soprattutto, è possibile provare una gioia reale durante il lavoro? Sì, è possibile, purché tale gioia sia sincera e non indotta.

La felicità di far fronte a una richiesta di servizio risponde infatti a un livello profondo e intimo dell’essere umano, un parametro talmente personale ed esclusivo da rimanere indenne a qualsiasi tentativo di manipolazione: vano e presto svelato sarebbe infatti qualsiasi tentato raggiro. Inoltre, controproducente sarebbe il solo provarci, poiché il fallimento sarebbe garantito, e a questo si aggiungerebbe un ulteriore danno: fallendo il tentativo, fallirebbe infatti il sistema stesso. Basta semplicemente che nel suo immaginario il soggetto si senta potenzialmente minacciato, per far sì che si disintegri l’idea di spazio protetto, che sta alla base di tutto il sistema. Un effetto domino dalle chiare e nefaste conseguenze.

Per ovviare a tale “sciagura”, occorre quindi adottare un approccio gestionale del tutto diverso, che crei la gioia invece di indurla per subdole vie. Se la forza nasce spontaneamente dalla persona stessa, infatti, farla sentire realmente motivata e sinceramente riconosciuta sarà di cruciale importanza. Ma come fare?

Il valore delle nostre esistenze

Prima di interrogarci sulle strategie da mettere in atto, soffermiamoci per un istante a chiederci che valore abbia il lavoro nelle nostre esistenze: oltre a costituire la fonte primaria di reddito, infatti, esso possiede un ruolo centrale nella costruzione della nostra realizzazione personale, della nostra identità sociale e, non ultimo, è l’attività alla quale dedichiamo gran parte della nostra esistenza, la maggior parte del nostro prezioso tempo. È nel lavoro che oggi ognuno di noi ambisce a essere protagonista, riconosciuto nella propria professionalità, apprezzato e stimato nel proprio ruolo.

Se nel sistema olistico di cui parlo in questo libro porre l’individuo e le sue potenzialità al centro della questione parrebbe quasi un’ovvietà, per altri sistemi - come quello gerarchico -l’interesse non ricade affatto sull’individuo, ma si concentra sull’ordine da eseguire. Nel modello che propongo, al contrario, ogni persona che lavora deve non solo SENTIRSI ma ESSERE apprezzata, valorizzata e riconosciuta, e il compito del manager a questo punto sarà garantire che tutto questo avvenga, diventando più un coach che un comandante. Importante: la persona deve ESSERE apprezzata, valorizzata, riconosciuta! In altre parole, deve esistere un profondo, reale sistema di valori nelle persone, non è sufficiente un aspetto formale o superficiale.

Ciascuno deve sentirsi riconosciuto e valorizzato in ambito lavorativo, deve avere l’opportunità di dare il meglio, ed è compito del manager garantirlo. Se è vero che i dipendenti si pongono al servizio dei loro clienti, è ancor più vero che in tale sistema sono i manager che devono porsi a loro volta al servizio - e non al comando - del proprio team. Il loro compito è infatti quello di garantire che ognuno abbia tutto ciò che gli serve per svolgere al meglio la propria mansione.

Se, per esempio, qualcuno dicesse che per svolgere al meglio il proprio lavoro ha la necessità di avere una sedia blu, secondo voi che dovrebbe fare un manager? Ve lo dico io: dovrebbe andare di corsa a comprargliela! E se i dipendenti se ne approfittassero? Come farebbe a capirlo? Semplice: guardando i risultati! Se grazie a quella sedia blu l’azienda raggiungesse gli obiettivi che si è prefissata sarebbe perfetto, no?

Ed ecco che, proprio nell’attimo in cui scrivo, affiorano alla mente ricordi di vita vissuta: innumerevoli sono state infatti le volte in cui, nel corso degli anni, mi sono sentito chiedere: «Ma tu lo sai se oggi i tuoi dipendenti sono al lavoro?». E penso alla mia risposta, sempre la stessa: «No, e non m’importa!». A mio avviso, ciò che conta non è il metodo, ma il risultato: soddisfatto il Cliente, raggiunti gli obiettivi. Se per arrivare a ciò un dipendente sceglie di stare su una barca al mare, o in azienda, o a casa sua, questo fa parte della sua autonomia, di quella energia interna che lo motiva.

Un sistema di servizio è quindi caratterizzato dalla responsabilizzazione dei suoi dipendenti, libertà di azione, strumenti di lavoro personalizzati, ambiente di lavoro costruttivo, stipendio o ricompensa in base ai risultati raggiunti. Affermazioni libertarie come queste riescono da sole a mettere in crisi strutture millenarie, e sono in grado di creare un vero e proprio corto circuito nel sistema di comando e controllo!

Se il dipendente proprio quel giorno è in azienda, questa deve essere il miglior luogo possibile, sia da un punto di vista operativo (strumenti) sia emotivo-relazionale (comfort, relazioni con i colleghi). Il mio ragionamento, un po’ subdolo per certi aspetti, era il seguente: «Le persone devono stare meglio in azienda che a casa loro. A casa hanno il più delle volte motivi di incomprensione, tensione, stress. Al contrario, non appena mettono piede in ufficio devono sentirsi immediatamente bene: accolti in un sereno ambiente lavorativo sia dai colleghi sia dai clienti, penseranno di certo che quello è un luogo nel quale lavorare è un piacere!».

Già, ma come si ottiene un ambiente lavorativo di questo tipo? Sicuramente lavorando costantemente per sciogliere, risolvere e prevenire qualsiasi conflitto interpersonale. Questo compito è di norma affidato al manager. Per diversi anni ho svolto personalmente tale ruolo. Alla luce di anni e anni d’esperienza, posso affermare che nulla crea più conflitto delle ingiustizie e delle disparità di trattamento. Tutte le volte in cui ho assistito al sorgere di incomprensioni, ho sempre ritenuto prioritario far sì che si risolvessero immediatamente. Ogni attrito e ogni conflitto, infatti, rallentano, bloccano, ostacolano il flusso del lavoro e, di conseguenza, aumentano in modo esponenziale i costi a carico dell’azienda.

Come monitorare quindi l’andamento delle relazioni tra colleghi per prevenirne gli eventuali danni? Per farlo, avevo ideato un test molto semplice e rapido. Mi chiedevo: nel caso in cui, per esempio, una persona che si trova a Padova avesse ricevuto la telefonata di un collega di Roma, cosa avrebbe pensato?

  1. «Ma chi è questo qui? Io non lo conosco!»
  2. «Che palle! Questo mi disturba!»
  3. «Ma che piacere sentirlo! Chissà come sta!»

Se l’atteggiamento reale, sentito, fosse stato il terzo, allora di certo gli affari in azienda sarebbero andati a gonfie vele; se a prevalere fossero state invece le restanti possibilità, ciò avrebbe costituito un chiaro segnale d’allarme nell’andamento dell’azienda. Una volta compreso come verificare lo standard di qualità dell’ambiente lavorativo, quindi create le condizioni favorevoli affinché tutto andasse per il meglio, potevo finalmente pormi la seguente domanda: «avendo a disposizione la decima parte (o anche meno) del personale delle altre aziende, come posso ottenere gli stessi risultati, se non risultati persino migliori?»

La risposta questa volta venne dalla fisica: sappiamo, infatti, che se un sistema è posto sulla sua frequenza di risonanza dell'infinito. Qualunque sistema, anche le persone. Ma non solo le persone, anche ogni team ha una sua frequenza di risonanza, e l’azienda come tale ha una sua specifica frequenza di risonanza. Seguendo quindi tale logica, pur avendo a disposizione solo un decimo (o ancora meno) delle risorse, se il valore di ognuna di esse fosse stato infinito, il problema non sarebbe neppure esistito. Magnifico!

Ma come si può fare in modo che un dipendente lavori sulla sua frequenza di risonanza, e possa quindi rendere infinito? E cosa si intende esattamente per frequenza di risonanza di una persona? Vediamolo insieme: ogni persona ha delle specifiche capacità, dei talenti, degli ambiti in cui riesce benissimo, in cui ama lavorare ed esprimersi; una propria frequenza, appunto. Su tale frequenza, una persona può rendere infinito. Per quanto riguarda le strategie aziendali in fase di selezione, non si tratta più di mettere le persone sul lavoro, ma trovare il lavoro migliore per le persone, sia per quelle già presenti che per quelle neo-assunte!

E ciò è possibile all’interno di un’organizzazione aziendale? Sì che è possibile! Possibile e vantaggioso, sia per il singolo sia per l’azienda: ogni talento, se valorizzato al meglio, rende infinito, sia per gli altri - poiché il soggetto, amando il proprio lavoro, lo eseguirà al meglio - sia per se stesso - perché realizzerà pienamente il proprio potenziale! Una soluzione, quindi, win-win-win: vincente per l’azienda, per la persona e per i clienti.

Un sistema come questo, che mira a una cooperazione piuttosto che a una competizione tra i collaboratori, non può ammettere che al suo interno vi sia l’esclusività di competenza. Diverso è il caso, invece, di un sistema a struttura gerarchica, all’interno del quale, infatti, non è raro che vi sia un professionista con una competenza specifica in un determinato settore; è lui il solo a detenerla, e questo gli conferisce l’esclusività, e quindi il potere. L’esclusività, tuttavia, come vedremo, si ritorce il più delle volte contro entrambe le parti: il professionista e l’azienda intera.

Il professionista è il primo a credere di godere di una certa sicurezza'- non teme il licenziamento, in quanto è consapevole di essere indispensabile per l’esistenza stessa della società. Nulla di più sbagliato: vedremo, infatti, che la sicurezza può trasformarsi in una trappola. Poi c’è l’azienda: se in molti vedono nell’esclusività un punto di forza, quest’ultima in realtà rappresenta il tallone d’Achille dell’intera società. Ho scelto quindi, a ragione, di denominare il professionista single point of failure-, se manca lui, tutto si ferma.

Il fascino del potere dato dall’esclusività non risparmia nessun settore: nel corso della mia vita mi è capitato infatti di farne diverse volte esperienza. Persino quando in gioventù mi ritrovai a fare il bocia, cioè il garzone, l’apprendista muratore, ricordo che i manovali svolgevano la loro mansione fino a un certo punto; a terminare l’opera arrivava sempre il capo che, senza che nessuno potesse assistere, e quindi apprendere il suo sapere, dava il “tocco finale”; esercitava in tal modo il potere dell’esclusività di competenza.

Tuttavia, se ci fermiamo un attimo a riflettere, tale modus operandi mette seriamente a rischio l’andamento di un’azienda, poiché non le permette di fatto di crescere: se infatti, per esempio, la domanda di un dato servizio aumenta, la possibilità di offrirlo è comunque limitata al fatto che vi è una sola persona in grado di prestarlo. In tale dinamica si cela un cruciale svantaggio che non risparmia nessuno, né il singolo, né l’organizzazione intera.

Partendo dal presupposto che godere dell’esclusività in materia di competenze specifiche, sebbene possa garantire una certa sicurezza, non è poi un grande affare, né per il singolo -che il più delle volte è oberato dal lavoro e ha difficoltà anche ad andare in ferie - né per l’andamento stesso della società che, come abbiamo visto, dipende patologicamente da lui, maturai presto la consapevolezza che l’unica strada percorribile per neutralizzare quell'inibitore di crescita fosse quella di distribuire la conoscenza tra più persone. Imboccando tale via, prese quindi forma un nuovo concetto, che denominai Practice.

Nello specifico, una Practice è costituita da un team che condivide le medesime competenze; lo standard di riferimento è definito da colui che risulta essere lo specialista nel settore. È lui che determina il livello al quale uniformarsi. E anche importante il concetto di specifiche e definite: ogni persona sa quali sono le sue responsabilità, dove iniziano e dove finiscono. Spesso, al contrario, le persone vengono sovraccaricate di compiti che non sono di loro chiara responsabilità e competenza, e ciò rende tutto incerto e frustrante.

Una Practice è infatti organizzata e gestita da un focal point, una persona molto competente in materia, con spiccate doti relazionali, che non deve necessariamente essere un people manager. Tale sistema risolve non pochi problemi aziendali, e offre al contempo una concreta opportunità di apprendimento e crescita condivisa: per garantire che tutti siano allo stesso livello di competenza, infatti, occorre un continuo e costante passaggio di informazioni tra i membri; se uno di loro impara qualcosa di nuovo, lo condivide con gli altri nell’immediato. Ciò alimenta un sistema di apprendimento in continuo aggiornamento, e risponde appieno alle necessità del sapere informatico.

Rifacendosi alla legge di Moore, si può affermare che nell’ambito dell’informatica le competenze vanno riviste e costantemente aggiornate: se non tieni il passo, sei fuori dal mercato! Non ultimo, la Practice è un sistema che si adatta naturalmente alle necessità dell’azienda: se occorre che al suo interno vi siano più persone competenti in un dato settore, queste vengono introdotte in un team specifico, e in breve tempo, grazie alla libera circolazione delle informazioni, acquisiscono le medesime competenze degli altri membri del team. Il sapere condiviso rende inoltre possibile la libera circolazione dei membri della Practice: nel caso in cui, per esempio, un suo componente decidesse di cambiare settore o di lasciare perfino il lavoro, tale scelta non metterebbe in crisi l’andamento dell’azienda, in quanto la sua competenza sarebbe comunque resa operativa nell’immediato da altri.

In tale sistema nessuno ha quindi l'esclusività. La Practice garantisce infatti che chiunque ne faccia parte possa svolgere al meglio le stesse mansioni degli altri membri. Niente di più democratico!

Ma come funziona nello specifico? Vi faccio un esempio: quando mi trovavo in azienda, se per caso un commerciale aveva bisogno di un esperto di Internet, quest’ultimo non si rivolgeva a una persona in particolare, ma faceva richiesta in generale alla Practice Internet. Il passo successivo era che la prima persona disponibile gli offrisse il servizio richiesto: massima efficacia, quindi, con il minimo tempo di risposta. Inoltre, se per esempio si dava il via a un progetto che per un motivo x doveva essere interrotto in corso d’opera, quando veniva riavviato non era necessario che a occuparsene fosse la stessa persona che lo aveva iniziato: qualsiasi altra persona competente in materia poteva proseguirlo. In tal modo, venivano scongiurati ritardi improduttivi o tempi di attesa snervanti.

E nel caso in cui in ballo ci fosse stato un progetto più complesso, articolato in più parti? Come procedere? Anche questo era stato previsto: tale sistema richiedeva, infatti, che ogni persona all’interno della Practice avesse una solida competenza in materia di Project Management. In questo caso, infatti, sarebbe stata necessaria una collaborazione tra team: il membro che dava il via al progetto avrebbe chiesto il supporto alle altre Practice, le quali avrebbero proposto la prima persona disponibile. Niente di più facile!

Non sorprende quindi che tale organizzazione dovesse essere caratterizzata da una grande flessibilità, un altissimo livello di competenza e un profondo senso di responsabilità dei suoi membri. Una volta delineate le peculiarità del sistema, mi preoccupai di comprendere se quest’ultimo potesse giovare in termini di soddisfazione ai suoi componenti. Per verificarlo, ideai un test semplice e immediato. Per ogni persona valutai tre parametri:

  1. Quanto guadagnava
  2. Quanto imparava
  3. Quanto si divertiva

Il primo parametro è chiaro: quanto si guadagna è fondamentale per vivere bene oggi. Il secondo parametro, invece, è fondamentale per continuare a guadagnare anche domani. Da non sottovalutare il fatto che imparare, oltre a essere necessario per restare sempre a passo con i tempi, è comunque un fattore irrinunciabile per chiunque ami il proprio lavoro. Il terzo, il divertimento, è anch’esso fondamentale: è ciò che rende le ore di lavoro quasi un piacere; genera un benessere interiore che motiva una persona a fare del proprio meglio.

Per superare il test, i tre indici dovevano essere equilibrati, sebbene i più importanti fossero, a mio avviso, il due e il tre: se questi due erano alti, infatti, esisteva la reale possibilità che si potesse guadagnare magari un po’ meno senza quasi accorgersene. Viceversa, se il due e il tre erano neutri o persino negativi, allora il guadagno sarebbe diventato l’unico parametro preso in considerazione. Paradossalmente, ciò poteva creare malumore, che trasformandosi in negatività energetica finiva con l’influenzare, indebolendola, sia la vita del singolo sia quella dell’azienda intera. Una catastrofe, insomma!

Questo testo è estratto dal libro "L'Azienda Quantica".

Data di Pubblicazione: 1 ottobre 2017

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