SALUTE E BENESSERE

La matematica delle epidemie

La matematica delle epidemie

Scopri il lavoro teorico sulla diffusione delle malattie infettive e l'importanza ricerche matematiche leggendo l'anteprima del libro di David Quammen.

Tutto ha un'origine

Un detective della medicina Ronald Ross arrivò in Occidente dall’India nel 1874, a diciassette anni, per studiare medicina al St. Bartholomew’s Hospital di Londra. Qualche anno dopo si sarebbe specializzato nello studio della malaria. Era un tìpico prodotto dell’Impero britannico. Suo padre era il generale Campbell Ross, uno scozzese originario delle Highlands che aveva militato nei reparti coloniali durante la rivolta dei Sepoy e aveva combattuto aspramente contro le tribù delle colline.

Non era la prima volta che Ross tornava « a casa», perché qualche anno prima era stato costretto a frequentare un collegio dalle parti di Southampton. Aveva la vaga aspirazione di diventare un poeta, o un pittore, o un matematico; ma era il maggiore di dieci figli e su di lui si concentravano le ambizioni del padre, che decise al posto suo un futuro nell’Indian Medical Service (IMS) . Dopo cinque anni senza infamia e senza lode al St. Bartholomew’s, Ross fu bocciato all’esame di ammissione all’IMS, non certo il viatico ideale per un futuro Nobel in medicina.

Della sua gioventù si ricordano due episodi che col senno di poi sembrano buoni auspici per il futuro: la vittoria di un premio scolastico per la matematica e la diagnosi, da studente di medicina, di una paziente affetta da malaria. Era una circostanza insolita, visto che la malattia era praticamente sconosciuta sul suolo britannico, anche nelle terre paludose dell’Essex dove viveva la donna. Non sappiamo se la diagnosi fosse giusta, anche perché la donna si spaventò a sentire il nome di quella malattia mortale e scappò via, probabilmente per rifugiarsi proprio nelle paludi dell’Essex. Sia come sia, dopo un anno Ross riprovò l’esame d’ammissione all’IMS e passò per il rotto della cuffia.

Per il suo primo incarico fu spedito a Madras. Fu lì che iniziò a prestare attenzione alle zanzare, che infestavano in massa la sua casetta. Ross non mostrò fin da subito le sue doti di detective della medicina. Per anni si perse in attività futili, distratto dai suoi mille interessi di dilettante tuttologo. Produsse poesie, drammi teatrali, pessimi romanzi e quelle che pensava fossero straordinarie scoperte matematiche. I suoi doveri professionali all’ospedale di Madras, tra cui somministrare il chinino ai soldati colpiti dalla malaria, non gli prendevano più di due ore al giorno, e aveva dunque un sacco di tempo per le sue improvvisazioni parascolastiche. Tra varie oziose riflessioni, alla fine, arrivò a pensare alle cause della malaria. Il contagio era dovuto ai miasmi delle zone malsane, come sosteneva la teoria tradizionale, o era provocato da un qualche agente infettante? E in questo caso, come si trasmetteva? In che modo si poteva controllare la malattia? Dopo sette anni di servizio senza demerito, tornò in Inghilterra per un periodo di aspettativa. Qui seguì un corso di sanità pubblica, imparò a usare il microscopio, si trovò una moglie e se la riportò in India. La nuova sede di servizio era un piccolo ospedale a Bangalore. Lì iniziò a osservare al microscopio vetrini strisciati di sangue prelevato a soldati in preda alle febbri malariche.

L’ambiente era privo di stimoli intellettuali, lontano dai centri di ricerca e dai colleghi. Nel 1892 Ross venne a sapere con un certo ritardo che il medico e microbiologo francese Alphonse Laveran aveva dimostrato, sulla base di studi condotti in Algeria e a Roma, che il sangue dei malarici conteneva piccoli organismi parassiti. Erano questi, secondo il loro scopritore, a causare la malattia. Nel corso di un viaggio a Londra, con l’aiuto di un eminente collega, Ross riuscì a osservare in prima persona i cosiddetti « corpi di Laveran » in un campione di sangue e si convertì istantaneamente alle idee del francese. Laveran aveva scoperto una grande verità, e cioè che la malaria è causata da microbi e non dai miasmi, ma restava da capire il quadro generale: come si riproducevano i patogeni nel corpo umano e come si spostavano da un ospite all’altro. Erano forse trasportati dall’acqua, come i germi del colera, o dalla puntura di un insetto?

La scoperta del ciclo vitale del parassita malarico, mediato dalle zanzare, è dovuta proprio a Ronald Ross, che per questo vinse il Nobel per la medicina. La vicenda è considerata un classico negli annali della ricerca sulla malattìa e non la ripercorreremo qui. E' una storia intricata, sia perché il ciclo del parassita è incredibilmente complesso sia perché Ross era lui stesso un uomo non semplice, con numerosi condizionamenti, concorrenti, nemici, idee sbagliate insieme a quelle giuste e insoddisfazioni controproducenti. E' sufficiente ricordare due punti che illustrano i legami tra quella storia e il nostro argomento, le zoonosi. Le zoonosi

Per prima cosa, Ross scoprì il ciclo vitale del parassita non negli umani ma negli uccelli, che sono colpiti da una forma diversa di malaria, ma che furono molto utili per analogia. In secondo luogo, la malattia finì col diventare per lui un argomento di ricerca di matematica applicata.

La matematica delle epidemie

I numeri possono svelarci concetti importanti nel campo delle malattìe infettive. Prendete ad esempio il morbillo. A una prima occhiata non sembra che la matematica c’entri molto con questa malattia. E' causata da un paramyxovirus e si manifesta come un’infezione delle vie respiratorie accompagnata di solito da un’eruzione cutanea. I focolai epidemici vanno e vengono. Ma studi epidemiologici hanno dimostrato che per il virus del morbillo, così come per altri patogeni, esiste un valore minimo per la grandezza della popolazione ospite sotto il quale il virus non può persistere come infezione endemica circolante.

Questo valore, noto come « dimensione critica di popolazione» o ccs (dall’inglese Criticai Community Size), ha un ruolo importante nella dinamica della malattia. Esso riflette alcune sue caratteristiche specifiche, come l’efficienza nella trasmissione, la virulenza (misurata dal tasso di letalità) e il fatto che un’unica esposizione può conferire l’immunità permanente. Nel caso del morbillo la dimensione critica della popolazione sembra essere intorno a cinquecentomila persone. Dunque una comunità isolata formata da meno di mezzo milione di persone può essere colpita occasionalmente dal morbillo, ma in un tempo abbastanza breve il virus scompare. Perché? Perché ha già sfruttato tutte le occasioni di moltiplicarsi negli ospiti suscettibili. Gli adulti e i giovani della comunità sono quasi tutti immuni, perché sono stati esposti al virus in precedenza, e il numero di nuovi nati è insufficiente per permettere al patogeno di circolare senza interruzioni. Se la popolazione è più di mezzo milione, invece, vi sarà un rifornimento di neonati infettabili sufficiente ad assicurare la sopravvivenza continua del virus.

Un’altra caratteristica del morbillo è che non è una malattia zoonotica. Se così non fosse - cioè se il virus circolasse anche tra animali che vivono vicino o in mezzo alle comunità umane -, la questione della dimensione critica sarebbe irrilevante: non vi sarebbe la necessità di una dimensione minima della popolazione umana, perché il virus potrebbe sempre rimanere sulla scena sfruttando questi altri ospiti. Non bisogna tuttavia dimenticare che il morbillo, pur non circolando in popolazioni animali non umane, è strettamente imparentato con virus che le colpiscono.

Nel genere Morbillivirus sono compresi i patogeni del cimurro canino e della peste bovina; nella famiglia di appartenenza, i Paramyxoviridae, ci sono Hendra e Nipah. Dunque l’albero genealogico del morbillo indica che nel passato possono essere avvenuti salti di specie, oggi molto rari. La pertosse, per fare un altro esempio, ha una dimensione critica di popolazione un po’ diversa da quella del morbillo, perché il suo patogeno ha differenti caratteristiche di efficienza nella trasmissione, virulenza, periodo di contagiosità e così via: si stima che sia pari a duecentomila individui. Questi calcoli sono diventati il pane quotidiano di chi applica sofisticati modelli matematici all’ecologia.

Daniel Bernoulli

Il primo a utilizzare la matematica per studiare la dinamica delle epidemie fu Daniel Bernoulli, nato in Olanda e appartenente a una delle più celebri famiglie di matematici della storia. Ciò avveniva nel Settecento, ben prima che le teorie microbiche delle malattie fossero comunemente accettate. Nel 1760, mentre insegnava all’Università di Basilea, Bernoulli fece uno studio sul vaiolo, calcolando costi e benefici di una vaccinazione universale contro tale malattia. La sua carriera fu lunga e improntata a eclettismo, comprendendo lavori matematici su una vasta gamma di argomenti di fisica, astronomia ed economia politica - dal moto dei fluidi e dalla teoria delle oscillazioni al calcolo del rischio nelle assicurazioni.

Lo studio sul vaiolo sembra quasi anomalo nel panorama degli interessi di Bernoulli; d’altra parte anche in questo caso si tratta di calcoli del rischio. Bernoulli mostrò che inoculare a tutta la popolazione una piccola dose di materia infetta (allora non si sapeva cosa fosse un virus) comportava sia rischi sia benefici, ma che i benefici erano superiori ai pericoli. Tra i rischi c’era il fatto che l’introduzione artificiale di materiale infetto nell’organismo poteva portare, benché raramente, a sviluppare la malattia in forma mortale; ma più spesso il risultato era l’immunità permanente. Un grande vantaggio per l’individuo ottenuto con una singola operazione. Per valutare i benefici per la popolazione di un’azione collettiva, Bernoulli si chiese quante vite si sarebbero salvate ogni anno se il vaiolo fosse stato completamente debellato. Le sue equazioni rivelarono che con la vaccinazione di massa la durata della vita sarebbe aumentata mediamente di tre anni e due mesi.

Alla fine del diciottesimo secolo la speranza di vita alla nascita non era alta, e quei tre anni e due mesi rappresentavano un incremento ragguardevole. Ma poiché il vaiolo si prende o non si prende e non si può parlare di un beneficio «medio» reale per l’intera popolazione, Bernoulli espresse i suoi risultati anche in una forma più cruda e concreta. Presa una coorte di 1300 neonati, le tabelle statistiche dell’epoca sulle cause di morte consentivano di prevedere che in assenza di vaiolo 644 di loro sarebbero vissuti almeno fino a venticinque anni; questo dato si riduceva a 565 in presenza di vaiolo endemico. Ufficiali sanitari e semplici cittadini potevano pensare di essere tra i 79 salvati e dunque apprezzare la forza di quel ragionamento numerico.

L’applicazione di metodi matematici allo studio delle malattie fatta in quel lavoro era innovativa, ma non ebbe effetti immediati. Si dovette aspettare quasi un secolo per vederli nuovamente all’opera con successo in campo sanitario; fu nel 1854, a Londra, quando il medico John Snow utilizzò tabelle statistiche e una mappa della città per individuare le fonti d’acqua contaminata (tra cui la tristemente famosa pompa di Broad Street) responsabili della maggior parte dei casi di colera nell’epidemia di quell’anno. Snow, come Bernoulli, non aveva il vantaggio di sapere in anticipo che tipo di sostanza o di organismo (in questo caso il batterio Vibrio cholerae) causasse la malattia di cui cercava di capire le mosse per controllarla. I suoi risultati furono in ogni caso notevolissimi.

Nel 1906, dopo che Louis Pasteur, Robert Koch, Joseph Lister e altri avevano dimostrato in modo definitivo il ruolo dei microbi nelle malattie infettive, un altro medico inglese di nome W.H. Hamer presentò qualche interessante osservazione sulle epidemie « a lenta propagazione » in una serie di conferenze al Royal College of Physicians di Londra.

Principio dell’azione di massa

Hamer era particolarmente interessato a capire perché malattie come l’influenza, la difterite e il morbillo sembrassero esplodere secondo uno schema ciclico, con periodi epidemici alternati ad altri di quiescenza. La cosa sorprendente era che l’intervallo tra le epidemie sembrava costante per ogni malattia. Il ciclo su cui Hamer raccolse i suoi dati era quello del morbillo a Londra, che all’epoca aveva circa cinque milioni di abitanti: la malattia si ripresentava ogni diciotto mesi. Un’ondata di morbillo ogni anno e mezzo. Hamer ipotizzò che le epidemie scemassero quando il numero di individui suscettìbili (cioè non immuni) scendeva sotto una soglia necessaria ad alimentare l’agente patogeno, e che invece scoppiassero quando il ciclo delle nascite forniva alla malattìa un numero sufficiente di nuove vittime potenziali. Inoltre, il fattore cruciale non era dato dal semplice numero di individui iniettabili, ma dalla loro densità moltiplicata per quella degli infettivi. In altre parole, contavano solo le occasioni di contatto tra chi poteva trasmettere la malattìa e chi poteva esserne colpito. I sopravvissuti e gli immuni erano meno importanti e rappresentavano un semplice fattore di rallentamento della propagazione. Il proseguimento dell’epidemia dipendeva dalla probabilità di incontro tra individui contagiosi e individui infettabili. Questa idea divenne nota come « principio dell’azione di massa». La sua natura era puramente matematica.

Nello stesso anno un medico scozzese chiamato John Brownlee avanzò un’ipotesi alternativa. Costui lavorava sia come clinico sia come amministratore presso un ospedale di Glasgow. In un resoconto pubblicato dalla Royal Society di Edimburgo, presentò i grafici con gli andamenti oscillanti dei casi registrati, mese per mese e settimana per settimana, di parecchie epidemie, basandosi solo su dati empirici: la peste di Londra del 1665, il morbillo a Glasgow nel 1808, il colera a Londra nel 1832, la scarlattina a Halifax nel 1880, l’influenza a Londra nel 1891 e varie altre. Li confrontò poi con le curve regolari rappresentative di certe funzioni matematiche, che corrispondevano alle sue tesi circa le cause delle epidemie e del loro de-clino. La buona compatibilità tra dati empirici e modello teorico dimostrava (almeno, secondo lui) che le sue ipotesi erano giuste. Ogni epidemia nasceva, nelle sue parole, « quando un organismo acquisiva un certo grado di infettività», cioè quando avveniva un improvviso aumento nella capacità del patogeno di infettare e causare danni; tale capacità, a un certo punto, diminuiva velocemente. La risoluzione della crisi, che in genere non era improvvisa come il suo inizio, era il risultato della « perdita di infettività » da parte del patogeno. Il batterio della peste aveva esaurito le cartucce; il virus del morbillo aveva rallentato o si era indebolito; quello dell’influenza era diventato innocuo; e così via: il loro potere malefico li aveva abbandonati ed erano rimasti simili a palloncini sgonfi. Non perdete tempo a calcolare il numero o la densità degli individui suscettibili, diceva Brownlee, perché il decorso dell’epidemia era controllato solo dalla « condizione del germe » e non dalle caratteristiche della popolazione.

Un problema di questa abile costruzione teorica era dato dal fatto che nessuno aveva ben chiaro cosa intendesse Brownlee con « infettività ». Era forse una misura dell’efficienza della trasmissione, data dal numero di infettati per ogni caso? O un sinonimo di virulenza? O una combinazione di questi due concetti? In ogni caso, qualunque cosa volesse dire, questa ipotesi era errata. Le epidemie non cessano per cause interne al patogeno.

Così disse il grande scopritore della malaria, Ronald Ross, in un articolo del 1916 in cui presentava la sua teoria matematica delle epidemie. Nel frattempo aveva vinto il Nobel, era stato fatto baronetto e aveva pubblicato la sua bibbia, The Prevention of Malaria, in cui parlava anche e soprattutto dell’origine della malattia in una prospettiva scientifica e storica.

La riduzione della malattia

Ross ammetteva che, a causa della complessità del parassita e della resistenza dei vettori, la malaria probabilmente non si poteva « estirpare una volta per tutte», non prima che la civiltà raggiungesse «un livello molto più alto ». Dunque l’obiettivo fisso di tutte le campagne sanitarie avrebbe dovuto essere la riduzione della malattia. Durante le sue ricerche, Ross aveva spostato l’interesse sempre più verso i modelli matematici ed era pervenuto a una teoria delle epidemie più generale rispetto al suo lavoro sulla malaria, e a una « teoria degli eventi » che a sua volta generalizzava quella delle epidemie. Con « evento » pare intendesse ogni fenomeno che si diffonde nella popolazione passando da individuo a individuo, come i pettegolezzi, il panico o le infezioni.

Nell’articolo del 1916, Ross parte con una dichiarazione di stupore per il fatto che « così poche ricerche matematiche si sono compiute nel settore delle epidemie », per poi far notare senza falsa modestia di esser stato il primo ad applicare all’epidemiologia un ragionamento matematico a priori (cioè costruito a partire da equazioni inventate da lui e non dai dati statistici). Dopo aver ricordato educatamente l'« eccellente » lavoro di Brownlee, lo critica e ne rigetta l’idea della perdita progressiva di infettività. Finalmente arriva a esporre la sua proposta, sostenuta dall’analisi matematica. Secondo Ross, le epidemie rallentano solo quando, e a causa del fatto che, la densità di individui suscettibili all’interno della popolazione scende sotto una certa soglia. Guardate, dice, le mie equazioni differenziali si adattano bene ai dati empirici raccolti dal dottor Brownlee. Postulare una «perdita di infettività» non è necessario per spiegare il precipitoso declino dei contagi, che si tratti di colera, influenza, peste o qualche altra malattia. E' sufficiente che gli individui suscettibili diventino minori di un certo numero e voilà, ci sono sempre meno malati e il peggio è passato.

L’approccio a priori di Ross avrebbe potuto rivelarsi pernicioso, in un momento in cui gli studi sulla malaria erano ancora agli inizi, e il suo atteggiamento pareva un po’ troppo arrogante, ma il suo lavoro si dimostrò utile. Le sue intuizioni sul numero dei suscettibili hanno superato l’esame della storia, sono passate indenni attraverso decenni di lavoro teorico sulla diffusione delle malattie infettive e oggi sono alla base dei moderni modelli matematici. Anche su un altro punto aveva ragione: la difficoltà di sradicare la malaria « una volta per sempre ». Anche se le campagne di controllo da lui proposte hanno dato buoni frutti in certe zone (Panama, Mauritius), in altre hanno portato a poco o nulla (Sierra Leone, India) o a successi transitori. Con tutte le sue onorificenze, il suo genio matematico, la sua combattiva ambizione e la sua ossessiva capacità di lavoro, Ronald Ross non riuscì a sconfiggere la malaria, né a progettare una strategia che conducesse alla vittoria finale. Forse avrebbe dovuto capire da solo il perché: la malaria è una malattia davvero complessa, con profonde implicazioni sociali ed economiche, oltre che ecologiche, dunque presenta problemi che un’equazione differenziale a volte non è in grado di cogliere.

Data di Pubblicazione: 14 maggio 2020

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