Scopri cause e soluzioni al Long Covid, ossia il prolungarsi dei sintomi da Covid-19 dopo la "guarigione", leggendo l'anteprima del libro di Andrea Grieco.
Long Covid, il Covid cronico
Long Covid, in italiano potremmo chiamarlo “Covid cronico”. E uno strascico di Covid-19, che interessa un numero smisuratamente crescente di persone in tutto il mondo. La possiamo definire una guarigione non-guarigione. Si guarisce dai sintomi più acuti, ma molti permangono, o se ne aggiungono di nuovi, talvolta più evidenti, talvolta più sfumati: questo scenario viene appellato “Long Covid”. Nel momento in cui il tampone molecolare si è negadvizzato, ma il paziente continua a “star male”, l’etichetta che si assegna passa da Covid-19 a Long Covid.
Nella letteratura medica internazionale viene considerata una condizione multifattoriale che richiede un approccio multidisciplinare (o interdisciplinare), interessando più esperti di salute. Questa idea che in una situazione multi-sintomatica occorra un esercito di “esperti”, come i dotti medici sapienti al capezzale di Pinocchio, è legata al fatto che, nell’approccio tradizionale, quando si hanno sintomi che coinvolgono vari organi ed apparati, occorre l’esperto di ogni organo ed apparato. In realtà, ne basterebbe uno di medico, se cambia però il livello del ragionamento attuale applicato all’analisi di questa sindrome.
Prima, seconda, terza ondata sono termini che abbiamo imparato purtroppo a conoscere. Sono stati utilizzati per descrivere in questi mesi la periodica ripresa della diffusione del coronavirus nella popolazione.
Ad un certo tratto di questo complesso percorso, si è affiancata una ulteriore “ondata”: quella di persone che, pur “guarite” dal Covid-19, continuano a star male. Si tratta di un insieme di sintomi, che vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo, e che persistono per mesi e forse anni, ben oltre la dichiarata guarigione da Covid.
La gravità dei sintomi da Long Covid non è correlata alla gravità del Covid-19 del quale si sia sofferto, e può coinvolgere anche gli asintomatici.
Molti “guariti” continuano a lamentare tanti disturbi estremamente diversi tra loro, ad un punto tale che la Medicina sembra incapace di trovare una risposta efficace. Diciamo con estrema chiarezza che la chiave interpretativa della sindrome da Long Covid può essere solo nel capire lo stato reale di salute di quella persona prima di ammalarsi di Covid-19. Il Long Covid è in realtà un prolungamento di alterazioni che pre-esistevano al Covid e che poi continuano ad accompagnare il paziente, in forma magari più intensa. Se ci si ferma solo ad analizzare singolarmente la sequela, spesso interminabile, di sintomi lamentati da chi soffre di Long Covid, non si arriverà mai ad una spiegazione utile alla persona, e ci si dovrà limitare ad interventi settoriali e sintomatici su qualche singolo disturbo.
Facciamo un esempio. Se ad un paziente permane l’assenza dell’olfatto (anosmia), il suo vero problema non è l’assenza dell’olfatto e basta. È il terreno biologico disfunzionale che ha “permesso” ai nervi olfattivi di soffrire di un attacco citochinico innescato dal virus. Se la guaina mielinica di un nervo soffre per infiammazione indotta dall’attività difensiva del sistema immunitario, il nervo stesso diventerà incapace di svolgere la sua funzione di trasmissione degli impulsi elettrici. Nel caso dell’anosmia, se i recettori olfattivi o il nervo olfattivo sono “infiammati”, l’impulso elettrico non arriverà alla corteccia olfattiva (laddove noi diventiamo consapevoli degli odori).
Ci potrebbe essere anche una componente più bioelettrica: l’interno del nervo stesso è come un fascio fatto di tre filamenti, corrispondenti alle tre componenti, motoria, sensitiva e neurovegetativa. Se si crea un cortocircuito di impulsi elettrici, questo mantiene il nervo in stato di forte sovraeccitazione e in grave deficit dal punto di vista della sua funzione.
Sono questioni complesse che esulano dalla natura del libro, ma che ho voluto accennare per rinforzare un concetto: ogni disturbo non è a sé... si deve collocare dentro uno scenario più ampio che riguarda tutto il terreno biologico del nostro organismo.
Il quadro sintomatico che si presenta nel Long Covid è molto simile alle sindromi post-infettive, o anche alla sindrome fibromialgica (o Fibromialgia).
Già nel mio libro Fibromialgia, finalmente buone notizie ho spiegato che una malattia virale può rappresentare un fattore causale di una apparente prima comparsa di questa sindrome o di un aggravamento di una Fibromialgia pre-esistente. Uso il termine “apparente prima comparsa” perché quello che cambia è l’intensità dei sintomi, e di conseguenza la consapevolezza o meno di essere fibromialgici già da tempo.
Vediamo adesso i fattori di rischio che condizionano una maggiore gravità del Covid-19, considerando che di fatto rappresentano i fattori di rischio anche di una maggiore espressività del Long Covid.
Fattori di rischio per gravità del Covid-19 (e del Long Covid)
Su 100 persone che entrano in contatto con SARS-CoV-2 solo circa 15/20 sono a rischio di complicanze più gravi.
Le forme più impegnative si esprimono con febbre, stanchezza, dispnea (difficoltà di respiro), fino alla polmonite interstiziale che di solito è bilaterale e che porta ad un quadro clinico chiamato Acute Respiratory Distress Syndrome (ARDS) con prognosi spesso infausta. Fra le complicanze gravi si annoverano la CID (Coagulazione Intravasale Disseminata) e le aritmie cardiache gravi, fatali.
Sovrappeso e obesità
Il sovrappeso ed ancor più l’obesità sono fattori di rischio per tutte le malattie cronico-degenerative. Sono due condizioni in cui si ha il binomio inseparabile iperglicemia cronica-iperinsulinemia cronica. Barry Popkins, ricercatore americano in nutrizione e obesità della North Carolina University, dopo una meta-analisi di decine di studi su pazienti ospedalizzati per Covid-19 è giunto alla conclusione che il grasso viscerale è il fattore di rischio principale di morbilità e mortalità da Covid-19. Gli studi di Popkins hanno evidenziato che la preesistente presenza di sovrappeso o obesità, entrambe ricollegate a iperglicemia/iperinsulinemia:
- fa aumentare il rischio di contrarre il virus (per maggior facilità al suo ingresso nelle cellule grazie all’iperglicemia)
- fa aumentare il rischio di essere ospedalizzati (per una massiccia viremia secondaria con diffusione sistemica, multiorgano, dell’infezione, favorite dall’iperglicemia)
- fa aumentare il rischio di ricovero in terapia intensiva per gli effetti pro-virus dell’iperglicemia cronica
- fa aumentare il rischio di essere intubati per il sostegno della funzione respiratoria
- fa aumentare il rischio di morire
L’obesità può portare anche ad insufficienza respiratoria per alterazione delle dinamiche meccaniche respiratorie, riduzione dell’attività dei muscoli respiratori, con deficit ventilatorio e quindi dispnea (fatica a respirare).
Ma la vera natura della vulnerabilità di chi è obeso sta nella presenza di infiammazione cronica di cui l’obesità è allo stesso tempo espressione e causa, in una sorta di loop dannoso per la salute:
- dall’iperglicemia / iperinsulinemia si va verso il grasso viscerale
- dal grasso viscerale si va verso l’infiammazione cronica
- dall’infiammazione cronica si va verso la resistenza insulinica
- dalla resistenza insulinica si va verso l’iperglicemia / iperinsulinemia, e così via
Età
I giovani si ammalano meno. Più il sistema immunitario invecchia, più cresce la difficoltà a difendersi da nuovi patogeni. L’età media dei pazienti deceduti e positivi a SARS-CoV-2 è intorno agli 80 anni, più alta di oltre 35 anni rispetto a l’età media di coloro che hanno contratto l’infezione.
La spiegazione è data dal fatto che le cellule immunitarie senescenti rispondono peggio a stimoli antigenici, sono iperattive ma meno efficienti nella loro risposta immunitaria.
Una situazione questa che rientra nell'inflammaging, un mix di senescenza immunitaria e risposta infiammatoria “sterile”, inefficace e pertanto dannosa, che vedremo più avanti nel libro.
Comorbilità (preesistenza di patologie diverse)
Sin dalle prime fasi della pandemia, l’OMS ha segnalato che soggetti già affetti da malattie, ed in particolare da malattie cronico-degenerative, sono più a rischio sia di ammalarsi di Covid-19 che di complicanze gravi. Chi ha malattie preesistenti ha un più elevato tasso di mortalità per complicanze trombotiche e vascolari infiammatorie, a causa di apparati cardiaco, respiratorio e vascolari già compromessi. Secondo alcuni studi una diagnosi di diabete preesistente si associa a una possibilità doppia quanto a gravità e mortalità in corso di Covid-19. Ricollego questa osservazione alla più alta incidenza di infiammazione cronica, iperglicemia cronica e iperinsulinemia cronica presente in tutte le malattie più diffuse.
Sesso
Il rischio di mortalità degli uomini è il doppio di quella delle donne. La spiegazione probabile è legata alla diversa espressione del sistema immunitario: le donne hanno una maggiore espressione (=attività) dell'immunità Th1, che difende da infezioni virali e tumori. L’iperattività Th1 ha come contrappasso una minore efficienza Th2, che espone le donne ad un maggior rischio di malattie autoimmuni. Proprio per questo il rapporto si ribalta tra coloro che si ammalano di Long Covid, e lo vedremo più avanti.
La risposta immunitaria maschile vede più attiva l’immunità innata, che comporta un maggior rischio di infiammazione fuori regola. La spiegazione di queste differenze è legata alla presenza nella donna di una doppia coppia di cromosomi sessuali X. Nell’uomo di cromosoma X c’è una sola coppia. Il cromosoma X ha circa 1200 geni, di cui una parte importante codifica per proteine del sistema immunitario. Quindi le donne si “difendono” meglio.
Condizione sociale
Le classi meno abbienti pagano un prezzo più elevato in ogni pandemia. Si possono evocare le condizioni igienico-sanitarie più precarie, la minore disponibilità di cure e servizi sanitari e il sovraffollamento nelle abitazioni (densità di popolazione più elevata). È documentato che nelle classi sociali più disagiate esiste un livello infiammatorio sistemico più elevato. Questo è aggravato probabilmente anche dal maggior consumo di alimenti amidacei o iperglicidici, che sono i più disponibili per il loro basso costo da parte delle classi meno abbienti.
Inquinamento ambientale
Vari studi hanno evidenziato che dove vi è più inquinamento risulta una maggiore gravità della pandemia. PM10 e PM2,5 (particelle sottili) sono fra gli inquinanti più chiamati in causa.
Questa risultante sembra legata non tanto alla ipotesi dell’inquinamento come vettore del virus, quanto al fatto che le particelle depositandosi nell’epitelio degli alveoli polmonari inducano una reazione infiammatoria, che predispone a successivi eccessi di infiammazione se l’incontro con un virus attiva una iper-risposta immunitaria.
Ospedalizzazione
Nei casi più gravi di Covid-19 il ricovero in terapia intensiva è fondamentale per salvare la vita, ma l’ospedale rimane un luogo dove la risposta immunitaria tende a peggiorare. In ospedale aumenta enormemente lo stress del malato (ancor di più per le condizioni di isolamento imposte dalla infettività). Un dato drammatico: nella fase acuta del contagio in alcuni casi la mortalità è arrivata al 40% degli ospedalizzati.
A leggere questo dato si può essere legittimati a temere che il ricovero ospedaliero si sia trasformato in un fattore di rischio. Un tale dato di mortalità può far scaturire la domanda se forse qualcosa non ha funzionato al meglio.
Secondo la mia valutazione su questo dato dovrebbe essere maggiormente considerata l’ipotesi avanzata da alcuni studi secondo cui il coronavirus potrebbe essere agevolato dal glucosio ad entrare nelle cellule, moltiplicarsi e rendersi “invisibile” agli anticorpi. Alla luce di questa ipotesi sembra abbastanza logico ritenere che l’essere assoggettati al vitto ospedaliero, che prevede da protocollo 200-300 grammi di carboidrati al giorno in reparti di degenza o 200 grammi di carboidrati in reparti di rianimazione, metaforicamente possa aver offerto al virus “in un piatto d’argento” la possibilità di replicarsi e fargli fare più danni possibile.
Pertanto, a mio avviso, fare in modo di avere pochissimo glucosio nel sangue dei ricoverati, è probabile che possa rappresentare una azione veramente sgradita a questo virus.
Questa riflessione sembra supportata anche dagli ottimi risultati riportati da alcuni ospedali che hanno sperimentato la somministrazione di diete chetogeniche ai degenti di Covid-19.
La considerazione da fare è che stress e iperglicemia sono un binomio che riduce le possibilità di guarigione.
La questione inoltre è resa pertinente anche pensando al caso delle due specie animali di allevamento per le quali la diffusione del coronavirus è parsa inarrestabile, come per le oche in Francia e per i visoni in Danimarca, Olanda e Italia. La pratica alimentare in questi allevamenti è fortemente sbilanciata verso cibi iperglicidici, come pastoni di grano, soia e mais, anziché quelli che la Natura avrebbe destinato a questi animali.
Sono cibi che nutrono (male) l’animale, facendolo ingrassare velocemente, ma “nutrono” (bene) anche il virus, permettendogli un miglior ingresso nelle cellule dell’ospite. Le considerazioni critiche sull’alimentazione negli allevamenti meriterebbero poi una riflessione anche riguardo ad altri sistemi di allevamento come quelli dei pesci, polli, maiali, mucche, etc. anche per le conseguenze sulla nostra alimentazione, ma esula dallo scopo di queste pagine. Queste considerazioni sull’alimentazione possono provocare perplessità, ma procedendo nel libro il lettore ne potrà valutare le basi scientifiche, e trarre le sue conclusioni sulla drammaticità di quanto avvenuto.
Presenza di disturbi d'ansia, depressione, psicosi
Avere disturbi psichiatrici vuol dire avere un livello di infiammazione più elevato ed essere più esposti alle conseguenze dello stress cronico. Infiammazione e stress sono fattori di rischio.
Secondo i dati dedotti da uno studio della Università di Oxford le persone con una diagnosi psichiatrica preesistente hanno il 65% di probabilità in più di contrarre il Covid-19. A questa considerazione dobbiamo aggiungere la costatazione del numero crescente di persone che dopo il Covid continuano a soffrire di stati d’ansia, di attacchi di panico, di depressione, di disturbi del sonno, di alterazioni cognitive fino a disturbi che fanno porre diagnosi di incipiente demenza.
Se c’è una relazione bidirezionale tra disturbi psichici e Covid, a cosa si deve? La chiave sta nella PNEI (Psiconeuroendocrinoimmunologia) e nell’infiammazione cronica. La PNEI ci spiega come lo stato mentale influenzi l’attività del sistema immunitario, ma anche come l’attività immunitaria condizioni l’attività psichica.
Il rapporto psiche e immunità è mediato: dalle citochine rilasciate dalle cellule immunitarie e dalle terminazioni libere ortosimpatiche. Entrambe queste condizioni concorrono alla infiammazione sistemica, che quando coinvolge il cervello porta ad alterazioni dei neurotrasmettitori e degli scambi sinaptici fra neurone e neurone. Un esempio è rappresentato da un eccesso di attività ortosimpatica che aumenta la produzione di noradrenalina che risulta eccitatoria sul locus coeruleus quest’ultimo implicato nella genesi degli attacchi di panico. Più adrenalina circola più si abbassa la soglia panicogenica, in altre parole più facile è avere attacchi di panico.
Conclusioni
Per concludere possiamo affermare che sesso, età, inquinamento, iperglicemia cronica/iperinsulinemia, disturbi psichici, condizione sociali, infiammazione cronica, sedentarietà, obesità, grasso viscerale, attivano una risposta epigenetica di fragilità verso le malattie infettive, nella fattispecie di tipo virale, con sovra-espressione di geni proinfiammatori e sotto-regolazione di geni che modulano la risposta immunitaria verso i virus.
Se una persona presenta un assetto epigenetico di questo tipo e incontra un virus come SARS-CoV-2, reagisce con una risposta immunitaria esuberante ma inefficace, e perfino dannosa per l’ospite stesso che si sta difendendo.
Data di Pubblicazione: 23 settembre 2021