Lasciati guidare dagli insegnamenti di Christine Longaker sulla fine della vita e scopri i suoi inaspettati doni, leggendo l'anteprima del suo nuovo libro.

Una forma di... Grazia

Riflessioni sulla morte

"Voi giovani non sapete quanto siete fortunati."

Era il 1977 e lo scrittore di fantascienza Ray Bradbury stava spiegando al giovane pubblico dell’UCLA che per diventare scrittori di successo È necessario sviluppare la capacità di vedere le cose da una prospettiva più ampia:

"Dovete essere attenti e notare ciò che accade su una scala più vasta rispetto alla vostra vita di tutti i giorni; altrimenti, non saprete mai quanto siete fortunati. Ad esempio, è solo da qualche decennio che la medicina moderna ha reso possibile la prevenzione di molte malattie infantili che fino a qualche anno fa portavano alla morte. Se avessi tenuto questo incontro cinquant’anni fa, più della metà di voi non avrebbe superato l'infanzia e oggi non potrebbe essere qui.

Quando ero piccolo, l’esperienza della morte era cosa comune per le famiglie. Una donna poteva avere otto figli ma la metà di loro non superava i cinque anni. Le morti sì susseguivano. Ci si prendeva cura di loro in casa, si assisteva alla morte, e poi si lavava il corpo e lo si trasportava un una bara fino al cimitero. Dovevamo per forza avere fede in Dio, perché c’era bisogno di dare un senso a tutto quel morire."

È vero che non sappiamo quanto siamo fortunati. Ma è vero anche che non abbiamo capito l’importanza di ciò che abbiamo perso. Quel giorno, mentre ascoltavo Ray Bradbury, ero consapevole che mio marito era ricoverato solo a pochi chilometri da lì, all’UCLA Medical Center.

Prima della diagnosi di leucemia, Lyttle e io non pensavamo quasi mai alla morte o alla sofferenza o a un cambiamento tanto radicale: la mia vita ruotava intorno a mio figlio e a mio marito, e come la maggior parte delle persone davo la mia situazione per scontata. Se si immagina che le persone rimarranno con noi per sempre è difficile riuscire ad apprezzarle fino in fondo e dare loro la nostra piena attenzione. E spesso ci ritroviamo a serbare rancore e a gestire il nostro rapporto con le persone che più ci sono vicine sulla base di automatismi e condizionamenti.

Lyttle e io sentivamo di avere tutto ciò che avevamo sempre voluto, e che la vita era fatta per essere goduta. Anche se entrambi eravamo cresciuti in famiglie cristiane, da adulti non seguivamo nessuna tradizione religiosa, sebbene fossimo tutti e due dell’idea che oltre la dimensione materiale dovesse esistere una qualche sorta di realtà spirituale.

Alcuni definirebbero la malattia grave e improvvisa di mio marito, che l’aveva “falciato” nel bel mezzo di una vita felice ma spiritualmente neutra, una “dis-grazia”, nel senso che la Grazia doveva averlo abbandonato. Ma per quanto mi riguarda ho capito che vivere nella beata ignoranza non equivale affatto ad essere in stato di Grazia, e non è nemmeno una condizione di vita auspicabile.

 

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Per una ragione: non può durare. Le vicissitudini e la sofferenza della vita sono inevitabili, e quando arrivano i momenti di crisi ci trovano quasi sempre impreparati ad affrontarli. Se non siamo capaci di vedere le cose da un punto di vista più vasto, difficilmente apprezzeremo la preziosità della vita e dei nostri affetti.

In realtà, la malattia, la sofferenza o la morte sono una forma di...Grazia. Quando Lyttle e io siamo stati costretti a prendere atto dell’inevitabilità della sua morte, abbiamo finalmente capito una grande verità: che tutto è impermanente. Durante l’anno della sua malattia, trovarci in continuazione davanti allo specchio della morte ci ha spinti a cercare di dare una direzione e un senso alla nostra vita, e invece di vederci come vittime impotenti, ci siamo dati l’obiettivo di creare il tipo di vita che volevamo davvero per quel nostro ultimo anno insieme: a rendere possibile queito cambiamento fu il modo in cui decidemmo di vedere la morte quel primissimo giorno In ospedale.

Mentre mi prendevo cura di Lyttle e facevo i conti con la sua malattia e le sue molte crisi, pensavo che quello sarebbe stato jl periodo più difficile e doloroso della mia vita. E per qualche tempo sembrò che le cose stessero veramente così.

Per quattro mesi dopo la morte di Lyttle rimasi come anestetizzata, in uno stato di shock prolungato. Ogni tanto mi sentivo triste, ma ancora non ero stata travolta dalla piena consapevolezza dell’ineluttabilità della perdita che avevo subito. Quando questo avvenne, il dolore emotivo fu così straziante, e così forte il senso di disintegrazione personale, che a volte pensavo che ne sarei morta.

In altri momenti temevo invece di aver perso completamente il controllo sulla mia vita, e temevo di impazzire per il dolore e il senso di disorientamento che mi attanagliavano. Questa dolorosa elaborazione del lutto, a cui si accompagnava la paura di non riuscire mai più a tenere insieme anima e corpo, andò avanti per molti mesi.

Più ancora della malattia e della morte di Lyttle, fu questa esperienza di dolore a innescare nella mia vita il cambiamento più profondo. Presa dalla disperazione iniziai a pregare, anche se all’epoca non avevo nulla e nessuno in cui credere. Come il proverbiale ateo in trincea, pregavo che qualcuno mi aiutasse, pregavo di trovare qualcosa a cui potermi affidare, qualcosa che mi mostrasse la via per uscire da tutta quella sofferenza. A volte la solitudine e la disperazione erano così forti che pensavo che solo la morte avrebbe potuto alleviare il mio dolore.

I due anni che seguirono alla morte di Lyttle furono il periodo più difficile della mia vita, perché nel vivere il mio cordoglio e nel lasciarlo andare feci esperienza della mia “morte interiore”. Una morte che mi richiedeva di abbandonare tutti i punti di riferimento in base ai quali avevo vissuto fino a quel momento.

L'acuta consapevolezza dell’inevitabilità delle perdite che avrei sofferto in futuro, in particolare di quella di mio figlio (che fosse per la sua morte o la mia), affinò di molto la mia capacità di sintonizzarmi sulla fragilità della vita. Perciò pregavo perché mi sentivo smarrita, sola e disperata e non avrei voluto assaggiare mai più una tale disperazione, un tale senso di impotenza. Ero consapevole di aver bisogno di un cammino spirituale che mi mostrasse la via d'uscita dalla mia sofferenza.

 

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Una comprensione più profonda

La sofferenza e la morte di mio marito innescarono due esperienze eccezionali, che plasmarono dinamicamente il mio modo di vedere la vita e di attribuirle un senso: lavorare con l’hospice e l’incontro con gli insegnamenti del buddhismo tibetano e le pratiche per il vivere e il morire, trasmessi da Sogyal Rinpoche.

Un anno dopo la morte di Lyttle mi trasferii da Los Angeles a Santa Cruz, dove collaborai alla creazione di un percorso di cure palliative: ci lavorai sette anni, durante i quali entrai a far parte del comitato direttivo e mi occupai della formazione dei volontari e del personale professionista, visitando i morenti, le famiglie e i parenti dei defunti. Dalla sofferenza e dalla morte di Lyttle avevo ricevuto il dono inestimabile di poter aiutare i familiari a fare il miglior uso possibile del tempo all’avvicinarsi della morte, alleviando così molta della sofferenza evitabile che si accompagna al morire e alla morte.

Lavorare quei sette anni nel percorso di cure palliative e aiutare gli altri ad affrontare la morte e a trovare in essa la speranza, fu un regalo immenso anche per me: mi permise di continuare a vedere la vita nello specchio della morte, e a chiarire le mie priorità e le mie scelte. Ogni singola esperienza fu quindi molto più viva di quanto sarebbe stata altrimenti, ispirandomi quotidianamente un senso di gratitudine per il mio lavoro e per la mia vita.

Lavoravo nell’hospice ormai da qualche anno, quando un volontario mi suggerì di andare ad ascoltare una conferenza sulla morte tenuta da Sogyal Rinpoche, un maestro del buddhismo tibetano. Accettai, ma avevo miei dubbi. Avevo dato un’occhiata al "Libro tibetano dei morti", e l’impressione che ne avevo ricavato era che quegli insegnamenti non potessero essermi d’aiuto nell’assistere i morenti e le loro famiglie nella moderna America.

Così, quello che accadde fu una piacevole sorpresa. Rinpoche, invece di dilungarsi nella descrizione delle complesse visioni in cui potremmo incorrere dopo la morte, parlò del processo del morire in termini molto concreti, illustrando la dissoluzione degli elementi fisici, dei sensi e delle forze che avevo spesso osservato nei pazienti in fin di vita.

Tutte le cose che insegnava erano pratiche, e il suo modo di parlare rivelava qualità di profonda comprensione, compassione e apertura. Descrisse il modo migliore di prepararsi alla morte dal punto di vista del buddhismo tibetano, e proseguì mostrando diversi metodi per offrire anche ai non buddhisti un sostegno spirituale appropriato.

 

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Sottolineò inoltre l’importanza di parlare sinceramente con i morenti, di offrire loro il nostro amore senza riserve, e soprattutto di rendere sacri i loro ultimi mesi o settimane permeando l'atmosfera di spiritualità.

Poi iniziò a raccontare la storia di una sua prozia, Ani Rilu, un'anziana monaca tibetana che viveva in Sikkim, e che si stava avvicinando alla fine. Un vecchio, che da molti anni cucinava per la famiglia tanto che ormai ne era considerato parte, aveva sentito dire che Ani Rilu era vicina alla morte e così, di buon mattino, prima di andare a fare la spesa, si era recato nella sua stanza.

Lì aveva ricordato all’anziana monaca di praticare con costanza e intensità per prepararsi alla morte, e di non preoccuparsi per coloro che stava lasciando. E poi, con grande amore, l'aveva salutata per l’ultima volta.

Rimasi inchiodata alla sedia, mentre lacrime di gratitudine mi salivano agli occhi: quella era la stessa storia che mi era tornata alla mente nel momento della morte di Lyttle. Se ciò che insegnava Rinpoche mi aveva già aiutato una volta — pensai — rendendomi capace di regalare a mio marito una morte serena, allora di sicuro quell’uomo aveva ancora molta saggezza da offrirmi, per il bene della mia vita e del mio lavoro.

Perciò, quando Sogyal Rinpoche disse che sarebbe tornato negli Stati Uniti, dove avrebbe continuato a insegnare e guidare ritiri, fu per me come una benedizione. E fu così che iniziai a muovere i miei primi passi su un autentico sentiero spirituale, con la guida di un maestro il cui messaggio di speranza è di fondamentale importanza per il mondo moderno.

Gli insegnamenti del buddhismo tibetano hanno ampliato la mia comprensione del potenziale di questa nostra vita. Ho imparato che è possibile lavorare con la sofferenza e trasformarla, e che posso usare la vita per prepararmi spiritualmente alla morte.

Sono arrivata a vedere con chiarezza — grazie alla presenza e alle benedizioni di molti grandi maestri spirituali che ho incontrato di persona o attraverso i loro insegnamenti — che ciascuno di noi possiede un’intima essenza innata, la nostra autentica natura originaria: un’immutabile pura consapevolezza che soggiace all’intera esperienza del vivere e del morire.

E anche nei momenti di confusione o sofferenza, ora so che io non sono le mie emozioni, né la mia confusione, né la mia negatività o la mia paura. Il cammino spirituale mi mette a disposizione molti strumenti per comprendere e trasformare queste dolorose abitudini emotive, fino a raggiungere, pian piano, la libertà.

Affrontare la morte e il lutto così precocemente nella mia vita da adulta mi ha dunque fatto il dono inestimabile di un cammino spirituale, lo stesso dono segreto che attende tutti coloro che stanno affrontando le battaglie del morire, della morte o del lutto.

Lo specchio della morte ci rivela come vivere pienamente ogni giorno e ci dà l’impulso per trasformare la nostra sofferenza e cambiare: le esperienze più profonde di dolore e di perdita possono ispirarci a compiere il primo passo sulla via della liberazione spirituale.

 

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I quattro compiti del vivere e del morire

Attingendo alla mia esperienza personale, agli anni di lavoro negli hospice e nella formazione di caregiver professionisti, ho formulato quelli che ho chiamato “i quattro compiti del vivere e del morire”, che sono importantissimi per imparare a vivere e a morire bene. I quattro compiti, o obiettivi, descritti nel dettaglio nella seconda parte di questo libro, sono:

  • Comprendere e trasformare la sofferenza;
  • Stabilire una connessione, guarire la relazione e lasciare andare;
  • Prepararsi spiritualmente alla morte;
  • Scoprire il senso della vita.

Poiché la morte può giungere in qualsiasi momento, dedicarsi a questi obiettivi, oltre a servire come preparazione alla nostra propria morte, ci offre una chiave per vivere con pienezza e scoprire il significato di tutti i cambiamenti che non avremmo voluto dover affrontare, nelle perdite e nelle circostanze più dolorose della nostra vita.

La quantità della sofferenza che sperimentiamo nella vita dipende da quanto riusciremo a usare le esperienze di impermanenza e di cambiamento come opportunità per “fare pratica” del morire, imparando ad allentare la presa con cui ci aggrappiamo a ciò stiamo perdendo, di qualunque cosa si tratti.

Se prendiamo dimestichezza con l’atteggiamento del non attaccamento, a mano a mano che, ad ogni cambiamento, “lasceremo andare”, inizieremo a scoprire qualcosa di ancora più grande: l'apertura e la libertà della nostra vera natura che è simile al cielo... La nostra imperitura, immutabile, intima essenza.

Dunque tutto ciò che accade — soprattutto le molte “morti” di cui necessariamente facciamo esperienza in vita — è un segnale lungo la strada che ci indica la via per imparare a vivere e, così facendo, imparare a morire.

 

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Data di Pubblicazione: 16 novembre 2021

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