SELF-HELP E PSICOLOGIA   |   Tempo di Lettura: 10 min

La via verso la gioia incondizionata

La via per liberarci dalla sofferenza

Scopri come giungere alla liberazione dalla sofferenza, alla gioia incondizionata e alla gioia dell’essere leggendo l'anteprima del libro di Mauro Scardovelli.

La via per liberarci dalla sofferenza

Qual è l’essenza del cammino verso il pieno sviluppo della persona umana, indicato in Costituzione? La risposta è molto semplice: occorre ricontattare le nostre primigenie ferite d’amore e risanarle.

Queste ferite sono all’origine della sofferenza, più o meno nascosta o consapevole, che risiede all’interno di ciascuno di noi e che abbiamo cercato di superare attraverso meccanismi di difesa, messi in atto nella prima infanzia, assumendo determinate decisioni e convinzioni che, se non modificate, condizionano il resto della nostra esistenza, senza nemmeno rendercene conto.

Questo è ciò che si chiama copione di vita, ovvero la tendenza a ripetere all’infinito gli stessi comportamenti e le stesse situazioni.

Da adulti, crediamo di dirigere la nostra esistenza. Ma non è così. Non è il nostro Io adulto che decide nelle nostre scelte importanti, ma il nostro inconscio. L’Io-conscio (Io-ragione) è come la mosca che crede di guidare l’elefante.

Centocinquant’anni di psicologia del profondo ci insegnano questo.

Certo, possiamo ignorare le prove incontrovertibili portate dalla psicologia del profondo, ma non è un’idea sensata, anche se è estremamente diffusa dato che pensare in modo convenzionale è più comodo e rassicurante.

Se continuiamo ad assecondare il pensiero convenzionale, nessuna rivoluzione sarà possibile. Noi continueremo a non decidere, e altri lo faranno al nostro posto. Primi fra tutti i nostri peggiori nemici. A essi inconsapevolmente apriamo la porta, sbarrandola alle forze spirituali che abitano dentro e fuori di noi.

Delle forze spirituali non ci fidiamo.

Non ci fidiamo delle forze spirituali e riponiamo la nostra fede nei demoni che vogliono il nostro male.

L'imprinting emozionale

Come mai ci affidiamo ai demoni, che vogliono il nostro male? Perché non ci affidiamo naturalmente a Dio, che vuole il nostro bene?

In realtà noi veniamo al mondo vibranti di amore per Dio. Da piccoli, soprattutto nei primi tre mesi, Dio è nostra madre e noi dipendiamo totalmente dal suo amore. Amati da Dio, al centro della sua attenzione, ci sentiamo anche noi come Dio, pienamente appagati.

Prima o poi, però, arriva il tradimento: la distrazione, l’abbandono, l’esclusione. Basta un attimo di inquietudine, di irritazione, di rabbia, e nostra madre si trasforma ai nostri occhi in una strega.

Il tradimento ci segna irrimediabilmente. Usciamo dal paradiso e assaggiamo l’inferno della sofferenza. Facciamo l’esperienza dell’incarnazione su questa terra: eravamo uno con Dio, e per un attimo, più o meno lungo, più o meno spesso ripetuto, ci sentiamo soli, separati, abbandonati, disperati.

Dalla lunghezza e dalla ripetizione di questi momenti dipende il primo imprinting emozionale, la traccia più profonda del nostro futuro copione.

Se nostra madre, risonante con noi, si accorge della nostra sofferenza e la ripara appena possibile, con un supplemento di attenzione e cura, l'imprinting emozionale è fondamentalmente benevolo. Se invece, troppo distratta da traumi interni non risolti, è incapace di sufficiente risonanza per riparare in tempo le nostre ferite d’amore, il nostro imprinting emozionale è negativo o devastante e può predisporci a un copione difficile o tragico.

Mi fermo qui. È ovvio che le cose sono infinitamente più complesse e articolate, ma quanto detto sopra è sufficiente a dare un’idea della delicatezza del nostro equilibrio mentale. Di come basti veramente poco, soprattutto da bambini molto piccoli, per mettere in seria difficoltà il nostro bene più prezioso: la libertà del pensiero dai condizionamenti. Un bene dal quale dipendono tutti gli altri beni.

Dall'amore frustrato al pensiero unico

Crescendo, diventando adulti, non ci liberiamo affatto dai condizionamenti del pensiero originati da una primigenia sofferenza emotiva. Una sofferenza d’amore. Un amore tradito, ingiustamente tradito.

L’amore genuino dell’infante richiede la reciprocità della madre, del padre e delle figure di attaccamento. Quando la reciprocità si interrompe, si compie un atto di ingiustizia. Se non ricambiato, se non visto, riconosciuto, apprezzato, valorizzato, sostenuto, il bimbo si richiude in se stesso. La sua energia vitale espansiva implode, si ritira dal mondo. Si apre la strada al vissuto depressivo dell’indegnità, del senso di colpa, della disistima di sé.

Dopo breve tempo, una parte dell’energia vitale imbocca un’altra strada: quella del vissuto narcisistico, della rabbia, del risentimento, del desiderio di punizione.

Con gli anni, si crea un’altra struttura: la maschera, il falso Io, che calcola costi e benefìci modulando, a seconda delle persone e dei contesti, il senso di colpa depressivo e il risentimento aggressivo e punitivo.

La struttura depressiva, quella narcisistica e quella della maschera sono tutte strutture difensive: oscure, egoiche, patologiche, impediscono il contatto con la luce dell’Anima.

Il pensiero che mantiene le sue radici in queste strutture si fa oscuro, complicato, distruttivo, demoniaco. In termini clinici, si fa paranoide, ossessivo, narcisista, fobico, depressivo, a seconda del carattere dei traumi subiti.

L’amore, frustrato e negato, impedisce il sorgere del pensiero libero, creativo, generativo. La risorsa spirituale che fa di noi “esseri divini”.

Dall’amore frustrato e tradito nasce il pensiero oggi dominante: il pensiero unico che prende corpo nella forma storica detta neoliberismo.

Una volta compreso questo, lasciamo perdere le analisi intellettualistiche che, non considerando la causa originaria dei problemi, si occupano solo di sintomi e si traducono in vane chiacchiere.

Per risalire alla luce, seguiamo invece gli insegnamenti dei grandi maestri, come il Buddha e il Cristo.

La “nuova ragione” neoliberista

Secondo Buddha, il risvegliato, la causa della sofferenza è l’ignoranza. Nei nostri termini, ignoranza della verità che tutto è uno, da cui derivano “attaccamento” e “avversione” che ci allontanano dal fiume della vita, dal qui e ora, sempre mutevole e imprevedibile, e ci relegano nella pozza della nevrosi che avvelena la nostra esistenza.

Ecco un esempio assai comune: se muore una persona a me molto cara, è naturale che provi sofferenza. Una sofferenza reale, non nevrotica, che ha un inizio e una fine. Ma se, anziché accettare l’evento della morte, provo rabbia, avversione nei confronti di ciò che è accaduto, «non è giusto, non doveva succedere, perché proprio a me?», da quel momento precipito nella pozza della nevrosi, della sofferenza non necessaria o evitabile.

In altre parole, la sofferenza naturale dura poco. Il fatto di accettarla mi rende più gentile, empatico e compassionevole, con me stesso e con gli altri, più in grado di comprendere la sofferenza mia e altrui. Mi addolcisce e mi fa sentire parte di una comunità con la quale condivido il senso di precarietà e fragilità. In tal modo cresce il mio senso di unità.

In ogni momento nella nostra vita può irrompere una disgrazia, ma questa ha un impatto molto diverso se mi sento solo, unico destinatario di un evento negativo, o se invece mi sento parte di una comunità pronta a sostenere le persone nei momenti diffìcili dell’esistenza.

Al contrario, la sofferenza nevrotica acutizza il senso di separazione e isolamento. Accresce l’idea che ognuno è solo sulla terra, e può contare unicamente su se stesso. Ognuno per sé, nell’altrui indifferenza in un mondo spietato, grigio, arido, ove le ferite d’amore non vengono risanate, ma aggravate.

E il mondo della “nuova ragione” neoliberista. E il mondo delle passioni tristi.

L’ottuplice sentiero

Tornando al Buddha, è possibile superare l’ignoranza e liberarci dalla sofferenza? Sì, c’è un modo, un metodo che il Buddha ha insegnato: l’ottuplice sentiero.

Otto passi, otto concetti, tra loro strettamente correlati. Eccoli:

  • retta attenzione, retta concentrazione, retta visione;
  • retto pensiero, retta parola, retta azione;
  • retti mezzi di sostentamento, retto sforzo.

La retta attenzione significa portare attenzione prevalente a ciò che favorisce la fine della sofferenza. Ad esempio, portare attenzione alle qualità dell’amore di una persona, ovvero alla sua Anima, piuttosto che ai suoi inquinanti, ovvero al suo Ego. Questa pratica favorisce relazioni felici piuttosto che infelici.

Sulla stessa linea, la retta concentrazione significa concentrarsi su ciò che ci fa star bene, piuttosto che male. Ad esempio, concentrarsi sui momenti positivi della propria vita, invece che su quelli negativi.

In modo analogo, la retta visione è la visione d’insieme che naturalmente emerge ove ci si attenga ai primi due punti. Una visione d’insieme che fornisce conforto, anziché sconforto, e consente il passaggio ai punti successivi.

Il retto pensiero è il pensiero che si nutre di retta visione, e naturalmente di retta attenzione e retta concentrazione. Ne deriva che la retta attenzione, seguita dalla retta concentrazione, è il primo passo indispensabile per raggiungere il retto pensiero. Senza retta attenzione e retta concentrazione, il nostro pensiero è volatile e dispersivo. Senza retto pensiero non è possibile il controllo della mente. Controllo che è sinonimo della disciplina Yoga, il cui fine è sperimentare il senso di unità a tutti i livelli del nostro essere. Unità che porta alla liberazione dall’ignoranza, al risveglio. E alla fine della sofferenza.

In conformità con il retto pensiero, scaturiscono la retta parola e la retta azione. Il pensiero è linguaggio. Il retto pensiero è retta parola interiore, che si traduce in retta parola pronunciata all’esterno, che è già una forma di retta azione.

Gli ultimi due passi sono: retti mezzi di sussistenza, ovvero retta economia. Un’economia che non prevede sfruttamento e non genera sofferenza. Concetto ripreso da Gandhi con il termine Sarvodaya, cioè economia al servizio di tutti32; e retto sforzo, ovvero lo sforzo del praticante necessario a realizzare la liberazione dall’ignoranza e dalla sofferenza.

Fermiamoci qua. Ho solo fornito un’idea sintetica di ciò che si intende per ottuplice sentiero. Idea già sufficiente ad aprire un confronto con la via del Cristo.

Gesù, Buddha e il pensiero

Ma in che modo i concetti dell’ottuplice sentiero del Buddha sono connessi agli insegnamenti del Cristo?

Gesù non parte dal pensiero-ragione, ma dall’amore-azione, che è in primo luogo un sentimento, un’emozione: «Amatevi l’un l’altro come io vi ho amati»; «Ama il prossimo tuo come te stesso».

A noi Gesù non chiede «sacrifìci», come era nell’Antico Testamento, ma «misericordia». Misericordia significa amore, cura, a partire dai miseri, dagli ultimi, dai più deboli. Anche l’amore ha una sua gerarchia, ma è rovesciata: «Beati gli ultimi perché saranno i primi».

L’amore, però, non è possibile senza retto pensiero o retta ragione. Retto pensiero e retta ragione che presuppongono l’assenza di giudizio malevolo, come dice Gesù: «Non giudicate, per non essere giudicati». Interrogato su quante volte dobbiamo perdonare, risponde: «Settanta volte sette», che significa sempre.

«Io sono la verità. Io sono la via. Io sono la vita» ha detto Gesù. La Verità è la comprensione dell’unità del tutto, che è anche la comprensione del mistero della Vita. La via indicata da Gesù è la via dell’amore. La via insegnata dal Buddha parte dalla pulizia del pensiero. Entrambe sono vie iniziatiche che giungono alla liberazione dalla sofferenza e alla gioia incondizionata, o gioia dell’essere.

Data di Pubblicazione: 16 febbraio 2021

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