Scopri come cogliere il cuore pulsante comune a tutte le tradizioni spirituali dell’estasi leggendo l'anteprima del libro si Selene Calloni Williams.
Lo yogin: tutta la vita è yoga
Lo yoga è l’atto dell’affermazione della libertà e dell’immortalità a mezzo della vittoria dell’amore sulla paura. La libertà è la libertà dai valori mondani, la capacità di andare al di là del bene e del male e di riunificare tutti gli opposti. Questo stato - che è la condizione in cui tutto è puro per i puri, omnia munda mundis - ristabilisce l’equilibrio primevo, l’ordine universale, sciogliendo la colpa e la paura. Chi non ha paura non serra le porte dei propri sensi, non si rintana nel proprio Io, non si chiude alla visione sottile, non contrae i canali percettivi; allora vede il visibile e l’invisibile e conosce la vera natura di tutte le cose: egli è incessantemente consapevole nel ciclo vita-morte-vita e non cade nella fossa dell’inconsapevolezza attraversando la grande soglia, rimane vigile e attento e sempre memore di sé. Questa condizione non è mai permanente quando si possiede un corpo umano, ma è acquisibile attraverso l’estasi.
Il termine yoga viene riferito alla radice sanscrita yuj, che significa “unire”, “aggiogare”. Infatti nei Veda si trovano termini correlati alla radice yuj e fanno riferimento all’atto del dominare i propri sensi e la propria mente al fine di utilizzarla come uno strumento del cammino di liberazione, anziché essere schiavi del condizionamento esercitato dal mondo attraverso i sensi. Nelle Upanisad vediche, in particolare nella Maitri Upanisad, VI. 18, lo yoga viene descritto come un sentiero speculativo che permette di “vedere” l’invisibile e di riunificare dunque i due universi: umano e divino.
"...allorché un veggente vede l’Aureo, il Fattore, il Signore, lo Spirito, il Brahman, la Matrice, allora egli sa, avendo abbandonato il bene e il male, realizza la onniunità nel Supremo inalterabile” (Maitri Upanisad, VI. 18, traduzione di Pio Filippani Ronconi, in Upanisad antiche e medie, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 406).
Anche nella Bhagavad Gita lo yoga non è presente come una tecnica psicofisica o una filosofia strutturata, bensì come atto di ampliamento della visione e del cuore e unificazione con il divino.
Ciò porta a considerare che quello che comunemente viene definito come “yoga”, e cioè un insieme di tecniche psicofisiche a carattere ginnico, ben poco ha a che vedere con lo yoga antico e tradizionale.
Lo yoga protostorico è sciamanico
In quanto atto di visione dell’Assoluto, esso esprime lo stato dell’estasi sciamanica. Inoltre, “Considerate le origini protostoriche dello yoga classico non è però affatto da escludersi l’esistenza di forme intermedie di yoga sciamanico” (Mircea Eliade).
Tuttavia, Eliade distingue tra estasi sciamanica ed enstasi (termine che conia egli stesso) yogica: “Devesi sottolineare la differenza strutturale esistente fra yoga classico e sciamanismo: benché anche il secondo conosca tecniche di concentrazione, pure il suo scopo finale resta sempre l’estasi e il viaggio estatico dell’anima nelle varie regioni cosmiche, mentre lo yoga persegue l'"enstasi", la concentrazione suprema dello spirito e l’evasione dal cosmos” (Mircea Eliade).
Questa ci appare una differenza di percorso, non di arrivo. Quando lo yoga si codifica in un tracciato di pratiche psicofisiche, etiche e filosofiche indica una via verso l’estasi che non è più immediata, come quella dello sciamano. La differenza fondamentale può essere nel fatto che, mentre lo sciamano è eletto, prescelto per l’estasi, lo yogin acquisisce la capacità di unirsi all’Assoluto mediante un percorso di concentrazione e ritiro dai mondi.
Questo può trovare conferma nel fatto che nello yoga sciamanico tibetano lo yogin, che nella fattispecie è altresì uno sciamano, non segue alcun percorso tracciato per entrare nell’unione con l’Assoluto. La sola consegna è abbandonarsi, cessare ogni sforzo, lasciare andare speranze e paure.
E ancora: “La vera natura della coscienza è chiarezza al di là delle immagini”. “La meta della via degli esseri risvegliati è conseguita senza una via da percorrere”. “Il sommo risveglio è conseguito senza qualcosa da praticare” (Tilopa, Il Grande Sigillo).
Lo yoga non è certo un fenomeno specifico di alcuna particolare tradizione hindu. Il medesimo termine sanscrito, con significato analogo, si trova anche in ambito buddhista, giainista e persino andino e islamico.
Si parla pertanto di uno yoga himalayano sciamanico e persino di uno yoga andino sciamanico che esprimono i temi della mistica sciamanica, dell’erotica sciamanica e della poetica sciamanica.
Per quanto riguarda l’Islam, invece, “con il diffondersi dell’Islam fra i turchi dell’Asia centrale certi elementi sciamanici furono assimilati dai mistici mussulmani” (Mircea Eliade, op. cit., p. 428). Il sufismo può essere considerato come una forma di yoga islamico. Esso ha tratti fortemente sciamanici poiché ricerca la trance estatica e, nell’estasi, l’unione con l’Assoluto.
In generale, lo sciamano è il portatore del ricordo dell’umanità del tempo delle origini, quando umano e divino, visibile e invisibile, vita e morte, individuo e cosmo erano distinti ma non separati e godevano l’estasi della loro unione. Non deve stupire, dunque, che lo sciamanismo sia stato assorbito da quei cammini spirituali che puntano al ritrovamento dello stato di non-dualità, primo fra tutti lo yoga.
Da sempre lo yoga è trasmesso in lignaggi iniziatici
Non si può pensare di praticare uno yoga senza essere stati iniziati da un maestro appartenente a un lignaggio.
Il lignaggio dello yoga sciamanico è certamente il più antico e riamane trasversale rispetto alle vie spirituali che perseguono la libertà e la riunificazione dell’umano al divino a mezzo di un’esperienza diretta.
Il lignaggio sciamanico dello yoga non è geograficamente né storiograficamente classificabile: a causa della sua primitività e trasversalità, si può trovare in India come in Siberia, nelle regioni himalayane o tra i sufi dello Yemen.
Personalmente ho iniziato il mio percorso grazie all’iniziazione di un maestro nell’isola di Sri Lanka e, successivamente, ho trascorso ampi periodi di tempo con i monaci eremiti birmani e dello Sri Lanka, con gli sciamani della Siberia e del Myanmar e ho visitato e trascorso periodi di tempo discretamente lunghi nei monasteri lamaisti del Bhutan, del Tibet, del Ladakh e del Nepal, ho celebrato il rituale cosiddetto della Chakra Puja a Guwahati in Assam con gli yogin esponenti del tantrismo sciamanico. Ho anche praticato rituali con sciamani andini, peruviani, messicani, argentini, esponenti, a loro stesso dire, dello yoga sciamanico andino.
Parlare di yoga sciamanico non è facile, anche se ci si è immersi nella materia per tutta una vita. In un mondo, quello dello sciamanismo, dove l’unica regola è non avere regole, i confini non esistono: sciamanico è ciò che in ogni cammino spirituale ha a che fare con l’estasi e quindi con il contatto diretto tra umano e divino e con il viaggio attraverso i mondi invisibili. Lo yoga sciamanico è ora hindu, ora buddhista, ora islamico, ora indoeuropeo.
Il sapere, nel mondo attuale, è sempre più specialistico e i campi della conoscenza sono sempre più settoriali.
Spaziare da oriente a occidente
Un libro sullo yoga sciamanico deve poter spaziare da oriente a occidente, come uno sciamano deve poter viaggiare di mondo in mondo per cogliere ed evidenziare quel cuore pulsante comune a tutte le tradizioni spirituali dell’estasi. Io stessa ho viaggiato per trent’anni e credo di aver conosciuto solo una piccola parte delle espressioni di quel fenomeno antico e universale che è lo yoga sciamanico. Devo dire però una cosa, ovunque arrivassi, qualunque sciamano e yogin incontrassi (da Sheikh Sadiq in Yemen, da Kazimir e Svetlana in Aitai, dai lama e dai tulku del Bhutan, da Wai Lan Lan in Birmania, da Kuntur in Argentina, da Tonatiuh Mecika in Messico, da Michael Williams in Sri Lanka), c’era sempre un riconoscersi immediato. Solo questo basterebbe a comprendere che la conoscenza sciamanica avviene ad altri livelli rispetto a quelli cognitivi comunemente noti.
Forse è questo anche il momento di chiedersi se e quanto il mito e la cultura greca abbiano avuto influenze sciamaniche.
“E.R. Dodds”, come riportato da Mircea Eliade, “ha riconosciuto una parte importante allo sciamanismo sciita nella storia della spiritualità greca” (Mircea Eliade). Oggi, sempre più studiosi condividono il pensiero di Dodds.
Gli sciiti furono una popolazione nomade d’origine iranica. La loro comparsa avvenne tra l’Vili e il VII secolo a.C.
Il loro nome deriva dalle tante modifiche fatte all’antico termine indoeuropeo skeud, in altre parole “arciere”, dal loro grande talento con arco e freccia.
La Scizia si estendeva originariamente dal mar Caspio ai monti Urali, fino alle steppe del Kazakistan. Col passare degli anni, gli sciiti si spinsero fino in Cina e in Grecia.
La loro presenza si fece sentire soprattutto nell’attuale Russia, diventando poi i dominatori anche dell’attuale Siberia.
I greci incontrarono gli sciiti del Ponto a partire dal VII secolo a.C. nel corso della loro colonizzazione del Mar Nero. Erodoto, che scrisse le sue Storie attorno al 500 a.C., descrisse ampiamente la storia e i costumi di queste popolazioni sciite, comprese le loro tecniche sciamaniche dell’estasi. Da dove gli sciiti avessero preso la religione sciamanica che li contraddistingueva rimane una domanda aperta, ma di certo i greci dovettero sentire l’influenza di questo popolo ed essere impressionati dai loro miti, dai loro racconti sciamanici. Forse l’orfismo e il pitagorismo - che sono stati considerati alla stregua di uno sciamanismo greco - hanno ricevuto linfa immaginativa dalle storie e dalle immagini catturate dai greci presso gli sciiti.
Data di Pubblicazione: 14 settembre 2020