SAGGI E RACCONTI   |   Tempo di Lettura: 8 min

La scuola che abbraccia e fa crescere

Scopri la scuola che accoglie

Scopri la storia di un'alunna più bisognosa degli altri di un'insegnante pronta ad accoglierla leggendo l'anteprima del libro di Lucia Suriano.

Il corridoio

Il corridoio è un luogo di passaggio per raggiungere stanze, aule, ingressi, uscite d’emergenza; il corridoio per molti è un luogo dove è vietato transitare ma necessario per spostarsi. I corridoi svolgono la stessa funzione che nelle città svolgono le strade ed ecco che la metafora si presenta: il corridoio vissuto come la strada.

Il corridoio è un luogo di mezzo, un non-luogo, perché in esso non sono previste attività eppure è il luogo degli incontri, dei cambi d'ora, dei sorrisi, della corsa verso l’uscita e dell’agonizzante camminata verso l’aula in quei mattini in cui avresti solo voglia di tornare a dormire.

È la terra di mezzo nella quale tutti si incontrano, alunni, insegnanti, collaboratori, dirigenti e applicati di segreteria. Il corridoio, però, resta il luogo nel quale il silenzio non può e non deve essere violato, perché le aule sono tutte lì che vi si affacciano, il corridoio è il sacro luogo non-luogo, che diventa scenario mercatale almeno due volte al dì: ore 8 e ore 13. Ogni sessanta minuti, nel lasso di tempo che intercorre tra le 8 e le 13, si rianima per i cambi d’ora ed è in quei momenti che può capitare di vedere varcare la soglia delle aule i più coraggiosi, che osservano il cambio di staffetta tra un prof, e l’altro o semplicemente cercano di incrociare la propria vita con amici di altre classi.

Per me e per i miei alunni il corridoio è sì tutto questo ma è anche molto di più.

Quando inizia un nuovo anno scolastico la consuetudine vuole che il dipartimento di sostegno studi i nuovi “casi in entrata”, prima di conoscere le persone. Si fa così, una prassi che non è sempre condivisibile, si studiano i casi nuovi arrivati e si mette tutto in condivisione, nel massimo rispetto della privacy.

Ogni nuovo insegnante non sa ancora chi sarà il suo alunno, prende nota in generale, chiunque gli potrà capitare poiché l’assegnazione avverrà nei giorni successivi a discrezione del dirigente e dei referenti di dipartimento sulla scorta di alcune possibili compatibilità intuite.

Leggiamo di una ragazzina con un lieve ritardo mentale e con disturbo affettivo-relazionale, leggiamo di lei e vedo i colleghi che lavorano da più tempo irrigidirsi, ma non ci faccio caso più di tanto; la ragazzina avrà un monte ore aumentato (fino a 13 ore settimanali) a causa dello svantaggio socio-culturale.

Dopo pochi giorni scopro di essere stata individuata come sua insegnante; non so perché e non so soprattutto chi mi ritroverò davanti, poiché i documenti parlano una lingua che ancora non mi appartiene tanto. Accolgo la decisione dei miei superiori senza nessuna perplessità, fino a che incrocio una collega in corridoio che mi dice: “Chi ti hanno affidato, Lucia?”, “Occhi Verdi” rispondo. Vedo la collega sobbalzare e portarsi la mano alla bocca - in segno di stupore forse?

Chiedo spiegazioni e mi viene detto: “Congratulazioni, ti hanno dato il filituro” (fìlituro nella nostra lingua apula è un tappo, un tappo di sughero, a indicare una bella fregatura, un caso difficile); non contenta, la collega, tra il divertito e il profondamente dispiaciuto, mi dice: “È la sorella dell’assassino”, e mi racconta la vicenda per cui è noto in città. È questione di un attimo: un brivido gelido mi percorre la colonna vertebrale e finalmente inizia a prendere forma la consapevolezza che non sarebbe stata una facile avventura e che soprattutto i miei sogni di sperimentarmi con il mondo della disabilità stereotipata iniziavano a sgretolarsi.

Il giorno dell’incontro con “Occhi Verdi” finalmente arriva. La ragazzina è seduta al suo banco, composta e solitaria. Entro in classe con il mio sorriso stampato e con il terrore, dentro di me, di cosa mi stesse aspettando. Incredibile quanto i condizionamenti esterni possano creare dentro di noi emozioni e presentimenti sterili, ma prepotentemente capaci di influenzare la realtà vissuta. Il tempo di sedermi di fronte a lei e di presentarmi che mi guarda fiera e senza il benché minimo tentennamento, in dialetto, mi dice: “Io sono Occhi Verdi, tu chi pensi di essere e cosa vuoi da me?”.

Il buongiorno si vede dal mattino. Io fingo di essere serena e mentre cerco di mettermi a mio agio sento un verso simile a un ululato provenire dal corridoio; la mia bella fanciulla scatta in piedi e va verso la porta, incurante di me e della collega curricolare, mi guarda, sorride e dice: “È mia cugina”.

Mi viene da ridere e scherzo dicendo: “Figlie de ‘La lupa’ di Verga, chi me lo doveva dire?”. La ragazza mi, anzi, ci sfida, uscendo dall’aula e dichiarando: “Voi non sapete chi sono io!”.

Inizia un inseguimento concitato nel corridoio, sulle scale tra i diversi piani della scuola, si susseguono urla, parole al vento e soprattutto inizio a prendere confidenza con alcune emozioni che forse non conoscevo così profondamente: l’ansia, la paura, il timore del giudizio altrui, la rabbia.

Un impeto mi viene dal profondo e anche io a un certo punto inveisco contro la ragazza intimandole di fare silenzio, ma non mi rendo conto che mi viene fuori nella mia lingua madre, nel dialetto della mia città di nascita. Improvviso cambio di scena. Occhi Verdi si blocca e mi dice: “Tu non sei del nostro paese”.

Uno strano inizio. Ma la forza delle origini mi salva e fa terminare le corse, le urla e pure la paura; torniamo in classe, come nulla fosse accaduto. La campanella sancisce la fine del primo giorno di scuola e l’inizio di un’avventura durata tre anni.

Agganciarsi

I giorni si susseguono, il clima non è sempre caldo, ci sono lunghi e talvolta inconciliabili silenzi, poiché due mondi totalmente distanti e sconosciuti sono stati messi insieme per un disegno superiore che non ti è dato di comprendere finché del disegno fai parte.

“Italiano, matematica, inglese, francese, grammatica, ma quante sono le materie e proprio tutte le dobbiamo fare, ma perché stiamo sempre rinchiusi in queste mura, cosa vi passa per la testa a voi professori di tenerci chiusi come in carcere, ma siete malati di mente?”

Gli occhi ogni tanto si perdono in chissà quale sogno di bambina e allo stesso tempo hanno sempre quel bagliore, quella scintilla che è pronta a esplodere. La vedo, la osservo e ne ho paura.

Sì, ho paura delle reazioni di una bimba di 11 anni che sicuramente ha il suo carico, il suo bel bagaglio di rabbia, paura e frustrazione. Ma io sono la prof., ho il comando della situazione, sono adulta e sono forte e sono una stimata e attrezzata insegnante (si dice in giro!).

“Facciamo così, Occhi Verdi, dividiamo il tempo che trascorriamo insieme in diversi momenti, facciamo attività in classe con i tuoi compagni, poi quando sei stanca magari usciamo un po’ nel corridoio o a fare due passi in giardino, poi ritorniamo in classe, facciamo altre attività e poi man mano ci diciamo sinceramente se abbiamo bisogno di qualcosa o di fermarci o uscire. Io sono qui per te, quindi cerchiamo di trovare il nostro modo di stare insieme.”

“Ok, ma io non sono qui per te e non ti voglio!”

Una mattina come tante, ci mettiamo a lavorare in classe, ma c’è troppa confusione. Occhi Verdi non riesce a concentrarsi, mi chiede di uscire e di andare in uno spazio in cui poter lavorare in tranquillità; l’accontento e ci spostiamo.

Riprendiamo a lavorare, e io, per farle comprendere meglio un significato, prendo il mio telefono e inizio a cercare una foto, lei mi guarda attenta, scruta e sbircia... poi velocemente, tutto d’un fiato:

“E chi sono queste bambine che hai sempre nelle foto del tuo telefono?”

“Sono le mie figlie.”

“Le tue figlie? Sei sposata?”

“Sì sono sposata e ho tre figlie.”

Mi guarda tra il sorpreso e l’ammirato e mi dice: “Non ci credo!”.

Così riapro la galleria del mio smartphone e la scorro con lei, presentandole le mie bambine. Dopo qualche secondo mi chiede di soffermarci sulla piccola che allora aveva meno di un anno. La vedo incantarsi, e le chiedo:

“Ti piacciono i bambini?”

“Sì, sono bellissimi. Un giorno me le fai conoscere? Ti fanno arrabbiare? E la piccola dorme di notte? E tuo marito ti aiuta? E Adriana con chi sta ora, mentre tu stai con me a scuola?”

E giù una caterva di domande curiose, sensibili e dolcissime.

“Sì, certo che te le faccio conoscere - rispondo - ma non posso fartele conoscere qui, anche loro vanno a scuola di mattina.”

“No, di pomeriggio, di pomeriggio puoi venire a trovarmi dalle suore; io dopo la scuola non vado a casa, pranzo dalle suore e ci resto fino alle sei. Fino alle sei, hai capito, poi mi riportano a casa.”

“Ho capito, il pomeriggio sei al centro, ma io non so se posso venire.”

“Chiedilo alla suora che mi viene a prendere all’uscita; puoi venire, io sto lì tutti i giorni, lo ha detto il tribunale che devo stare lì.”

Gli occhi si incupiscono, si rompe l’incanto e scappa via.

Data di Pubblicazione: 11 marzo 2020

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