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La Bibbia della Controcultura Americana
La nostra storia
Tre sono le tappe fondamentali di questo mio viaggio. La prima riguarda la sociologia; la seconda è quella psichedelica; e la terza quella dello yogin. Esse si compenetrano, nel senso che molte delle esperienze che avevano poco senso per me all’epoca in cui si svolsero erano prerequisiti di ciò che sarebbe accaduto dopo.
Desidero condividere con voi gli aspetti del viaggio interiore di cui i mass media non parlano mai; non mi interessano gli aspetti politici della storia; non mi interessa quello che potete leggere in merito all’LSD sui giornali. Questo è il racconto di quello che succede all’interno di un essere umano che vive tutte queste esperienze.
Il successo
All’inizio del mese di marzo del 1961, probabilmente avevo raggiunto l’apice della mia carriera accademica. Avevo appena terminato il mio mandato di visiting professor all’Università della California, Berkley; mi avevano comunicato che a Harvard mi era stato riservato un posto a tempo indeterminato se avessi riordinato le mie pubblicazioni.
A Harvard avevo già quattro incarichi: presso la Facoltà di relazioni sociali, la Facoltà di psicologia, la Graduate School of Education e l’Health Service (dove ero terapeuta). Avevo dei contratti di ricerca a Yale e Stanford. In parole povere, stavo facendo un sacco di soldi ed ero un collezionista di beni.
Avevo un appartamento a Cambridge pieno di pezzi di antiquariato e organizzavo cene molto interessanti. Possedevo una berlina Mercedes-Benz e una moto Triumph 500 CC, un Cessna 172 una macchina sportiva, una barca a vela e una bicicletta. Trascorrevo le vacanze ai Caraibi, dove mi dilettavo in immersioni.
Vivevo nel modo in cui si dava per scontato che dovesse vivere un professore universitario di successo nell’America di "colui che ce la fa". Non ero un vero e proprio ricercatore, però avevo svolto tutto l’iter accademico. Avevo ottenuto il mio Ph.D.; pubblicavo libri. Avevo dei contratti di ricerca.
Tenevo corsi di formazione motivazionale, di teoria freudiana, e corsi finalizzati allo sviluppo del bambino. Ma tutto questo si riduceva essenzialmente a un’unica cosa: ero un ottimo giocatore. Gli appunti delle mie lezioni, presentati con un certo acume, erano frutto delle idee di altri uomini e la mia ricerca rientrava in tutto e per tutto nello spirito del tempo, che avrebbe dovuto essere oggetto di ricerca.
Nel 1955 iniziai a svolgere l’attività di psicoterapeuta, e il mio primo paziente mi fece conoscere la marijuana. Dopodiché ne feci un uso sporadico, anche se continuavo ad essere un forte bevitore. Tuttavia, quel primo paziente aveva amici che a loro volta avevano degli amici che diventarono tutti miei pazienti. Diventai il terapeuta della comunità hippie di Stanford.
Quando andavo a un party, tutti dicevano "Ecco che arriva lo strizzacervelli", e io mi sedevo in un angolo atteggiandomi a essere superiore. Oltre a questo, ero stato in analisi per cinque anni, investendo la bella cifra di 26.000 dollari.
Prima del 6 marzo, giorno in cui presi la psilocibina, uno dei tanti psichedelici, sentivo che c’era qualcosa di sbagliato nel mio mondo, che tuttavia non riuscivo a precisare. Sentivo che le teorie psicologiche che insegnavo non fornivano una spiegazione, che gli psicologi non avevano una chiara comprensione della condizione umana, e che le teorie che presentavo — che riguardavano la realizzazione e l’ansia e i meccanismi di difesa e così via — non arrivavano al nocciolo della questione.
I miei colleghi ed io facevamo gli psicologi dalle 9 alle 5: arrivavamo al lavoro ogni giorno propinando la nostra psicologia, proprio come uno che fa l’assicuratore o il meccanico, e poi alle 5 del pomeriggio tornavamo a casa nevrotici come quando avevamo iniziato. Se tutte quelle teorie fossero state corrette, allora avrebbero dovuto incidere più a fondo nella mia vita.
Capivo il requisito che uno scienziato dovesse essere "obiettivo", ma nelle scienze sociali questo è un concetto piuttosto ingenuo, come stiamo scoprendo. E qualunque cosa avesse fatto la psicanalisi (e faceva molte cose, ne sono certo), dopo cinque anni di analisi ero ancora nevrotico. Anche il mio terapeuta la pensava allo stesso modo, perché quando smisi di andare da lui per recarmi a Harvard, disse: "Sei troppo malato per interrompere l’analisi".
Furono le sue ultime parole. Ma visto che avevo una formazione freudiana, conoscevo piuttosto bene il suo gioco da godere di questa terribile, sofisticata, competitiva relazione con lui che mi portava a ribattere: "Se ben ricorda nel 1906 Freud diceva questo, e quando lo dico lei dovrebbe interpretare...". E per questo pagavo 20 dollari all’ora!
C'era qualcosa che non andava. E quel qualcosa era quello che io non capivo, anche se continuavo a pensare che qualcun altro dovesse saperlo. La natura della vita era un mistero per me. Tutto quello che insegnavo poteva essere paragonato a dei frammenti molecolari del tutto che però nel loro insieme non procuravano la sensazione di saggezza. Io stavo semplicemente accumulando sempre più conoscenze. E stavo diventando molto bravo a compiere capriole intellettuali.
Come membro di una commissione per l’esame finale di dottorato riuscivo a porre domande molto sofisticate, dando l'impressione di essere molto saggio. Ma era una truffa.
Insoddisfazione
L’anomalia della mia professione era data dal fatto che fondamentalmente non ero uno studioso. Venivo da una tradizione ebraica dove a dominare erano l’ansia da prestazione e una estrema competitività. Nonostante gli anni passati in analisi, ogni volta che dovevo fare lezione ero teso e afflitto da disturbi intestinali. Insegnare cinque giorni alla settimana rendeva molto complicato gestire il funzionamento del mio stomaco.
Ma quali che fossero le mie motivazioni, furono così potenti che, nonostante fossi uno studente mediocre (non riuscii mai a entrare a Harvard per quanto ci avessi provato e riprovato, e ricorrendo persino a tutta l’influenza politica di mio padre), alla fine mi ritrovai a lavorare per una delle più prestigiose università del paese.
Riuscivo a studiare per dieci ore filate e a preparare delle ottime lezioni su Freud o sui sistemi motivazionali, ma l'impressione era che tutto si riducesse a un’astrazione. Era tutto teorico. Teorizzavo questo e quello. Esponevo quelle idee, quei concetti intellettuali, molto distanti dal mio vissuto. Benché riuscissi a esprimere tutto il mio fervore emozionale, dentro di me sentivo che quello che facevo era privo di valore.
È con profonda costernazione vedevo che questo atteggiamento era considerato accettabile dalla maggior parte dei miei colleghi, i quali, nel loro tentativo di diventare "scientifici", sembravano pensare alla personalità in termini di variabili. I bambini altro non erano che variabili ambulanti, e nonostante tutti i nostri sforzi, quando si arrivava a legittimare una variabile definita operativamente, essa aveva perso la sua valenza viscerale.
Ecco quindi che i concetti con i quali lavoravamo erano dei meri giochi intellettuali, che però non impattavano la mia vita. Eccomi seduto di fronte ai ragazzi del primo anno di psicologia cognitiva, di psicologia della personalità, di psicologia dello sviluppo, e di punto in bianco mi ritrovavo a pensare che anche quegli uomini e quelle donne non erano esseri molto evoluti.
Le loro esistenze stesse non erano realizzate. Non c'era sufficiente bellezza umana, realizzazione umana, appagamento umano. Lavorai duramente e le chiavi del regno mi furono consegnate. Mi fu promesso tutto di quel regno. Sentivo di essere entrato in quel cerchio interno, qualunque cosa volesse dire: potevo essere il responsabile dei programmi della divisione dell’A.P.A., potevo entrare nei comitati governativi e ottenere delle sovvenzioni, e viaggiare, e far parte dei membri della commissione per l’esame finale di dottorato.
Ma c’era sempre quella tremenda consapevolezza di non sapere qualcosa che faceva crollare tutto. E l’idea di trascorrere i successivi quarant'anni con quel tarlo mi riempiva di una certa ansia, tanto più che apparentemente era qualcosa che veniva considerato normale. E nelle ore libere giocavamo a Go, oppure a poker, e ci raccontavamo barzellette. Tutta quella faccenda era troppo insulsa. Non c’era abbastanza onestà.
E ci fu un momento nella mia carriera di professore a Stanford e a Harvard in cui mi ritrovai impelagato in una sorta di gioco insensato in cui gli studenti recitavano in modo pregevole il ruolo di studenti e la facoltà altrettanto pregevolmente il suo ruolo di facoltà.
Mi alzavo e ripetevo quello che avevo letto nei libri, e loro prendevano appunti e lo restituivano sotto forma di risposte agli esami, ma non succedeva niente. Avevo l'impressione di trovarmi in una stanza insonorizzata. Non succedeva nulla che fosse realmente significativo — che fosse reale.
E come terapeuta mi sentivo intrappolato nella farsa delle mie stesse teorie. I dati della ricerca mostravano che i pazienti rogeriani finivano col fare affermazioni positive, mentre i pazienti freudiani finivano col parlare della loro madre grazie a sottili indizi di rinforzo — era così ovvio.
Sedevo con il mio taccuino e quando il paziente iniziava a parlare di sua madre, prendevo qualche appunto, e non gli ci voleva molto per rendersi conto che ogni volta che diceva certe cose il suo messaggio veniva "registrato", che otteneva la sua pillola. E ben presto sarebbe stato "freudianizzato".
Di fronte a questa sensazione di malessere, cominciai a rimpinzarmi di cibo, a collezionare sempre più oggetti, a prendere più appuntamenti, ad acquisire più incarichi e status, a organizzare più orge sessuali e alcoliche, e a rendere ancora più sregolata la mia vita.
Ogni volta che mi recavo a una riunione familiare, ero quello che ce l’aveva fatta. Ero un professore di Harvard, e mi stavano tutti attorno con deferenza, ad ascoltare ogni singola mia parola, e tutto quello che avvertivo dentro di me era l’orrore di non sapere. Naturalmente, era un orrore bellissimo, delicato, perché c’era anche una buona dose di gratificazione.
Avevo il mio regno in un posto chiamato Center for Research in Personality; un ufficio d'angolo in un edificio che avevo contribuito a progettare; due segretarie e molti assistenti ricercatori laureati e laureandi. Avevo realizzato il tutto in circa tre anni. Ero davvero galvanizzato. Non potrete affermare di aver conosciuto una vera persona di successo finché non vi imbatterete in un bravo ebreo della classe media, rampante, nevrotico e ansioso!
Il mio ebraismo era un ebraismo politico. Provenivo da una tradizione di religione popolare — lo spirito talvolta mi sfuggiva, anche se osservavamo sempre lo Yom Kippur e la Pasqua. Mio padre, tuttavia, faceva parte del consiglio di amministrazione che nominava e silurava i rabbini, quindi, come potevo entrare in sintonia con un capo spirituale, se mio padre aveva il potere di nominare e silurare questi uomini?
In fondo al corridoio del mio grande impero c'era un piccolo ufficio. Uno sgabuzzino, in realtà, che venne sgomberato e arredato con una scrivania. Quell’ufficio fu occupato da Timothy Leary. Stava girando l’Italia in bicicletta, emettendo assegni a vuoto, quando lo trovò David McClelland che lo riportò indietro come dono creativo alla scienza occidentale.
Tim ed io diventammo compagni di bevute. Poi iniziammo a tenere corsi insieme, come il primo anno di clinica pratica sul "Cambiamento comportamentale transazionale esistenziale".
Più stavo con Tim, più mi rendevo conto che aveva una intelligenza assolutamente straordinaria. Sapeva davvero un sacco di cose. Lo trovavo estremamente stimolante e gli studenti erano entusiasti perché era aperto a nuove idee ed era disposto ad assumersi rischi enormi con le sue parabole mentali.
Una sera, mentre stavamo bevendo, progettammo un viaggio in cui avremmo percorso l'America da nord a sud, e quando gli dissi che pilotavo un aereo, lui ribatté: "Fantastico, andremo col tuo aereo". Peccato che avessi omesso di dirgli che non avevo ancora il brevetto di volo.
E così in tutta segretezza feci in modo di ottenerlo, quel brevetto, per poterlo incontrare il 1° agosto a Cuernavaca, in Messico, dove stava trascorrendo le vacanze. Da lì avremmo iniziato il nostro viaggio.
Ottenni il brevetto e un aereo nello stesso giorno, e l'indomani decollai alla volta del Messico. Quando arrivai, scoprii che Timothy se n’era andato una settimana prima. Frank Baron, psicologo e vecchio amico di Tim, gli aveva presentato un antropologo che aveva fatto provare a entrambi i Teonanacatl, i funghi sacri del Messico, "la carne degli dèi" in lingua nahuatl. I funghi erano stati procurati da una certa Crazy Juanna, una donna che viveva in montagna e che praticamente si cibava di funghi.
In compagnia di altre persone riunite attorno a una piscina, Tim ne aveva mangiati nove — funghi maschili e femminili — e aveva avuto un'esperienza profonda. Tanto che ebbe a dichiarare: "Ho appreso più cose durante questa esperienza di sei ore di quante ne abbia comprese in tutti i miei anni di psicologo". Un’affermazione forte!
Quando arrivai a Cuernavaca, i funghi erano finiti, e con essi la voglia di mettersi in viaggio. Perché qual era il senso di fare un viaggio esteriore quando quello che Timothy stava cercando era dentro la sua testa?
Trascorsi così il mio tempo tra Tepetzlan, in compagnia di David McClelland e la sua famiglia, e Cuernavaca, con Tim e il suo entourage, poi ritornammo negli Stati Uniti accompagnati da Jackie, suo figlio, e da una iguana.
Dopodiché io mi recai all’Università della California in veste di visiting professor, mentre Tim ritornò a Harvard. E quando rientrai a mia volta a Harvard, Timothy aveva già avviato un'importante ricerca sugli psichedelici.
Si era consultato con Aldous Huxley, che in quel periodo si trovava al MIT, e assieme a un gruppo di studenti diplomati avevano contattato la Sandoz, la quale, dopo aver sintetizzato in laboratorio la psilocibina, sostanza che si trovava nei funghi messicani, la stava producendo e aveva avviato i primi studi sui suoi effetti. Quando ritornai a Cambridge in primavera, fui invitato a condividere quel banchetto.
Data di Pubblicazione: 3 gennaio 2022